Sono state le elezioni meno partecipate nella storia dell’Iran repubblicano, quelle tenute lo scorso primo marzo. È stato anche il voto meno competitivo degli ultimi quarant’anni, visto che erano escluse pressoché tutte le candidature legate all’opposizione o anche solo alle correnti più moderate e pragmatiche. Ma tutto ciò era ampiamente previsto: il voto non prometteva grandi sorprese, che infatti non ci sono state.
Vale la pena però di guardare più da vicino questa tornata elettorale, la prima dopo la grande ondata di proteste del movimento “donna, vita, libertà”, per ciò che rivela dell’Iran di oggi e le possibili implicazioni nel futuro. Anche perché gli iraniani erano chiamati a rinnovare sia l’Assemblea nazionale (il Majlis, un parlamento unicamerale), sia anche l’Assemblea degli esperti, cioè l’organismo che nella peculiare architettura istituzionale della Repubblica islamica ha il potere di eleggere (e in teoria anche destituire) il Leader supremo. E poiché gli esperti hanno un mandato di otto anni – e l’ayatollah Ali Khamenei, attuale Leader, ne ha 85 – è molto probabile che il consesso appena eletto sarà quello che dovrà occuparsi della successione al vertice. Paradossi iraniani: un leader che ha poteri quasi assoluti è nominato da un organismo eletto a suffragio universale.
Il primo dato da considerare è proprio l’affluenza al voto. Appena chiuse le urne, i media di Stato hanno riferito che hanno votato circa 25 milioni di iraniani, cioè il 41 per cento degli aventi diritto, proprio come previsto dagli ultimi sondaggi ufficiali alla vigilia del voto (altri sondaggi semiufficiali si fermavano al 38,5 per cento). Diversi commentatori dicono che il dato reale potrebbe essere più basso, e il ministro dell’Interno ha dichiarato che il 5 per cento dei voti espressi erano schede bianche o nulle. Poco importa: anche così, è l’affluenza al voto più bassa da sempre.
Eppure, i media ufficiali hanno commenti trionfali. Il voto è “uno schiaffo” ai nemici dell’Iran, ha scritto in prima pagina il quotidiano Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Teheran, saldamente controllata da correnti conservatrici). Elezioni “gloriose” secondo il quotidiano Keyhan, che riflette le voci più oltranziste del sistema, mentre il suo direttore è nominato direttamente dal Leader supremo. Keyhan ha scritto che “il popolo iraniano ha ignorato gli appelli a boicottare” il voto.
All’indomani delle elezioni, sui social media è circolato un filmato del 2002: un discorso in cui l’ayatollah Khamenei derideva gli Stati uniti dicendo che il 40 per cento di votanti sono il segno che “i cittadini non hanno fiducia e speranza nei propri dirigenti politici”. L’ironia è evidente.
La partecipazione al voto è sempre stata sbandierata come il segno della legittimità politica della Repubblica islamica e la diserzione dalle urne preoccupa l’establishment. Nei giorni precedenti, gli appelli al voto sono stati pressanti. Molta della comunicazione pubblica in Iran, anche quella ufficiale, avviene sui social media, dove sono ampiamente circolate immagini di eventi elettorali, in città di provincia, con folle che ballavano musica ad alto volume, perfino donne a testa scoperta – che del resto si vedono sempre più spesso per le strade, raro è semmai vederle in filmati ufficiali. In un segno di estrema tolleranza, un portavoce del Consiglio dei guardiani (l’organismo che controlla la legittimità costituzionale delle leggi approvate dal Parlamento e passa al vaglio le credenziali dei candidati) aveva risposto così alla domanda se le donne senza hijab possono votare: “Nessuna legge, nessun tribunale può togliere il diritto al voto a chicchessia”. Estremi tentativi di mobilitare l’elettorato, che però sono rimasti vani.
L’affluenza alle urne è stata bassa in particolare a Teheran: solo il 24 per cento degli elettori, secondo i primi dati, corretti poi dal ministero dell’Interno, che il 3 marzo, due giorni dopo il voto, ha parlato del 34 per cento. La capitale iraniana ha la più alta concentrazione di popolazione del Paese ed elegge 30 deputati, su 290. La metà dei seggi non è stata peròe assegnata per mancanza di voti, e servirà il ballottaggio. Interessante il caso dell’ex sindaco di Teheran, Mohammad Baqr Qalibaf, arrivato solo quarto nella capitale dopo che lui e la sua famiglia sono stati convolti in scandali e malversazioni finanziarie, simbolo di una classe politica che si arricchisce all’ombra del potere.
Il non-voto è un ovvio segno di protesta e ha coinvolto gli iraniani a diversi livelli. In un gesto eloquente, l’ex presidente Mohammad Khatami (primo riformista ad assumere la carica, dal 1997 al 2005) non è andato a votare: il suo collaboratore più vicino, l’ex vicepresidente Mohammed Ali Abtahì, ha dichiarato che era “l’unico modo per far sì che le sue preoccupazioni fossero ascoltate”.
L’opposizione riformista non ha partecipato al voto, anche se si è divisa sull’appello al boicottaggio. Il 12 febbraio scorso un centinaio di esponenti riformisti aveva anzi fatto appello a partecipare e avanzare candidature, nonostante il rischio di veto, per non lasciare tutto il terreno agli oltranzisti. Il Fronte delle riforme, alleanza (per la verità molto labile) di raggruppamenti riformisti e moderati, ha però rifiutato di appoggiare formalmente qualunque candidato. Così, nel prossimo Parlamento ci saranno forse una trentina di deputati moderati. Mai stati così tanto in minoranza.
L’appello a boicottare le urne è stato invece esplicito da parte di altri oppositori, dentro e fuori dal Paese: a cominciare dall’avvocata Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, detenuta nel carcere di Evin (Teheran). Così, mentre l’apparato di Stato cercava di corteggiare gli elettori, dall’altro si ha notizia di numerosi arresti tra blogger e operatori di social media accusati di “attentato alla pace pubblica” per i loro appelli a non votare. A febbraio del resto è stato anche dichiarato illegale l’uso di Vpn, i sistemi di “rete privata virtuale” molto usati per proteggere la propria privacy e aggirare i filtri della censura. In Iran sono diffusissimi, anche se l’acquisto o vendita di Vpn erano comunque già vietate.
Il trend del non voto in Iran è visibile già da alcuni anni, segno di una sfiducia ormai profonda in cui convergono diversi elementi. Primo tra tutti, le aspettative di benessere che sono sempre più frustrate. Nell’ultimo decennio il Paese ha visto diverse ondate di protesta interna: suscitate dai rincari del carburante o dei generi alimentari, hanno coinvolto soprattutto classi popolari, la sempre più ampia classe media impoverita o i numerosi giovani istruiti che non trovano lavoro. Queste proteste sono state represse con brutalità dal potere, che sembra particolarmente spiazzato dalla rabbia profonda delle classi popolari; nel 2019 si parlò di oltre 1.500 morti per le strade, con echi e critiche infocate fin nel Parlamento nazionale. La protesta di giovani e donne scoppiata dopo la morte di Mahsa Jina Amini in custodia di polizia, nel settembre del 2022, ha aggiunto un’altra dimensione: l’insofferenza verso un potere normativo e autoritario.
La partecipazione al voto è un sintomo di tutto questo. Il suo picco in effetti risale al 1996, quando votò il 73 per cento degli elettori (e fu eletto Mohammad Khatami, il primo presidente riformista). Ancora, ha ampiamente superato il 60 per cento nel 2012 e 2016 (le presidenziali che hanno eletto il moderato Rohani). Ma è scesa, anzi crollata dopo il 2019. Con il 42 per cento di votanti alle ultime politiche (2020), circa altrettanti nelle presidenziali del 2021, quando Ebrahim Raisi è stato eletto senza entusiasmo e praticamente senza rivali (tutti i concorrenti di qualche peso erano stati esclusi d’autorità).
Non a caso, anche diversi commentatori moderati sono da tempo allarmati per l’incomunicabilità tra Paese reale e rappresentanza politica.
Ma torniamo al voto. Cancellate di fatto le opposizioni (si stima che non più di una trentina di deputati su 290 siano riconducibili a correnti moderate), resta un Parlamento sempre più conservatore. Neppure questo però è un blocco unito, al contrario sono state presentate quattro liste più o meno oltranziste, in serrata competizione tra loro e dalle prime notizie, nella nuova legislatura si è rafforzata una nuova generazione di deputati ultraconservatori.
Non è ancora nota invece la lista degli eletti all’Assemblea degli esperti, ma anche qui ci sono segnali clamorosi. Uno è la sconfitta dell’ayatollah Sadeq Amoli Larijani, che ha perso il suo seggio: esponente di una famiglia di spicco della nomenklatura della Repubblica islamica, già capo della magistratura (dal 2009 al 2019), poi presidente del Consiglio di arbitrato (un’altra istituzione di controllo), è stato sconfitto da un esponente ancora più conservatore. La caduta dei Larijani è un segnale ed era già cominciata quando ad Ali Larijani, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale e poi presidente del Parlamento (2008-2020) era stato vietato di candidarsi alle ultime presidenziali.
Tutto ciò ha una logica chiara, la stessa che ha portato a impedire che tra gli Esperti si candidasse l’ex presidente Rohani. Si tratta di persone le cui credenziali dovrebbero essere al di sopra di ogni dubbio, dal punto di vista della Repubblica islamica. Segno che il vertice del sistema politico, cioè il Leader supremo e il suo strettissimo entourage vogliono avere il controllo più stretto dell’Assemblea, mentre si affilano i coltelli in vista della inevitabile, imminente successione (il nome di Ebrahim Raisi, presidente più impopolare e meno legittimato dell’Iran moderno, ora è tra i più gettonati come futuro Leader supremo). Per inciso, Raisi è stato invece eletto nella provincia orientale del Khorasan Meridionale.
I giochi per la verità sono aperti: un nuovo Leader, un organo collegiale, una nuova architettura istituzionale? Resta l’immagine di un potere arroccato, che pensa a come perpetuarsi, mentre il Paese reale è alle prese con gli affitti, il lavoro, l’inflazione.
Immagine di copertina: alcune iraniane ai seggi elettorali, 1 marzo 2024. Foto di Hossein Beris / Middle East Images via Afp.