La crisi economica continua e le risposte mancano: quelle dei politici come quelle degli esperti. La confusione che regna fra gli economisti, premi Nobel e non, è preoccupante. Le reazioni nazionali e globali alla prima ondata della crisi non sono bastate a rischiarare l’orizzonte, tanto è vero che si preannuncia una ricaduta: il double dip già sperimentato nella crisi del 1929.
Le terapie proposte non sono efficaci perché non riconoscono le radici della crisi. Ritenere che queste siano solo congiunturali e finanziarie impedisce di trovare soluzioni valide sia di emergenza sia ancora più durevoli nel tempo. La premessa per interventi efficaci è riconoscere che la crisi trova origine nei meccanismi fondamentali del sistema economico e sociale, ereditato dal secolo scorso; in una crescita squilibrata e insostenibile, in assetti produttivi instabili e riduttivi delle potenzialità del lavoro, nella diseguale distribuzione del reddito (e delle opportunità) fra paesi e all’interno dei paesi, e ancora più a fondo nel sovvertimento dei parametri su cui si sono costruite le identità del passato, con rischi di rottura del tessuto sociale e di divisione del paese. Se non si interviene su questi meccanismi i rimedi non colgono il segno e i sacrifici rischiano di essere inutili.
La crisi e le sue radici hanno dimensioni globali ma ci toccano pesantemente. È pericoloso consolarsi sostenendo che l’Italia reagisce meglio degli altri alle difficoltà, con più resilience, come dice Tremonti con termine equivoco. La nostra resilience esprime finora più capacità di galleggiamento che reazioni positive alle minacce economiche e sociali; addirittura sfrutta fenomeni anomali come la crescita del lavoro sommerso, dell’evasione fiscale e della illegalità diffusa.
Nella crisi del 1992 il governo e il paese reagirono non solo con misure di rigore ma con riforme lungimiranti, delle pensioni, della finanza locale, della sanità, del pubblico impiego; e l’Italia si riprese (sia pure temporaneamente).
Oggi preoccupa la poca consapevolezza della gravità della situazione e l’incapacità di reazioni sia a breve sia a lungo termine.
La manovra cosiddetta anticrisi è emblematica. Non solo non contiene misure strutturali di contrasto alla deriva economica del paese, ma ne nega in radice la necessità.
La mancanza di visione rende inefficaci, oltre che ingiuste, le stesse misure di emergenza. Applicare tagli indifferenziati alle spese e agli investimenti non serve per aggiustare i conti. Invece aggrava le diseguaglianze già cresciute a dismisura nel nostro paese; quelle diseguaglianze che sono alla radice delle divisioni sociali e dell’erosione del ceto medio che è stato nel secolo scorso un fondamentale fattore di stabilità sociale ed economica.
I tagli lineari contenuti nella manovra finanziaria, per di più concentrati sulle autonomie locali, uccidono ogni prospettiva di federalismo virtuoso, quel federalismo già così incerto e difficile. Colpiscono centri vitali per il futuro, come la scuola e la ricerca, mentre mantengono in vita i peggiori meccanismi della spesa pubblica, quelli di auto-mantenimento delle burocrazie, che è cresciuta di oltre 20 miliardi negli ultimi due anni. Il guaio è che nessuno ha il coraggio – se non a parole – di disboscare la giungla degli enti pubblici e parapubblici, ereditati da decenni di stratificazione burocratica e spesso clientelare.
Eppure solo così si può incidere sugli sprechi della politica e dell’amministrazione, e nello stesso tempo favorire la semplificazione. Non basta proclamare come fa il governo «azienda in un giorno», se restano decine e decine di diaframmi inutili fra cittadini, imprenditori e sistema economico.
Se si vuole invertire la tendenza si dovrebbero concentrare le risorse sui punti di eccellenza, che esistono anche nel pubblico impiego. Più in generale occorre bandire del tutto dalle organizzazioni pubbliche, ma anche dalle aziende, il criterio di anzianità e sostituirlo con sistemi di valutazione e di premio ai meritevoli, come diceva di voler fare Brunetta.
Tutti gli errori del governo
Non si può essere credibili verso i giovani finché nelle scuole, nelle università e nelle imprese continuano a prevalere criteri di anzianità, o peggio metodi clientelari, sulla valorizzazione del merito.
Altri esempi potrebbero essere addotti per motivare che misure di emergenza sono utili solo se finalizzate a invertire le tendenze di fondo. Ma occorre una visione, non accontentarsi di piccoli aggiustamenti aspettando che «passi la nottata».
Se è vero che sono entrati in crisi i meccanismi di crescita e gli equilibri sociali, occorre affrontare i problemi con categorie analitiche ed economiche nuove. Questo vale anzitutto per i partiti riformisti. La destra è meno condizionata dal suo passato ed è più spregiudicata nel rispondere ai variabili umori dei cittadini, oltre che nel cavalcarne le paure; può passare con disinvoltura da un liberalismo a senso unico all’interventismo paternalistico della social card, all’erosione dell’etica pubblica, causata dai conflitti di interesse e dai condoni.
Un esempio significativo di spregiudicatezza è la riscoperta, da parte di Tremonti, dell’economia sociale di mercato. La provocazione va raccolta perché segnala un orizzonte nuovo nelle logiche economiche.
Il centrosinistra dovrebbe approfondirne le implicazioni, che sono diverse da quelle di 60 anni fa, quando la formula trovò ascolto in Germania. La formula può avere applicazioni attualissime non solo per prendere le distanze da una fede secolare nell’autosufficienza del mercato, ma anche per cambiare i paradigmi di funzionamento dell’economia. Significa che le logiche economiche non sono autosufficienti ma devono essere corrette alla stregua di criteri diversi, ispirati appunto alla socialità. Cambia anche il senso della regolazione: non è sufficiente intervenire nei casi di fallimento del mercato, come si è ritenuto tradizionalmente anche dalla politica riformista. Tanto più nelle drammatiche vicende odierne, quando i fallimenti del mercato sono accertati ex post, i guasti si sono già prodotti e si possono solo risarcire le vittime. Ma ora non si fa neppure questo, perché si dice che non ci sono le risorse. Le politiche pubbliche hanno un compito più ampio, quello di favorire modi di funzionamento del mercato utili a promuovere obiettivi di interesse generale di sviluppo equilibrato e non speculativo, misurato non solo dall’aumento del Pil ma dal benessere sociale.
Le implicazioni sono molteplici e in piena controcorrente rispetto alle posizioni economiche prevalenti, non solo in Italia. Si tratta di misurare le performance economiche non solo nel breve periodo e con indicatori più complessi del Pil, come quelli suggeriti anche in sede internazionale (aspettative e qualità della vita, educazione, livelli di eguaglianza e di partecipazione); di combinare la qualità della crescita con l’equità della distribuzione della ricchezza, quindi col contrasto alle situazioni di monopolio e di rendita e con la valorizzazione di tutti i lavori come fonte di progresso economico e civile. Si tratta di riequilibrare l’allocazione di risorse fra produzione di beni privati e di beni sociali; per altro verso di contrastare l’assolutezza della concorrenza come criterio informatore dell’attività economica e di dare spazio a logiche cooperative e di partecipazione.
La società al centro e la partecipazione
L’economia sociale di mercato non può non essere un’economia della partecipazione. Il cambiamento necessario nei rapporti fra le parti sociali comporta non solo il superamento delle pratiche conflittuali «di classe» e della contrattazione come unico modo di comporre i conflitti sociali, ma l’aggiornamento delle stesse esperienze di partecipazione proprie del modello renano.
In questo quadro va vista anche la green economy, non come politica settoriale fra tante altre ma come fattore di innovazione trasversale del paradigma produttivo e di promozione di un modo di consumare e di vivere adeguato al benessere delle persone e alla vita del pianeta.
L’orizzonte dell’economia sociale di mercato segnala l’inadeguatezza non solo dei paradigmi economici prevalenti ma anche degli obiettivi e degli strumenti del welfare tradizionale. Il welfare è un’area di elezione delle politiche progressiste. Ma ciò non facilita un riesame critico dei risultati ottenuti nel secolo scorso da parte dei partiti che le hanno promosse. Anzi è forte la tentazione di questi di accontentarsi dei successi del passato.
Le difficoltà attuali del welfare non sono dovute solo all’ostilità dei nemici. Il suo impianto tradizionale, legato alle categorie storiche dei lavoratori (maschi adulti) e poco aperto ai nuovi bisogni, ne ha ridotto la capacità di intervenire sulle situazioni di crescente disagio di larghi strati di popolazione e di ridurre le diseguaglianze. Fino al punto di apparire lontano e inefficace per gli stessi lavoratori e cittadini destinatari. D’altra parte finché gli istituti di welfare continueranno a essere concentrati su trasferimenti di carattere indennitario e su settori specifici che assorbono una larga quota di risorse (si pensi alle pensioni e alle invalidità) continueranno a essere considerati come capitoli di spesa da ridurre, specie in periodi di crisi come questi. Un cambio di ottica del welfare è necessario per recuperare il suo valore storico di strumento di eguaglianza e di rassicurazione sociale. Lo è altrettanto, oggi più che mai, per fargli acquisire la funzione di elemento di promozione umana, di coesione e di mobilitazione sociale rispetto a obiettivi comuni. Un welfare universale, riferibile a tutti i lavoratori e cittadini e capace di attivare le persone che ne beneficiano, sostenendone i percorsi nelle varie fasi della vita, non è una spesa pubblica qualunque; è una risorsa collettiva, un motore dello sviluppo umano e sociale.
Muoversi verso questi obiettivi richiede, specie in Italia, una radicale riallocazione delle risorse dai capitoli tradizionali (pensioni) a quelli nuovi (famiglia, cura).
Implica decisioni controcorrente: allargare gli interventi oltre le categorie lavoristiche tradizionali, misurarsi con fenomeni inediti, quali disabilità e longevità, per orientare le tendenze demografiche verso l’equilibrio della convivenza umana, investire di più nell’educazione ai vari livelli, da quella dei bambini a quella continua nel corso della vita, togliendola dal rilievo marginale finora svolto.
Un welfare delle capacità e della conoscenza, oltre a correggere gli squilibri distributivi, comporta una riqualificazione del valore del lavoro, nel senso di arricchirne i contenuti di professionalità e il grado di autonomia, ora spesso declamata solo formalmente. Serve a dare al lavoro il carattere non solo di fattore materiale della produzione, ma di intelligenza diffusa necessaria a sostenere la competitività delle economie avanzate e a rendere produttivi gli stessi investimenti in ricerca, che sono utili solo se attivati da lavoratori e da imprese ad alti tassi di conoscenza.
Il nuovo welfare non può concentrarsi esclusivamente sull’individuo, ma deve considerare le persone nell’ambito familiare. La marginalità delle politiche familiari in Italia è sopravvissuta nel nostro sistema per motivi culturali profondi. Non solo o tanto il familismo, ma anche i forti legami di solidarietà che caratterizzano la nostra popolazione, peraltro alimentati dalle carenze del welfare pubblico. Tali caratteri sono da valorizzare, ma non possono indurci a eludere il problema di un riequilibrio dei carichi di cura dentro e fuori la famiglia.
La calibratura del welfare per coprire un capitolo nuovo dello sviluppo umano e sociale non si realizza solo con un riorientamento dell’azione pubblica, statale o regionale. Non si tratta solo di cambiare il «welfare State» ma di aprire la strada a un «community welfare».
Ciò significa coinvolgere nel welfare e nell’economia sociale la società civile nelle sue forme organizzate (dal terzo settore, agli enti bilaterali, al volontariato), e attivarne la partecipazione nelle decisioni collettive rilevanti. Questo è il senso vero della sussidiarietà come strumento di un nuovo welfare e dell’economia sociale. Il welfare sussidiario serve non per scaricare compiti indebiti sui privati e i relativi costi, ma ad arricchirne i contenuti e le possibilità di scelta facendo leva sulle energie e sulle capacità creative delle persone.
La gravità e la durata della crisi confermano che l’emergenza non è passeggera, che non ci si può appellare a essa per dilazionare interventi strutturali. Questi diventano sempre più urgenti. Ma le discontinuità da introdurre nel sistema economico e sociale sono tali che richiedono un «cambio di passo» a tutta la comunità nazionale. Né più né meno che una ripresa di «spirito patriottico», e una unità di intenti ancora lontana. Questo cambiamento si impone se non ci rassegniamo a subire passivamente i colpi della crisi e invece vogliamo promuoverne le opportunità.