Uscito su la Repubblica il 21 febbraio 2013
I comizi contano, e come, nella vita politica. Ben fatti, segnano punti in quella complicata effervescenza a tanti livelli che è il formarsi di un giudizio nell’opinione pubblica e di una decisione di voto nella mente degli individui. La sinistra ha storicamente imparato a sue spese che nel ’48 dopo le “piazze piene” ci furono le “urne vuote”, ma quella frase, attribuita al segretario socialista Pietro Nenni e condivisa, retrospettivamente, anche nel Pci di Giancarlo Pajetta, più che un teorema era una giusta recriminazione dopo la sconfitta del Fronte popolare.
Le grandi manifestazioni avevano riscaldato i cuori dei militanti e fatto dimenticare (e forse spaventato) milioni di silenziosi tinelli di diverso parere. Ma non vale certo il contrario: piazze vuote per per riempire le urne? Riunire tanti elettori davanti a un podio serve e si continuerà a farlo nei secoli.
L’idea che, prima, la tv e, poi, Internet e i digital media avrebbero sostituito i comizi è figlia delle proiezioni totalizzanti che sempre accompagnano, sbagliando, le novità tecnologiche: il motore a vapore sulle navi che avrebbe cancellato le vele, la televisione che avrebbe preso il posto della radio. Eppure ci sono oggi piú radio in circolazione che cinquant’anni fa e più vele in mare che in tutti i secoli passati. Le cose cambiano, le funzioni si specializzano, ma la comunicazione diretta, faccia a faccia, di un leader politico che convoca i cittadini in carne e ossa, ha tutta l’aria di sopravvivere a twitter, e persino di avvantaggiarsene. Scomparirà forse il piccolo comizio di quartiere, insieme al funzionario di partito che lo faceva, davanti a qualche decina di persone, salvo che non tornino i tempi eroici raccontati da Miriam Mafai, quando si parlava anche davanti a tante persiane chiuse.
La presenza fisica è una testimonianza, un incomodo che pesa e si ricorda. Ed è un fatto indiscutibile che il politico nei luoghi dove vuole prendere voti ci deve andare; non basta che si mostri in tv e sui manifesti. La campagna di Grillo, rifiutando la televisione, ha accentuato la contrapposizione: eccoci qui in piazza con voi elettori e non in video come “tutti loro”. Con una sola mossa il politico show-man si sottrae a un confronto di dettaglio sul da farsi dopo il voto, e valorizza la sua diversitá. Il confronto sui numeri cattura così l’attenzione più che in passato, quando a una sinistra con una vocazione per i comizi, si contrapponeva il Cavaliere delle “convenscion” e dei fondali azzurri, in teatro; mentre la Lega a Pontida faceva partita a sè, sui prati.
Il politico ci deve mettere il suo corpo e la sua voce dal vivo. Obama nel 2008 riuscì a vincere la sua battaglia più risicata, quella contro Hillary Clinton nelle primarie, concentrando le sue forze sullo Iowa. E certo andandoci a fare comizi, perché scegliere la posizione in battaglia, dall’Iowa all’Ohio dalla Sicilia alla Lombardia è più di metà della strategia: dove investire le risorse umane, dove spendere il tempo limitato del leader. Una buona regia si dedica non solo a tenere “allineato” il messaggio e a evitare sbandamenti fuori cornice – ha spiegato David Plouffe, pilota delle campagne del presidente americano – ma soprattutto a studiare la carta geografica delle elezioni: dove portare il candidato a parlare, negli stadi, nelle piazzette e anche in luoghi più raccolti sopra una panca di legno: a volte ottantamila persone, a volte poche centinaia, ma decisive. La campagna elettorale non si guida da una consolle elettronica insieme a qualche spin-doctor, bisogna anche consumare suole di scarpe. E la vittoria avanza sulle gambe di migliaia di volontari. “Non c’è per un messaggio un corriere più efficace di coloro che ci credono e che l’hanno autenticamente abbracciato” (The Audacity to Win, Viking 2009).
E qui è chiara la funzione dei comizi. L’elettore non è un individuo isolato esposto alla comunicazione che piove dai media, vecchi e nuovi, è sempre qualcuno che sta in rapporto con altri, in famiglia, al mercato, dal parrucchiere, è qualcuno che dialoga con amici presenti e anche mentalmente con gli assenti, vivi e persino con i morti, nella sua memoria. La mobilitazione politica agisce dal centro di comando di un partito per cerchi concentrici, dall’area dei militanti e attivisti più continui ai volontari occasionali, ai simpatizzanti, agli elettori moderatamente orientati in favore, fino al mare vasto degli indecisi.
Le analisi di Paul Felix Lazarsfeld, già dagli anni Cinquanta, hanno dimostrato come la formazione dell’opinione non avviene per somministrazione di massa di nutrimenti politici con la propaganda: la chimica politica è più complicata di una endovenosa, ciascun elettore subisce una varietà di influenze e altre ne esercita. Ci sono diversi gradini in questo flusso: le persone sono diverse per il loro grado di “competenza civica” e diverse anche nel desiderio e nella capacità di partecipare alla vita pubblica. I digital media hanno reso queste interazioni molto più intense, hanno moltiplicato le conversazioni ed esteso la portata della voce di ciascuno.
Ma in questo ambiente a molti livelli, l’incontro fisico e di massa, nelle manifestazioni di piazza, rappresenta una scossa che rimescola i giochi, ha un potere di autoconferma, di rinforzo, di motivazione che conferisce maggiore energia ai militanti nell’esercitare influenza sui cerchi più larghi. È vero che la democrazia postmoderna tende a trasformare gli elettori in audience, in pubblico su cui lavora il marketing politico, dominato largamente dalla tv (e chi lo nega in Italia si rende ridicolo e va guardato con sospetto), ma la trasformazione ha dei limiti obiettivi: la interazione diretta e reale sul suolo pubblico si prende le sue rivincite.