Questo articolo è uscito su La Repubblica il 14 marzo 2014
Il salto di stile nella comunicazione del primo ministro, tra Renzi e i suoi predecessori, tutti, compreso il già disinibito Berlusconi, è molto alto, tanto che qualcuno potrebbe anche farsi male. Le intenzioni dello show “con slides” sono chiare e ricordano certi cambi di management nelle aziende decotte, quando arriva il tagliatore di costi (e di teste) che vuole dare un segnale scioccante: niente sarà come prima, la “svoltabuona”. L’annuncio della vendita su e-Bay di 1500 auto o la chiusura di sedi regionali Rai sono questo genere di segnali, anche se di problematica realizzazione. È come nei racconti di duri e spietati capitani d’impresa che chiedono a tutti i “quadri” di lasciare sul tavolo dell’amministratore delegato le carte di credito aziendali. Lo shock in quei casi funziona. E anche la battuta più forte di Renzi è chiara: «Il nostro avversario è chi dice: “si è sempre fatto così”».
Il manager che prepara il grande down-sizing di solito ha di fronte una platea di scettici o di increduli, che ritengono che poi tutto si aggiusterà e tornerà come prima. In America circola ancora qualche vecchio ingegnere IBM che non si dà pace del fatto che inventori di impalpabili applicazioni, “aria fritta”, o di tavolette sottili abbiano spazzato via tanti computer grandi e solidi come valigette e, insieme, il loro maestoso ufficio con vista. Ma il nostro presidente del consiglio non aveva di fronte le vittime del taglio – quelli sono sullo sfondo, da qualche parte e scuotono la testa – ma solo i giornalisti, che cercano riscontri tra gli annunci e quel che poi davvero si riesce a fare, e che vogliono notizie sulle coperture. Proprio perché la via è stretta, Renzi ha scelto di dare spettacolo, come mai prima in un annuncio del governo, perché almeno le intenzioni restassero chiare e memorabili, a cominciare dall’aumento per i salari sotto i 1500 al mese – il tema dominante della colonna sonora – e perché su tutto l’insieme si imprimesse l’idea che il cambiamento è “in-cre-di-bi-le” e “irre-ver-si-bi-le”. Ha trasformato l’annuncio in divertimento, l’informazione in uno show con pesce rosso. Come l’info-tainment, che è già entrato da tempo nella nostra vita con le amenità rosa e nere dei tg, come l’edu-tainment, che vuol dire preziosi strumenti di gioco e apprendimento per grandi e piccini, stiamo tuffandoci nella poli-tainment, ma anche questa ormai parola non nuova nella letteratura politologica, specialmente tedesca (Rudi Renger, Thomas Meyer), e sospettata di affinità con la cosiddetta placebo-politik. Insomma una variante aggiornata e teatrale della propaganda, che peraltro nella vita politica è ingrediente ammesso, purché poi alle promesse seguano risultati, almeno in buona percentuale.
Trattare la politica come intrattenimento è ormai una forma corrente di gestione delle pubbliche discussioni in tv: i talk shows sono da decenni condotti in un modo che ha da essere spettacolare e arricchito da risvolti personali, almeno da quando alle tribune politiche con Togliatti, Fanfani e Nenni si è sostituito il Costanzo show, con tutto quel che ne è seguito. Anche la Bbc ha intitolato “Show-politics” una delle sue trasmissioni popolari, poi diventata “Sunday-politics”: sono dibattiti settimanali in cui si cerca di verificare le conseguenze della politica sulla vita di tutti i giorni. L’uso di sceneggiare le presentazioni in modo da trasformarle in spettacolo e riempire i teatri riguarda anche la divulgazione scientifica e di qualunque genere di serio sapere. La formula TED, che porta in video le conferenze di importanti accademici, ha bisogno di proiezioni grafiche che rendano divertente la presentazione. E TED non significa altro che “technology, entertainment, design”: il tema ha bisogno di prendere forma visiva e ritmo nella esposizione. Nel 2007 non per caso il premio TED è andato a Bill Clinton, di cui è nota la capacità di tenere la scena meglio di qualunque conduttore televisivo. La sua conferenza sulla ricostruzione del Rwanda è sempre visibile sul web: luci abbassate, sullo sfondo scuro le immagini di Gandhi, Darwin, Madre Teresa: il testo preparato e recitato con il senso dei tempi, con voce e pause impostate, perfettamente dentro il limite dei 18 minuti, lo standard insuperabile di questa formula. Intrattenimenti memorabili erano anche le presentazioni di Steve Jobs, dove anche tempi e immagini erano guidati da una sceneggiatura.
Ora tutti possono permettersi con uno smart-phone, se vogliono, di raggiungere i loro amici. Si tratta di una comunicazione di massa individuale, come la chiama Manuel Castells, ed è una forma di consolazione per chi non va in televisione, ma il desiderio di contatto diretto finisce per contagiare irresistibilmente anche chi sta al vertice, capi di governo e di stato compresi. Obama si fa un selfie e persino il Papa si presta. Li spinge il desiderio di umanizzare e “disintermediare” la relazione con la gente comune. Ora lo show, con una traccia preparata, e con “design”, ha raggiunto da noi anche il momento ufficiale di una comunicazione di intenzioni del governo. Presto se ne ricaverà un TED con le luci abbassate, da studio tv?
Personalizzando all’estremo la sua esposizione, Renzi ha alzato la posta del suo rischio personale, che è anche l’ingrediente principale dello spettacolo: “Se non arrivano gli aumenti a maggio sono un buffone”. C’è molto scetticismo tra i suoi avversari dichiarati e coperti. Dovrebbero meditare il celebre detto di Einstein, secondo il quale a volte “un problema appare insolubile agli scienziati più esperti fino a che arriva uno sprovveduto e lo risolve”. È chiaro che se lo “sprovveduto” non ci riesce gli scienziati saranno confortati nella loro sofisticata impotenza, un po’ come nei desideri di certi ingegneri della vecchia IBM davanti ai trionfi di qualche ragazzino fantasioso; se invece lo “sprovveduto” ce la fa, grande sarà la soddisfazione generale, e amaro lo scorno di chi non ci era arrivato mai prima.
Finora mi sembra che le misure annunciate non siano nulla di geniale ma tentativi di applicare puro e semplice buon senso alla situazione italiana.
Se il premier non riuscirà a metterle in pratica, forse non dovremo concludere che sia un buffone, come egli stesso ci ha invitato a pensare in tale eventualità, ma che il buon senso sia inapplicabile nel nostro paese.
A quel punto la domanda sarebbe: perché?