L’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi non è un bel posto per intellettuali, giornalisti, insegnanti, oppositori politici, in breve per le voci libere. L’ennesimo arresto di un attivista per la difesa dei diritti fondamentali – il 27enne egiziano Patrick George Michel Zaky Suleiman – non fa che rafforzare quanto la comunità internazionale già sapeva, ma preferisce ignorare per ragioni di convenienza, economica e strategica.
Il caso del giovane ricercatore, tuttavia, apre interrogativi e incognite su cui sarebbe meglio riflettere, perché, alla lunga, le conseguenze della remissività politica dei maggiori partner del Cairo potrebbero essere più pesanti del previsto.
I fatti
Nel settembre del 2019, Patrick George Zaky ha iniziato a frequentare un master in Studi di genere e delle donne presso l’Università Alma Mater di Bologna: si tratta di una laurea magistrale facente parte del circuito Erasmus Mundus, cui si accede previa selezione. Terminati gli esami previsti dal suo piano di studi per il primo quadrimestre, il ragazzo ha deciso di fare rientro in Egitto per vedere la famiglia, residente nella capitale ma originaria di Mansoura, nel Delta del Nilo.
Al suo arrivo all’aeroporto del Cairo, il 7 febbraio, è stato fermato dagli agenti di sicurezza, riuscendo però ad avvisare il padre prima che gli fosse sottratto il cellulare. Poi, del ragazzo si sono perse le tracce per oltre 24 ore, quando la sua ubicazione è stata infine resa nota ai famigliari e agli avvocati: il carcere della città di Mansoura, dove si trova in custodia cautelare.
Le accuse mosse nei suoi confronti sono quelle di fomentare manifestazioni anti-governative, pubblicare notizie false sui social minando l’ordine pubblico, promuovere l’uso della violenza e danneggiare l’immagine del Paese.
Quando, dopo due giorni di custodia cautelare, gli è stato permesso di incontrare uno dei suoi legali e i famigliari, tutti per pochi minuti, Patrick ha detto di essere stato bendato per dodici ore, picchiato e sottoposto a elettroshock con cavi elettrici per altre sette. Una modalità che non lascia bruciature sul corpo.
Il 15 di febbraio, il giudice della corte di Mansoura, durante un’udienza di appena dieci minuti, ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dagli avvocati: il giovane pertanto rimarrà in prigione almeno fino al 22 febbraio. Ai suoi legali, in ogni caso, non sarà possibile presentare un’altra richiesta prima di un mese.
In aula Patrick ha riferito al giudice dei maltrattamenti subiti. Nessuna motivazione è stata fornita per la conferma della custodia cautelare, la legge non lo richiede.
All’udienza lampo hanno potuto assistere, in rappresentanza dell’Unione europea, due diplomatici, un italiano e uno svedese, oltre a un collega statunitense e a uno canadese. Fuori dal tribunale di Mansoura, alcuni rappresentanti dell’ong Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), per la quale il ragazzo ha lavorato, hanno atteso invano il suo rilascio.
Perché proprio Patrick Zaky
Il ricercatore non sapeva di essere finito nel mirino dei servizi segreti egiziani, anche se alcuni segnali avrebbero potuto indurlo a meditare il rientro in patria con maggiore oculatezza.
Secondo Human Rights Watch, a seguito delle manifestazioni anti-governative esplose in Egitto il 21 settembre 2019 e innescate dai video di denuncia dell’imprenditore Mohammed Ali, oltre 4400 persone sono state arrestate: professori universitari, avvocati, intellettuali, giornalisti, attivisti. Di queste, almeno 2000 sono ancora in carcere, in virtù di una legge anti-terrorismo che permette ai giudici di reiterare la custodia cautelare per due anni.
Zaky non era in Egitto a settembre, ma si è espresso apertamente contro la presidenza sul suo account di Facebook.
Probabilmente, il ricercatore era già sotto la lente di ingrandimento delle autorità egiziane per la sua collaborazione con l’Eipr, una fra le più note ong nazionali, impegnata nella difesa dei diritti delle minoranze, dei prigionieri, delle donne: negli ultimi mesi, 9 membri dell’organizzazione sono stati arrestati e interrogati, seppure rilasciati dopo 48 ore. Zaky si batteva anche per i diritti della comunità cristiana del Nord del Sinai, sfollata per l’avanzata degli jihadisti del Daesh nella regione, e delle persone Lgbt, discriminate e criminalizzate nel Paese nordafricano.
Ora i suoi avvocati chiedono di avere accesso al materiale raccolto contro di lui dalla polizia: i media governativi riferiscono di dieci pagine di post Fb, foto e registrazioni che ne attestano pure l’omosessualità (un reato in Egitto).
Un quadro che riempie di ansia la famiglia, chiusasi a riccio dopo i primi giorni di apertura alla stampa internazionale: c’è il rischio che al ragazzo, dopo anni di custodia cautelare, sia comminato persino l’ergastolo. Il sospetto dei legali e dei conoscenti di Zaky è che i servizi egiziani abbiano infatti “confezionato” un pacchetto probatorio ad hoc contro un giovane attivista scomodo, più volte intervenuto anche sul caso di Giulio Regeni.
L’ombra lunga di Giulio
Il referendum costituzionale tenutosi in Egitto nel mese di aprile 2019 ha spianato la strada al presidente al-Sisi per una riconferma fino al 2030 e consegnato ai militari i gangli nevralgici del Paese: di fatto, ad oggi vige il divieto quasi totale di manifestazione, mentre l’indipendenza della magistratura è seriamente erosa e le Forze armate monopolizzano economia e spazio pubblico.
Gli effetti si fanno sentire: secondo le maggiori ong locali e internazionali, il cui lavoro è ostacolato da una legge di recente approvazione che ne limita il perimetro, il numero dei detenuti per ragioni politiche potrebbe superare quota 60mila (ai tempi della dittatura di Hosni Mubarak le stime erano di 40mila).
Di molti di essi, fermati dai servizi segreti militari e fatti sparire, non si conosce il destino. E difficilmente lo si conoscerà mai, visto che i media subiscono un controllo puntuale, fino al silenzio: siti, blog e piattaforme di informazione indipendente sono stati oscurati a centinaia (secondo Human Rights Watch sono più di 600).
Nonostante questo, un ragazzo che va e viene da un Paese europeo portandosi appresso solo il suo bagaglio di studi sociali ed entusiasmo democratico fa paura, proprio come faceva paura e dava fastidio il 28enne friulano Giulio Regeni.
Non è chiaro se, come hanno scritto alcuni mezzi di comunicazione italiani, Zaky abbia detto oppure no ai propri legali di essere stato interrogato ripetutamente sui suoi presunti rapporti con la famiglia Regeni in Italia. I genitori di Patrick hanno smentito e vigorosamente cercato di ricondurre la vicenda del figlio all’ambito egiziano, già abbastanza complicato.
Nell’opinione pubblica italiana, in ogni caso, l’ombra lunga di un evento così tragico come l’assassinio di Giulio difficilmente sarà cancellata. E qualsiasi nuova ingiustizia richiamerà alla mente l’orrore di quella fine.
Punto di non ritorno
Il corpo martoriato di Giulio Regeni fu ritrovato – o fatto ritrovare – il 3 febbraio del 2016 sulla super strada che dalla capitale egiziana porta ad Alessandria.
Il ricercatore, sparito nel nulla il 25 gennaio, anniversario dell’inizio della rivolta popolare del 2011, era un dottorando in Studi sociali dell’Università britannica di Cambridge. Si trovava in Egitto dal settembre del 2015. Conduceva una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani: un argomento delicatissimo, visto che proprio le organizzazioni sindacali sono state la culla della rivolta popolare del 2011.
Le indagini condotte dalla Procura di Roma sono state ostacolate dalle autorità egiziane con depistaggi e silenzi complici. Tuttavia, ad oggi una parziale verità è stata ricostruita: un ramo dei servizi segreti militari egiziani seguiva Regeni fin dal suo arrivo al Cairo, ipotizzando che facesse parte di una rete spionistica straniera. Rapimento, interrogatori sotto tortura e infine uccisione furono autorizzati ai massimi livelli della catena decisionale militare. Gli inquirenti italiani hanno messo nero su bianco anche i nomi di agenti e ufficiali coinvolti, ma da parte egiziana non vi è mai stata piena collaborazione.
Ed è a questo punto della storia che si è creato un vulnus insanabile.
Al niet egiziano, Roma non ha risposto adeguatamente, finendo per compromettere per sempre l’autorevolezza del proprio ruolo nel Mediterraneo intero, se non addirittura sullo scacchiere mondiale. L’incapacità italiana di utilizzare leve politiche ed economiche per ottenere giustizia, infatti, è un precedente che nessuno dimenticherà: di fatto, tale impotenza espone un qualsiasi cittadino tricolore al rischio di subire la medesima sorte di Giulio ovunque nel mondo, poiché nessuno sarà chiamato a risponderne.
Lo stesso vale in parte anche per le altre cancellerie europee, assenti nel momento del bisogno di un Paese fondatore.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il regime al-Sisi si accanisce ogni giorno di più nei confronti dei propri cittadini residenti, di quelli con doppio passaporto e pure di quelli che hanno forti legami con l’estero, come Patrick. Il fenomeno si inasprisce senza freno.
Si pensi al caso di Mustafa Kassem, cittadino egiziano con passaporto statunitense arrestato nell’agosto del 2013, durante le proteste contro il colpo di Stato militare anti-islamisti. Detenuto per cinque anni prima di essere processato e condannato in via definitiva, Kassem faceva parte di un gruppo di oltre 700 detenuti arrestati nel medesimo contesto. Diabetico, malato di cuore, secondo quanto riferito da famigliari e legali Mustafa non ha mai ricevuto cure adeguate. Un mese fa è morto in carcere. Per lui, dopo una campagna internazionale, si era spesa pure l’amministrazione Obama. Tutto inutile.
Il prezzo della realpolitik
L’argomentazione addotta da una parte degli osservatori italiani è, in sintesi, che l’Egitto è troppo importante in termini energetici, politici, militari per rischiare di consegnarlo ad altre alleanze irritandone i suoi vertici. Tocca sopportare e sperare che la Storia inghiotta Giulio Regeni e tutti gli altri.
C’è un momento in cui persino la realpolitik, però, può diventare controproducente. In questo caso, è il momento di chiedersi con schiettezza: serve davvero buttarsi dietro le spalle l’omicidio efferato di un proprio cittadino per conservare relazioni commerciali e politiche con un Paese dal destino incerto, poiché in mano a un totalitarismo cieco e paranoico? E se la posta continuasse ad alzarsi?
Il caso di Patrick George Zaky ci dà qualche risposta. Sabato 15 febbraio, come scritto, quattro diplomatici stranieri hanno assistito all’udienza in tribunale. Il permesso è stato loro accordato per ‘calmare’ le reazioni delle diplomazie italiana, europea e americana alla notizia dell’arresto del ricercatore. Tuttavia, le autorità egiziane hanno dimostrato di non voler arretrare di un passo rispetto alla loro consueta gestione del dissenso: Patrick rimane in carcere, le accuse di tortura sono state respinte al mittente, il giovane viene screditato dalle testate giornalistiche filo-governative con rancoroso furore.
L’abbaiare del mondo occidentale, non serve a nulla, insomma.
Neanche a tenere Il Cairo con lo sguardo fisso verso Ovest: le relazioni economiche egiziane con Russia e Cina, infatti, sono sempre più strette. Basti pensare che l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ha accettato entusiasticamente di diventare un tassello nevralgico della nuova Via della Seta cinese.
E allora rieccoci al punto di partenza: quando una democrazia compiuta non è in grado di difendere i propri cittadini, né da vivi né da morti, ne risentono, nei diversi scenari in cui essa dovrebbe giocare un ruolo di primo piano, autorevolezza e credibilità. E, a ruota, pure i risultati economici.
Il pensiero va alla Libia, all’Iraq e ovunque interessi e presenza italiana richiedano un impianto politico solido, in grado di reggere momenti di contrasto anche aspro con partner di lungo corso e pure di farsi capofila di iniziative diplomatiche allargate. Perché alla lunga, la storia lo dimostra, chi pecora si fa il lupo se lo mangia. E di lupi, nel Mare nostrum, ce ne sono molti.
Foto: Marco Bertorello / AFP