Anche la ministra Elsa Fornero, nonostante il clima “lacrime e sangue”e il Pil che si assottiglia, ha sentito il bisogno di dare un piccolo segnale di apertura a proposito delle mamme che lavorano o che vorrebbero continuare a farlo anche dopo la nascita di un figlio. Ha infatti stabilito, a margine della Riforma del lavoro, un minuscolo congedo di tre giorni per tutti i padri. Per un limitato numero di madri invece si sperimenteranno i voucher, 300 euro per 6 mesi, spendibili in baby sitting o in asili nido. Non è molto, ma può essere una prova che l’allarme lanciato nell’ultimo anno sulla condizione sempre più preoccupante della maternità nel nostro paese, fra gli ultimi al mondo nella graduatoria della fecondità, comincia a dare qualche (modesto) risultato. E forse si comincia ad aprire gli occhi sul paradosso di un’Italia tradizionalmente mammista, dove l’esaltazione della figura materna è ancor oggi un tratto dominante della cultura nazionale. Ma dove le madri in carne ed ossa, almeno nel mondo del lavoro, sono spesso guardate con fastidio, emarginate o addirittura mobbizzate, con lo scopo di rimandarle a casa. Come mi aveva detto una delle molte mamme che ho intervistate per il mio libro “O i figli o il lavoro” (Feltrinelli, 2012) «quando sono tornata al mio posto dopo la nascita della mia bambina mi sono trovata in un altro mondo. Il mio capo quasi non mi salutava, i colleghi non venivano a farmi i complimenti come mi sarei aspettata. Poco a poco ho capito che per loro ero diventata un peso».
Già, ma perché questa metamorfosi? Che cos’era successo nella testa di quelle e di tante altre persone? Schematizzando molto credo si possa dire che in Italia non sono mai stati fatti i conti fino in fondo con la trasformazione epocale del ruolo delle donne. Ancora una cinquantina di anni fa la decisione di lavorare non era un passaggio obbligato o largamente desiderato. La stessa struttura economica della famiglia si basava sulla figura del maschio breadwinner, il capofamiglia che con il suo stipendio provvedeva in modo prevalente e spesso anche esclusivo a mantenere tutti quanti. La moglie a sua volta si assumeva i compiti del lavoro di cura, all’interno dello spazio domestico. Più lentamente rispetto agli altri paesi europei questi equilibri si sono andati modificando. La famiglia è diventata quasi un cantiere in ristrutturazione e la donna si è conquistata, anche sul terreno del diritto, il ruolo di partner ormai paritario della coppia.
Non voglio rifare qui una storia nota, ma è indubbio che la crescita, arrivata fino al sorpasso, dell’istruzione femminile ha favorito un ingresso crescente delle donne nel mercato del lavoro. La convinzione, sempre per usare le parole di un’altra delle madri del mio libro, che «i miei figli e il mio lavoro sono le due metà della mia vita» si è sempre più diffusa. Ma del fatto che la mamma-icona nel frattempo fosse uscita di casa per entrare negli uffici e nei call center e perfino nell’esercito molti non hanno saputo o voluto prendere atto. Non lo hanno fatto gli uomini, che anche nel nuovo secolo, pur accettando a parole il lavoro delle loro compagne, stentano a riconoscere che in casa la musica è cambiata e anche i lavori di cura devono essere condivisi. Non ne ha tratto le conseguenze sufficienti la politica, che pure fino agli anni ’90 aveva costruito buone leggi. Ma che poi, fra difficoltà economiche e aumento rapido del lavoro femminile , invece che adattare le norme (e il welfare) ai nuovi tempi ha cercato di depotenziare tutti e due.
Non meno responsabili sono stati i datori di lavoro. Invece di prender atto che ormai le donne sono parte integrante del nostro sistema produttivo e che con la loro condizione di madri è indispensabile fare i conti, come succede nei maggiori paesi dell’Occidente, hanno scelto spesso di irrigidirsi e di rifiutare anche la più ragionevole flessibilità. Perfino essere assunta, per una donna in età di fare figli, sta diventando una corsa ad ostacoli. E come se non bastasse ha preso piede la pratica inaccettabile delle dimissioni in bianco. Con l’arrivo del lavoro precario e con le sue tutele deboli e in certi casi inesistenti della maternità si è verificato il corto circuito. Spesso le ragazze precarie, per non essere lasciate a casa, arrivano a nascondere il pancione nei camicioni o a stringerlo nei bustini come le “disonorate” dell’800.
Queste condizioni, che stanno rimuovendo pericolosamente l’idea di maternità come diritto individuale e come funzione sociale, hanno dato origine al convegno “Figli o lavoro. La maternità negata”, organizzato dal gruppo di scrittrici e giornaliste di Controparola alla provincia di Roma (30 novembre, dalle 9.30 alle 18).
Sul campo di battaglia che è diventata oggi la maternità si confronteranno fra le altre la sociologa Chiara Saraceno e la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, la scrittrice Dacia Maraini e l’economista di Bankitalia Magda Bianco, le demografe Carla Collicelli e Linda Laura Sabbadini , la pedagogista Susanna Mantovani e la giurista Donata Gottardi come la dirigente di Microsoft Italia Roberta Cocco. Con l’obiettivo, oltre che di denunciare una condizione inaccettabile, di proporre qualche rimedio possibile prima che l’Italia arretri a una condizione premoderna.