Una crisi alimenta disillusione e rabbia, il che è comprensibile. Ma conduce a una temperie corrusca e conflittuale nella quale due tensioni coesistono e si fertilizzano a vicenda: la ricerca di un colpevole cui riferire ogni possibile danno, e al tempo stesso la nostalgia per un ordine che si finisce per credere sano e coerente mentre era soltanto rassicurante.
È la crisi della cultura e dell’arte, i cui pilastri istituzionali e in buona parte dogmatici si trovano già sull’orlo di un salutare precipizio; è, ovviamente, la crisi di un paradigma economico e sociale che ci è stato descritto per più di due secoli come l’età dell’oro, in una sbornia escatologica del tutto impropria che si è consolidata per effetto della fissazione etica che ne ha neutralizzato critici e avversari.
Il paradosso di questa deriva dimensionale è che nella sua culla la cultura è stata inventata come oggetto di scambio sociale, è stata adottata come fedina penale di una borghesia aggressiva e volgare, è stata trasformata in un rifugio sentimentale per bruti altrimenti dediti alla sopraffazione e all’accumulazione; e ha finito per traguardare la società dividendola in colti contro ignoranti.
Ma l’economia si è mai occupata di cultura? È vero certamente il contrario, che schiude un affresco significativo di come un palese complesso di inferiorità nei confronti del paradigma dimensionale abbia stimolato la cultura a sostituire progetti e ragionamenti con pubblico di massa, ricavi da botteghino, eventi blockbuster e tutto un armamentario in fondo bieco e meccanico caratterizzato da manifestazioni di forza.
Possiamo risalire a Gary Becker, che riprende il tema marshalliano dell’utilità crescente e lo declina in cultural addiction: l’urgenza di esperienze culturali è assistita da un processo di formazione del gusto, di apprendimento e apprezzamento, che sprigiona un incessante e crescente dialogo di senso e contenuti nella sfera cognitiva di ciascun individuo. L’addiction influenza il desiderio di partecipazione (e anche la disponibilità a pagare), e richiede una qualità crescente; ma attenzione, qualità non può voler dire certificazione convenzionale del valore iconico, come è avvenuto per oltre due secoli dalla presa della Bastiglia alla crisi dei subprime; qualità è – nei sani intenti di individui normali e per questo paradigmatici – la capacità dialogica con cui l’offerta culturale si rivolge ai propri fruitori perché ne possano estrarre il valore.
Potrà sembrare banale, ma la teoria della cultural addiction contraddice palesemente tutti i protocolli ammuffiti e autoreferenziali dai quali l’offerta culturale è tuttora asfissiata, tra arroccamenti protervi e spettacolarizzazioni velleitarie. Eppure, considerandola seriamente potrebbe rivelare anche ai più scettici il dipanarsi di mercati culturali estesi e generosi, di opzioni creative, produttive e di scambio impensabili fino a qualche tempo fa, di un’irrinunciabile centralità delle persone a scapito della dogmaticità mosaica delle istituzioni.
Ben prima di Becker ci aveva pensato John Maynard Keynes, economista ma soprattutto uomo di cultura, anima lucida ed entusiastica di Bloomsbury, esperto di finanza, intenditore appassionato d’arte; amico di Virginia Woolf, compagno di sentimenti del pittore Duncan Grant, marito della danzatrice Lydia Lopokova, Keynes vedeva cose che gli altri umani non avevano ancora immaginato. I suoi convincimenti sul sistema culturale non possono essere disgiunti dalla sua concezione dell’economia, e soprattutto – oggi la cosa tornerebbe davvero utile – dalla sua percezione della crisi come stato ordinario e fisiologico del paradigma capitalistico manifatturiero. Pur non essendo nostalgico dell’ordine precedente con tutte le sue scompostezze Keynes mette a fuoco in modo eloquente la fragilità endemica di un mondo orientato all’accumulazione dimensionale e alla competizione radicale, in cui la funzione prevale sulla rappresentazione, l’effetto delle scelte prevale sulla loro ispirazione.
La visione di Keynes appare incisiva e delicata al tempo stesso: l’arte e la cultura richiedono certamente un’azione pubblica che ne incentivi l’emergere e ne consolidi la crescita e la diffusione; essa deve comunque salvaguardare e proteggere la libertà dell’iniziativa privata, dal momento che «la creatività individuale richiede un impegno libero, non disciplinato, non irreggimentato, incontrollato». Ogni possibile forma di controllo governativo va pertanto evitata, e le organizzazioni artistiche e culturali devono essere messe in grado di reggersi autonomamente; in questo senso lo Stato deve dare «coraggio, fiducia e opportunità» soprattutto in forza di una sostanziale esenzione fiscale per gli artisti creativi e per le organizzazioni del settore (si badi che qui non si parla delle imprese che sponsorizzano!), di forti incentivi indirizzati alla creazione artistica, e di sostegno progressivo alla domanda di cultura.
Si tratta di cose semplici ma potenti, scritte tra il 1936 e il 1945. C’è di più: la concessione gratuita di spazi e infrastrutture in cui realizzare spettacoli e altre iniziative culturali in modo da fornire un concreto sostegno alla produzione; l’esposizione precoce del pubblico potenziale all’esperienza artistica, ad esempio attraverso la trasmissione radiofonica della musica classica; con questi strumenti si può facilitare la capacità delle organizzazioni culturali di reggersi sulle proprie gambe. Sono incentivi reali, cose e servizi, non certo elemosine finanziarie. E rivelano un’attenzione chiara all’evoluzione della realtà, alle opzioni tecnologiche, alla molteplicità di canali attraverso i quali l’arte e la cultura esprimono e rafforzano il proprio valore.
Che destino ha avuto questa visione diretta e concreta delle cose? Ovviamente nessuno. O forse soltanto una qualche parziale applicazione in un’istituzione che tuttora manca nel complesso panorama italiano: il Cema, Council for the Encouragement of Music and the Arts, dopo la guerra mondiale trasformato in Arts Council of Great Britain e presieduto proprio da John Maynard Keynes. Istituzione terza, non ingolfata di politici in cerca d’autore, distante dai soggetti dei quali si occupa (il magnifico arm’s length principle del tutto ignorato dal nostro legislatore).
Per il resto, la cultura si è assisa per troppo tempo sullo scranno di chi sa tutto e non deve far nulla: il suo presunto valore etico pretende che chi vuole faccia uno sforzo per acquisirne benefici spirituali e altre amenità. Come dire che ci si salva l’anima soltanto se si accetta la sofferenza. Non stupisce, dunque, che con il sistema del capitalismo manifatturiero anche la cultura che ne è stata un insensato fiore all’occhiello stia precipitando in quel limbo nel quale si vede finalmente l’evolversi delle cose e ci si interroga sul ruolo e il valore della cultura in un’economia basata sulla conoscenza, in un paradigma che sarà segnato da valori quali la relazione e la morbidezza, la prossimità e la forza simbolica, la ricchezza dello spazio e l’ineludibilità delle prospettive, i benefici dell’ibridazione e l’urgenza del meticciato.
La crisi è in ogni caso un’eccellente occasione per un ridisegno sostanziale del sistema culturale e del suo posizionamento valoriale in un paradigma economico e sociale tutto da scoprire ma certamente più fertile e variegato del mondo manifatturiero in via di estinzione. Se riprendiamo il filo delle cose lì dove la rivoluzione industriale e i suoi cantori encomiastici l’hanno interrotto possiamo assistere al ritorno dell’arte e della cultura nella vita di tutti i giorni, negli spazi urbani dai quali si sono deliberatamente isolate, nella magnifica normalità di individui e gruppi in permanente ricerca di senso, di identità, di espressione. Ciò richiede una vistosa inversione di rotta che la smetta di rimpiangere un sistema che era comunque superficiale e censorio, carico di compiacenza e di accondiscendenza e spesso privo di dignità.
Tanto di quello che avviene in questo periodo di mutamenti suona come il canto del cigno, e per quanto nessuno lo dichiari in modo esplicito si percepisce che le cose stanno per cambiare radicalmente. Continuare a invocare la sensibilità degli amministratori pubblici, il mecenatismo delle imprese, la capacità attrattiva di eventi a buon mercato non porta granché lontano. Adottare la visione forte e semplice di Keynes, che non contrapponeva Stato e mercato, o pubblico e privato come amano fare in tanti, forse in troppi, può condurci nella direzione più pertinente. Ciò che occorre è un’analisi lucida che ci liberi da pregiudizi protettivi, una complicità strategica e pragmatica che restituisca motivazioni e indirizzi all’arte e alla cultura, un’attenzione rispettosa e curiosa nei confronti della miriade di iniziative e progetti che occupano quell’interessante altrove fin qui snobbato dalla cultura mainstream. Avremo un futuro solo se cominciamo a credere nel presente.
Michele Trimarchi, PhD, insegna Analisi economica del diritto (Catanzaro) e Cultural Economics (Bologna). Fa parte dell’editorial board del «Creative Industries Journal» e del comitato scientifico di «Tafter Journal».