ll testo che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato a «Reset» in forma di lettera è la risposta alla richiesta che gli abbiamo inviato in previsione del cinquantesimo anniversario della morte di Luigi Einaudi, che ricorreva il 29 ottobre. Nel numero scorso «Reset» ha dedicato a questo fondatore della Repubblica un dossier con articoli di Enzo Di Nuoscio, Paolo Heritier, Paolo Silvestri, Corrado Ocone, Flavio Felice, e brani dal carteggio con Luigi Albertini. Ne avrebbe dovuto far parte anche un contributo di Napolitano, che il Presidente è stato costretto a rinviare, dopo un incontro che mi concesse all’inizio di settembre, a causa dell’incalzare degli eventi di questi mesi.
Molto è cambiato da ottobre, ma il riferimento alla lezione di Einaudi mantiene un rilievo che va ben al di là di un anniversario. Gli rendevano onore, già del resto su quel numero di «Reset», le brevi testimonianze di Ciampi, di Draghi, e una precedente dello stesso Napolitano. Einaudi fu governatore della Banca d’Italia dal ’45, presidente della Repubblica dal ’48, ma il suo lascito comprende anche i suoi scritti, la sua attività di editorialista economico per il «Corriere» fino al ’25, il suo insegnamento alla Bocconi, dove ebbe come assistente Carlo Rosselli.
Il cuore della riflessione sulla quale volevamo impegnare Napolitano riguardava la crisi della politica italiana e le ragioni per cui i valori espressi da un padre della Repubblica del peso di Einaudi non abbiano continuato a manifestarsi nella classe dirigente italiana se non in qualche caso eccezionale. Si trattava anche di una occasione per meditare sul riformismo italiano, tradizione di cui il nostro Presidente della Repubblica è a tutti gli effetti un rappresentante, e sulle occasioni perdute da ogni parte dello schieramento politico.
La lettera che ora Napolitano ci ha inviato coglie pienamente questa occasione e offre diverse indicazioni utili su un lavoro da continuare, nello studiare e nel fare. Di questo lo ringraziamo.
La citazione dello storico inglese recentemente scomparso, Tony Judt, alla quale il Presidente si riferisce nel suo scritto, era inclusa in una lettera che gli ho inviato dopo la conversazione avvenuta in settembre. La riproduco qui: «Durante il lungo secolo del liberalismo costituzionale (…) le democrazie occidentali sono state dirette da una classe di uomini di Stato visibilmente superiore. A prescindere dallo schieramento politico, Léon Blum e Winston Churchill, Luigi Einaudi e Willy Brandt, David Lloyd George e Franklin Roosevelt rappresentavano una classe politica profondamente sensibile alle proprie responsabilità morali e sociali. Resta il dubbio se furono le circostanze che produssero quei politici o se fu la cultura dell’epoca che indusse uomini di quel calibro a entrare in politica. Oggi non agisce nessuno di questi incentivi. Politicamente parlando, la nostra è un’epoca di pigmei». (Guasto è il mondo, Laterza, 2011, pag 41). Nella stessa lettera aggiungevo che la lettura del carteggio Einaudi-Albertini (pubblicato dalla Fondazione «Corriere della Sera»), di cui qualche brano era riprodotto su «Reset», mostra la dimensione di una quotidianità di lavoro di grandissimo rigore scientifico, politico e morale, e «mi rafforza – scrivevo – nella convinzione che quel divario di cui parla Judt è assai drammatico», rivolgendogli in forma di domanda il «dubbio» di Tony Judt.