Un libro postumo costringe a riaprire il dossier di Jacques Dupuis, il teologo cattolico belga del pluralismo religioso, trattato e «notificato» come un eretico dal cardinale Ratzinger, allora prefetto della fede. Era il 2000, lo stesso anno, gli stessi giorni in cui usciva la Dichiarazione «Dominus Iesus», il più criticato documento pontificio degli ultimi decenni, acclamato solo dagli «atei devoti». Dupuis è morto a ottantuno anni nel 2004, accasciandosi nella mensa della Università Gregoriana, depresso per le accuse di eresia, amareggiato per essere divenuto il bersaglio di un procedimento dell’inquisizione e per essere la «bestia nera» proprio di quel testo con cui la Chiesa arretrava di fronte al dialogo con le altre religioni, e umiliato per la sospensione dall’insegnamento.
Il libro che appare ora in italiano per EMI (le cattoliche Edizioni missionarie italiane, pagg 210, € 17) è stato curato dal suo editor e amico americano William Burrows e contiene due lunghi testi di autodifesa, dello stesso condannato, nei confronti della «notificazione» (la sentenza della Congregazione della Dottrina Fede) e di accusa contro la «Dominus Iesus», che a Dupuis fu chiesto di condividere, come prova della bontà del suo pentimento. Il mite teologo belga non accettò di condividere e di firmare una prima versione della sentenza che lo accusava di «gravi deficienze» e dedicò gli ultimi anni a stendere questi scritti. Firmò poi una seconda versione della notificazione (piegandosi alle esigenze «politiche» di una situazione che lo imbarazzava) in cui il reato era diminuito a «notevoli ambiguità». Quel movimentato cambio dei testi coinvolse Papa Wojtyla in una delle pagine più ingloriose nella traiettoria di Ratzinger.
Il titolo italiano suona «Perché non sono eretico», quello inglese «Jacques Dupuis Faces the Inquisition». Il primo, più prudente del secondo, rispecchia comunque lo sconcerto di un teologo, che Burrows definisce «revisionista» ma ortodosso, per non essere stato correttamente capito e persino non proprio «letto» dal cardinale Ratzinger. Questi si sarebbe malauguratamente affidato – scrive l’autore, cui l’avrebbe confidato personalmente il futuro pontefice, guardandolo negli occhi – ai giudizi e agli scritti del segretario di Stato Tarcisio Bertone e del consultore della Congregazione Angelo Amato, due figure chiave del papato di Benedetto XVI. Il secondo, che è stato poi promosso cardinale ed è attualmente prefetto della Congregazione delle cause dei santi, è generalmente considerato l’estensore della «Dominus Iesus».
Dupuis è sempre stato pienamente consapevole della difficoltà della sua impresa teologica. Il suo obiettivo, nei libri e nei corsi di Cristologia, era quello di riprendere il tema, per eccellenza plurale, delle dosi di verità e di possibile salvezza concesse al di fuori della Chiesa e ai non-cristiani, di riprenderlo dove l’aveva lasciato il Concilio Vaticano II, con la dichiarazione Nostra aetate (1965). La sua Chiesa come quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI «nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni e vi riconosce «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Idee rafforzate dalla lunga esperienza asiatica: aveva speso 36 anni in India. Tu non puoi vivere – diceva – a contatto con la fede di milioni e milioni di esseri umani devoti ai loro riti, dotati di morale e senso del peccato, e poi immaginare per loro nient’altro che la dannazione perché non sono entrati a far parte della Chiesa Romana, una opportunità di cui tre quarti dell’umanità non è neppure venuta a conoscenza.
La teologia del dialogo rimaneva per lui strettamente all’interno di una visione «cristocentrica» della salvezza, certo distinta dalla prospettiva «ecclesiocentrica», di cui non ha trovato le basi nei testi sacri e che riteneva frutto maligno della paura. Ed ha prodotto in queste pagine e tante sue precedenti un lavoro affascinante anche per i non credenti. L’opera imponente di Dupuis cui è stata destinata la censura del tribunale vaticano è Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, (Queriniana, 1997). Non è soltanto teologia, è anche una storia del pensiero, interamente ripercorsa attraverso la ricerca del principio di salvezza dai primi alessandrini fino ai giorni nostri. Dupuis individua passaggi lampeggianti, come in Origene, che forte del suo platonismo, immaginava per tutto il genere umano una finale restituzione o riabilitazione (in greco apokatàstasis); si soffermava sulle pagine del De Pace Fidei di Nicola Cusano, umanista ma anche potente cardinale del Quattrocento, che immaginava, in sogno, pochi giorni dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, un concilio celeste in cui tutte le fedi del mondo trovavano un accordo sulla unicità della religione «nella varietà dei riti». Per Cusano, in quel sogno, le religioni erano diverse perché Dio aveva mandato diversi profeti in diversi tempi e con diversi linguaggi, ma erano in sostanza «complementari». L’arditezza, certamente sospetta di eresia, non sfuggiva a Dupuis, e nemmeno a un altro teologo riformatore come Urs Von Balthasar, il quale scrisse in proposito che la mossa di Cusano fu così «avventurosa che ci si può soltanto sorprendere che non sia stato messo all’indice». Ce lo racconta lo stesso Dupuis, tenendosi lontano da un possibile peccato di indifferenza o equivalenza, ma questo non gli impedisce di affrontare il tema più rilevante che per un cristiano, come per qualunque fedele di ogni religione, presenta la comparsa e la vicinanza di tante religioni diverse.
Nell’esaminare l’ampiezza della prospettiva della salvezza nella teologia cristiana Dupuis vede tre tappe storiche: una prima in cui il principio «extra ecclesiam nulla salus » è affermato in tutto il suo esclusivismo, quello di un cristianesmo minoritario e assediato, nell’Impero romano prima di Costantino; una seconda con una limitata apertura per le altre religioni in quanto primordiale rivelazione; una terza in cui si colgono valori positivi nelle altre religioni in quanto preparatori. E vede poi quello che appare come il compito di oggi, non solo per la teologia cristiana, ma anche per quella delle altre fedi: rispondere alla domanda «che significato le altre tradizioni hanno nel disegno divino?». Ed è questo il terreno della sfida per la «teologia delle religioni» o «teologia pluralista». Quel terreno che gli autori della «Dominus Iesus» immaginavano di cancellare o di «ordinare», nel senso di «subordinare» interamente alla gerarchia di verità dettata dalla dottrina vaticana. Il testo postumo di Dupuis Non sono un eretico ci offre oggi anche la più argomentata caccia alle «ambiguità» e agli «errori» di quel documento che intendeva sbarrare la strada a una ripresa delle tesi conciliari e a chiudere il passo al dialogo interreligioso, una cosa che nel gergo vaticano ha preso il nome, anche grazie a Dupuis, di «questione asiatica». Questione da riaprire, questione aperta dalla memoria di un gesuita, che attende la riabilitazione.
Articolo pubblicato su La Repubblica il 4 dicembre 2014