Per cogliere un aspetto fondamentale del sodalizio culturale che intercorse tra gli economisti Luigi Einaudi (1874-1961) e Wilhelm Röpke (1899-1966), credo sia importante ricordare quanto Einaudi scrisse in un’ampia recensione a un libro di Erhard nel quale il Cancelliere tedesco spiegava il miracolo economico tedesco e la dottrina röpkiana dell’«economia sociale di mercato». Einaudi scrisse che l’aggettivo «sociale» non era che un semplice riempitivo, dal momento che non implicava interventi «difformi al mercato», ossia volti a modificare il sistema di libero mercato, ma semplicemente «interventi conformi» allo stesso, volti a realizzarlo. Un giudizio simile era stato espresso anche da F. von Hayek durante l’incontro della Mont Pelerin Society del 1949 e confermato dallo stesso economista austriaco in Legge, legislazione e libertà.
È su questo decisivo tema del rapporto tra economia e diritto, oltre che tra istituzioni del mercato e cultura del mercato (etica), e dello scarto tra «economia di mercato» e «capitalismo storico» che si sviluppa il sodalizio tra i due grandi economisti. Con riferimento al mercato, Röpke sosteneva che l’ordine giuridico e l’ordine morale sono indispensabili in quanto offrono i presupposti del mercato, dal momento che in loro assenza il mercato stesso non potrebbe esistere ovvero sopravvivere; sono presupposti che svolgono anche la funzione di limite.
Un limite che, nella misura in cui diventa parte integrante della cultura di un popolo o di una società, pur derivando da una sfera esterna all’ordine economico, giunge a innervare la cultura di un determinato mercato, conformandolo e consentendoci di distinguere tra liberalismo e liberalismo, tra capitalismo e capitalismo, tra mercato e mercato, tra impresa e impresa, tra welfare e welfare.
Röpke delinea un profilo culturale in forza del quale le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. In questa prospettiva, Röpke sembrerebbe centrare uno dei perni teorici intorno ai quali muove l’economia sociale di mercato, ossia l’affermazione che una sana e dinamica economia di mercato è sempre condizionata a un ordine giuridico che la regola e a istituzioni sociali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con essa, essendone esse stesse influenzate.
Tra gli autori italiani che colsero l’originalità del pensiero di Röpke e della prospettiva dell’economia sociale di mercato, promuovendola nel dibattito pubblico, annoveriamo Luigi Einaudi e Luigi Sturzo. In particolare, Einaudi e Röpke furono amici e strinsero un sodalizio intellettuale che andò dalla seconda metà degli anni Trenta alla prima metà degli anni Quaranta. In pratica, un sodalizio iniziato quando l’economista italiano diede vita e diresse la «Rivista di storia economica» e intensificato durante il periodo dell’esilio in Svizzera, quando Einaudi scriverà Lezioni di politica sociale (1944) e Röpke dirigerà l’Institut des Hautes Études Internationales di Ginevra.
È Francesco Forte a indicarci il tratto teorico peculiare di tale sodalizio, un tratto teorico evidenziato da Einaudi nel 1942 nel saggio-recensione al volume di Röpke La crisi sociale del nostro tempo. Il saggio venne pubblicato sulla «Rivista di storia economica» con il titolo: «Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX». Possiamo affermare che l’esito più interessante dell’incontro intellettuale fra Einaudi e Röpke riguarda la cosiddetta «teoria degli interventi conformi».
È opinione diffusa che essa rappresenti il principio di base e la modalità per indicare i confini di una politica economica di indirizzo liberale che, tuttavia, voglia prendere le distanze in modo coerente dal laissez-faire del puro liberalismo. Ne La crisi sociale del nostro tempo (1942) Röpke sostiene che conformi all’economia di mercato o di concorrenza sono «quegli interventi che non sopprimono la meccanica dei prezzi e l’autogoverno del mercato così ottenuti, ma vi si inseriscono, quali “nuovi dati” e ne vengono assimilati, mentre sono “non conformi” quelli che distruggono la meccanica dei prezzi e debbono di conseguenza sostituirla con un ordine economico programmatico, cioè collettivistico». In definitiva, il collettivismo, in mancanza della bussola della libera formazione dei prezzi, non può che portare al disastro economico e a una dittatura sui bisogni.
Oltre alla teoria degli interventi conformi, Einaudi mostra di condividere anche l’analisi storica di Röpke e la sua distinzione tra «economia di concorrenza» e «capitalismo storico», dove per economia di concorrenza l’economista tedesco intende quel sistema nel quale il «complesso dei consumatori (il quale naturalmente si identifica al complesso dei produttori specializzati), esercita quell’influenza determinante sul “quid”, sul “come” e sul “quantum” della produzione».
Einaudi commenta l’esposizione di Röpke affermando che il frutto spirituale immateriale più elevato dell’economia di mercato è stato di aver sottratto l’economia al dirigismo della politica. Le decisioni in ordine a cosa, a come, a quando e a quanto produrre competono a coloro ai quali spetta lo scettro sul trono del mercato: i consumatori: «I consumatori decidono, ciascuno per conto proprio, e i produttori ubbidiscono in guisa da soddisfare le esigenze dei consumatori».
Dunque, «economia di concorrenza» e «capitalismo storico» rappresentano le due espressioni, i due aspetti del liberalismo che Röpke, Einaudi, e invero Luigi Sturzo nel saggio Eticità delle leggi economiche del 1958, registrano essersi confusi l’uno nell’altro, e nella trasformazione storica dell’«economia di concorrenza» in «capitalismo storico» essi intravedono le ragioni della malattia che colpì così rovinosamente l’Europa del XX secolo. La soluzione proposta da Röpke, e condivisa tanto da Einaudi quanto da Sturzo, rinvia ai principi del cosiddetto «liberalismo delle regole», ovvero dell’«ordoliberalismo», sviluppato dagli interpreti della Scuola di Friburgo. In definitiva, i nostri autori propongono di riformare il sistema economico, creando attorno all’economia di concorrenza un ordine giuridico a essa conforme.
Possiamo concludere, affermando che è radicata nei nostri autori la consapevolezza che la libertà – tanto in economia quanto in politica (Röpke e Sturzo interverranno nella disputa Croce-Einaudi su «liberalismo» e «liberismo», argomentando le ragioni sostenute da Einaudi contro Croce) – produce strumenti estremamente fragili, ma gli unici all’altezza della dignità umana, e che la concorrenza non è il prodotto del caso, bensì il risultato di secoli di civilizzazione; è un manufatto. Parafrasando lo storico cattolico liberale britannico Lord Acton, Röpke, Einaudi e Sturzo condividono l’idea che «La pianta della concorrenza» sia un frutto delicato, alla cui nascita hanno concorso generazioni e generazioni di donne e di uomini, spetta a noi oggi alimentarla, sostenerla e difenderla da possibili aggressioni, dai tentativi di soffocarla, dalle sempiterne tentazioni di fare a meno di essa, ricorrendo alle scorciatoie dettate dal prevalere degli interessi particolari.
Monopoli, cartelli, autoritarismo, collettivismo sono i nemici mortali dell’economia di concorrenza. Einaudi riconosce a Röpke il merito di aver prodotto un’analisi critica dei concetti economici in grado di consentire la distinzione tra economia di concorrenza e capitalismo storico: il primo passo verso un possibile ristabilimento dell’ordine sociale. Un ordine nel quale il problema economico viene ricondotto entro il suo alveo e in forza del quale si riconoscono i limiti e i presupposti del mercato.
Questi erano i problemi che dalla fine degli anni Venti alla metà degli anni Sessanta alcuni intellettuali, in varie parti d’Europa, credettero di dover affrontare a partire da una limpida teoria dell’ordine politico ed economico, non volendosi arrendere al populismo autarchico, al totalitarismo aggressivo e al protezionismo liberticida, amando la libertà propria e altrui più di ogni altra cosa e amando la patria altrui almeno quanto la propria.
Consapevoli che nessun ordinamento burocratico – pubblico o privato che sia – possa evitare e negligere la realtà che esiste sempre qualcosa (come recita il testamento spirituale di Röpke) che va «oltre l’offerta e la domanda».
Questo qualcosa è la centralità della persona umana; un ordine etico che chiede ancor oggi, e a maggior ragione oggi, di essere affrontato e compreso con la massima urgenza e profondità se non si voglia correre il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi, ovvero all’anarchismo degli interessi individuali, figli, rispettivamente, di una logica neocorporativa, ovvero di un ottimistico disinteresse per le ragioni dell’ordine sociale e della civitas humana, finendo per sacrificare le libere scelte individuali sull’altare della «presunzione fatale» del Grande Pianificatore.