Questo testo, originariamente apparso su Mondoperaio (n.4 / aprile 2015), è un adattamento dell’intervento fatto in occasione del workshop sull’innovazione politica “Democrazie in transito” organizzato dalla Fondazione Feltrinelli a Milano, il 14 gennaio 2015.
Se è vero che sotto lo sforzo nuovo della global era ogni democrazia nazionale sta vivendo processi di trasformazione (talora critici), il fardello del nostro singolare trascorso democratico – il periodo cioè racchiuso tra l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e il crollo del muro di Berlino – carica l’odierno “caso Italia” di una problematicità pregressa. Una problematicità antica, che non si limita ad appesantire quantitativamente il presente, ma condiziona qualitativamente l’attualità della domanda intorno alla crisi della rappresentanza nel nostro paese: una irrisolta contraddizione di fondo che ha prodotto e alimenta il “caso Italia” dal 1° gennaio del 1948 ad oggi. In contrasto deciso con la torsione totalitaria che la legislazione fascista aveva prodotto nello Stato italiano sopra le logore spoglie dello Statuto Albertino, i costituenti dotarono la neonata Repubblica di una carta fondamentale dal moderato – e qua e là incoerente – impianto liberaldemocratico. E tuttavia, al netto della generale moderazione e delle singole incoerenze, per mezzo della nuova Costituzione lo Stato italiano s’inscriveva certamente nel novero delle democrazie occidentali di stampo liberale.
A questa scelta, però, non seguì un’autentica agibilità politica, poiché da subito, per mezzo dell’inevitabile e doverosa conventio ad excludendum verso il Partito comunista, l’impianto istituzionale liberaldemocratico non poté giovarsi e lasciarsi inverare da un conseguente sistema liberaldemocratico dei partiti fondato sulla contendibilità del governo. In questa contraddizione risiede il peccato originale dell’Italia repubblicana. Contraddizione probabilmente già presente nello Stato unitario prefascista malato di trasformismo [Salvadori], ma che nel corso degli ultimi sessantasei anni ha trovato, ingegnosamente, modi diversi per estenuarsi. Forse (e scrivo “forse” perché il responso elettorale fu netto) solo alle elezioni politiche del 1948 ci fu una contesa liberaldemocratica per il governo: ma dentro la stringente incongruenza di un’alleanza delle sinistre che, se non minacciava l’involuzione antidemocratica dell’assetto istituzionale che aveva appena contribuito a creare, di certo ne metteva in drastica discussione la versione liberale, pur moderatamente accettata.
Di lì a poco, per tutto quello che accadde dalle elezioni del ‘53 in poi, si parlò presto di democrazia bloccata e di pluralismo polarizzato [Sartori]. Lo Stato liberaldemocratico nacque monco di quello strumento fondamentale – un adeguato e coerente sistema dei partiti – che solo avrebbe potuto realizzarne compiutamente orizzonte valoriale e obiettivi democratici fissati nella prima parte della Costituzione. Men che meno, per dirla con Lijphart, quel sistema dei partiti seppe accompagnare l’evoluzione istituzionale della nostra democrazia [Lijphart]. Ammesso e non concesso che la fase consociativa della nascente Repubblica, quella entro la quale i partiti antifascisti redassero insieme la carta, potesse garantire l’iniziale apprendimento alla democrazia liberale – per così dire, una “alfabetizzazione” liberaldemocratica – di certo quel patto di convivenza tra forze diverse [Ceccanti] risultò essere antitetico, quando non apertamente contrastante, alle due fasi successive di cambiamento/trasformazione e di stabilizzazione/istituzionalizzazione.
La nostra liberaldemocrazia “in potenza” non maturò mai “in atto”. Eppure, a livello istituzionale l’Italia sembrava poter vantare anch’essa la condizione minima schumpeteriana di democrazia, quella cioè per la quale un sistema democratico si può definire tale quando le decisioni più importanti vengono assunte attraverso elezioni libere, regolari e periodiche [Schumpeter]. Viceversa, a livello politico, nulla era più lontano dal garantirlo che un sistema dei partiti fondato sulla conventio ad excludendum, che determinava una mancata situazione di contendibilità del governo da parte di due partiti o di due schieramenti alternativi fra loro. E la responsabilità di tale mancata contendibilità risultò risiedere prevalentemente – se non esclusivamente – nell’esistenza – e nella tenace, tenacissima persistenza – di un partito comunista dominante nello spazio della sinistra.
Dal 1948 al 1991 la mancata evoluzione socialdemocratica del Pci inchiodò all’immobilità il quadro politico-istituzionale. Mentre in Europa partiti variamente socialdemocratici – che dunque per definizione avevano accettato di recitare la loro parte sul palcoscenico liberaldemocratico – si alternavano alla guida della loro nazione in avvicendamento a un partito o a un fronte conservatore, il Pci in Italia restò sempre ostile a una analoga evoluzione. Nonostante conducesse un graduale e meritorio allontanamento, anche economico, dall’Unione Sovietica, non volle mai pensare se stesso come un attore del palcoscenico liberaldemocratico.
Negli anni più recenti, con la scomparsa del Pci, l’ostacolo a una evoluzione liberaldemocratica del sistema dei partiti, e la conseguente maturazione dell’assetto istituzionale, passò da sinistra a destra. L’avvento del partito padronale di Silvio Berlusconi, se determinò un positivo sbloccamento della nostra democrazia nel senso dell’alternanza, finì per mandare in cancrena la vecchia ferita dell’incompiutezza liberaldemocratica del sistema. La scomparsa involontaria del Pci e l’organizzazione del fronte conservatore intorno alla leadership berlusconiana movimentarono le cose: ma il modello padronale di questa leadership s’impose immediatamente come nuovo ostacolo alla creazione di un compiuto sistema liberaldemocratico dei partiti.
Del 1994 al 2008 le elezioni mostrarono sì un nevrotico apprendimento della dinamica liberaldemocratica dell’alternanza: ma nevrotico, appunto, e quindi patologico, perché sistematicamente chi vinceva un’elezione politica si consegnava a sicura sconfitta in quella successiva. Berlusconi e il suo modello padronale di partito negarono in modo originale la possibilità di una contendibilità interna della leadership. Il partito di Berlusconi si definì immediatamente come proprietà-di-Berlusconi: come una-cosa-sua. Chi a parole – producendo cioè il più poderoso rinnovamento delle strategie comunicative mai visto in campo politico in Italia – auspicava la rivoluzione liberale del sistema-paese imponeva una conduzione illiberale al proprio partito. Regolava il proprio soggetto politico secondo modalità dispotiche, esprimendo un modello di organizzazione interna che nulla aveva a che fare con la democrazia, figurarsi con la rivoluzione liberale.
Berlusconi sceglieva di essere il maggiore finanziatore privato dell’attività ordinaria e straordinaria (le campagne elettorali) del suo partito. Dunque leader, finanziatore e istitutore di nuovo modello di partito: lo statuto di Forza Italia prevedeva l’indicazione dei coordinatori provinciali da parte del leader nazionale, come durante il fascismo il podestà era nominato per regio decreto. Il trinomio di dipendenza politica, economica e organizzativa sopprimeva così ogni possibilità di contendibilità del vertice. E difatti, quando la crisi di accountability cominciò ad attanagliare il leader padronale, una serie di micro-scissioni, verso il centro e verso destra, sgretolò quello che pure era sembrato un colosso. Il caso topico di questa endogena incompiutezza liberaldemocratica si espresse nel 2011 quando, a leadership berlusconiana irrimediabilmente compromessa, l’ex Cavaliere preferì favorire l’operazione del Quirinale che portò a Palazzo Chigi Mario Monti piuttosto che farsi succedere a capo di un nuovo governo del centrodestra, alla maniera della successione Major-Thatcher. Così, come è stato scritto di recente, il berlusconismo ha avuto successo, ma non ha funzionato [Orsina]. È riuscito a dare forma al campo conservatore e a innescare la nevrotica alternanza all’italiana, ma a causa dei suoi originari difetti di funzione non è riuscito a fondare, una volta e per sempre, il partito della destra conservatrice italiana, portando così a maturazione la costituzione di un sistema liberaldemocratico dei partiti. Il secondo tempo della storia della Repubblica, quello della democrazia del pubblico [Manin], ha insomma riprodotto, in forme differenti, lo stesso difettoso meccanismo di funzione: meccanismo che – nell’eterna stagione di mezzo della transizione istituzionale italiana – ha dato forza, come in nessun altro paese occidentale, alle istanze del populismo.
Esiste quindi, e persiste, una specificità del caso Italia. Nell’oceano delle democrazie in transizione, composto da vere e proprie crisi di rappresentanza e da dinamiche più ordinarie di trasformazione della stessa, non è possibile liquefare la specificità del caso Italia. Chi lo fa a sinistra compie un’operazione revisionista che non regge: tenta cioè di ridurre l’eccezionalità della dominanza del Pci confondendo l’esperienza comunista italiana con quella di una qualsiasi formazione socialdemocratica all’europea. Il Pci infatti fu sì un partito comunista unico nel suo genere, ma comunista: inassimilabile cioè alla corrente socialdemocratica, entro la quale mai volle rigenerarsi perché mai riconobbe l’esigenza soggettiva di una tale rigenerazione.
Chi lo fa invece a destra compie parimenti un’operazione revisionista altrettanto sgangherata, assimilando l’unicità della leadership padronale berlusconiana al più ampio processo di adattamento che il vecchio conservatorismo occidentale ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale. Invece, rifiutando di costruire una vera democrazia interna a base e funzionamento del suo partito, Berlusconi ha scelto difatti di stare solo nominalmente nell’alveo del conservatorismo occidentale in trasformazione, non realizzando mai un adattamento reale alle sue forme liberaldemocratiche. Donde le simpatie per il cesarismo illiberale putiniano e le antipatie che le leadership conservatrici liberaldemocratiche gli hanno rivolto in maniera crescente col passare del tempo.
Il Pci e la leadership di Silvio Berlusconi rappresentano i due principali nutrimenti della contraddizione tra l’assetto istituzionale liberaldemocratico e un sistema dei partiti di tutt’altro stampo che ha accompagnato l’intera storia repubblicana. Oggi la contraddizione originaria e originale della Repubblica soffre anche in ragione di una seconda parte della Costituzione inadeguata ai tempi e scompaginata da interventi legislativi poco assennati, come quello sul Titolo V. Ma centrare l’attenzione ancora una volta unicamente sulla nostra carta fondamentale sarebbe fuorviante. Il miglior sistema istituzionale del mondo risulta inefficace se il sistema dei partiti che deve inverarlo è in crisi.
La Francia rappresenta, in tal senso, un esempio evidente. Si è dotata di un sistema istituzionale e di una combinata legge elettorale talmente efficaci da produrre governabilità anche con partiti deboli come il Ps e l’Ump. Tuttavia, al netto dell’efficacia del meccanismo istituzionale, la crisi di rappresentanza dei due principali partiti è tale che, pur potendo godere di periodi di governo stabilmente quinquennali, non riescono a mettere mano a quelle riforme economiche e sociali essenziali a non peggiorare una situazione in montante difficoltà. E il populismo della Le Pen è pronto a giovarsene, a danno della Francia e dell’Europa. Così il nodo da sciogliere torna a essere – in Francia, in Italia, ovunque – quello della creazione di un moderno e liberaldemocratico sistema dei partiti.
In Italia qualcosa d’interessante sta accadendo. Qualcosa – che presenta certo difetti di funzione e di funzionamento, ma che merita di essere analizzato con attenzione – si sta producendo dentro il Partito democratico, con l’innovazione rappresentata dalla leadership di Matteo Renzi, ben descritta di recente da Michele Salvati sul penultimo numero del Mulino [Salvati]. Non interessa qui richiamarla e descriverla dal punto di vista soggettivo del leader, quanto dal punto di vista oggettivo del contesto entro cui si è determinata. E la possibilità di mettere in evidenza il contesto oggettivo ci spiega immediatamente le enormi differenze che dividono la leadership renziana da quella berlusconiana, al netto delle similitudini che pure ci sono.
L’esistenza di un contesto delimitato entro cui la leadership renziana si è imposta è già di per sé una notazione interessante. Matteo Renzi è un politico di professione, nonché un ex amministratore locale, che ha ingaggiato nel suo partito una battaglia strenua allo scopo di scalarne il vertice. La sua ascesa si è svolta dentro un partito che altri hanno fondato (e altri avevano, prima di Renzi, diretto) per perseguire politics e policies sensibilmente diverse da quelle oggi perseguite da Renzi. Un patto di sindacato generazionale aveva guidato il maggiore partito della sinistra italiana nel ventennio berlusconiano. Alla nascita del Pd (2007) questo patto si è sgretolato sotto il peso delle continue sconfitte elettorali e politiche, ma non si è reso indisponibile a competere con chi ne contestava la leadership. Così Renzi la prima volta ha dovuto soccombere (primarie per la premiership del 2012), ma la seconda ha avuto ragione di chi gli si opponeva (primarie per la leadership del 2013).
Il tutto è accaduto dentro un partito: e questo, per l’Italia, è già un fatto degno di nota. Ma è accaduto anche secondo le regole che quel partito si era dato, regole alle quali si conferisce sommariamente il nome di “primarie”. Queste regole, come quel partito, esistevano prima di Renzi e avevano interessato ambizioni e protagonismi di altri leader. Non sono state inventate da Renzi e potrebbero presto essere utilizzate contro Renzi. Già accade, in giro per l’Italia, dove spesso candidati non-renziani a cariche monocratiche periferiche vincono le primarie democratiche.
Il tutto lascerebbe intravedere finalmente un partito con chiare caratteristiche liberaldemocratiche, che potrebbe trainare la maturazione del sistema dei partiti nel suo insieme. Non basta, certo. I limiti di questa esperienza ci sono e non mancano continuamente di essere evidenziati in sede pubblicistica e scientifica. Le stesse primarie abbisognano di un approfondimento teorico e di un tagliando di revisione organizzativa. Cionondimeno l’esperienza oggettiva del Partito democratico presenta una serie di caratteristiche di ordinarietà liberaldemocratica assolutamente inedite in Italia: una chiara contendibilità interna della leadership e regole di ingaggio esterne centrate sulla competizione con l’avversario tipica dell’alternanza liberaldemocratica (la legge elettorale a doppio turno in discussione può non piacere per mille motivi, ma va senz’altro in questa direzione). Forse non già un inizio di risoluzione della contraddizione fondamentale tra impianto istituzionale liberaldemocratico e sistema dei partiti non-liberaldemocratico: ma di certo un indizio che qualcosa prova a muovere in quella direzione e merita di essere seguito, pur con sguardo critico e problematico, da parte di tutti.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
S. CECCANTI, I cambiamenti costituzionali in Italia, in “Federalismi.it” n. 8/2013.
A. LIJPHART, Le democrazie contemporanee, Il Mulino, 2001.
B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, 2010.
G. ORSINA, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, 2013.
M.L. SALVADORI, Storia d’Italia e crisi di regime, Il Mulino, 1994.
M. SALVATI, Le due innovazioni di Matteo Renzi, in “il Mulino” n. 6/2014.
G. SARTORI, Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in “Tempi Moderni” n. 31, 1967.
J.A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo, democrazia, Londra 1954.