Quanto fa la somma di Islam + carcere? Nell’immaginario collettivo d’Europa, specie dopo la lunga scia di attacchi compiuti o tentati da “lupi solitari” freschi di detenzione, l’associazione delle due sfere riporta di regola alla mente lo scenario da incubo della radicalizzazione: la disperazione, la rabbia, l’indottrinamento, la fine della pena come via libera per portare a compimento azioni distruttive, piuttosto che traguardo di reinserimento nella società.
E se invece il rapporto tra fede (islamica) e permanenza in carcere avesse il volto opposto? È la direzione cui invita a guardare un nuovo rapporto pubblicato dal Grist, il Gruppo Italiano di Studio sul Terrorismo, al termine di una lunga indagine sul campo in una delle case circondariali più grandi del Paese, quella delle Vallette di Torino.
Il pericolo jihadista
Il rischio che le carceri europee sfornino ridde di aspiranti “combattenti” per la causa islamista, ben inteso, è concreto e pressante. Da Mehdi Nemmouche, l’autore dell’attacco al museo ebraico di Bruxelles del 2014 costato la vita a quattro persone, a Benjamin Herman, il killer islamista che terrorizzò Liegi lasciando a terra tre vittime lo scorso maggio, la storia degli ultimi anni è troppo piena di fallimenti per non porre la questioni in termini d’emergenza per i servizi di giustizia e intelligence del continente. Senza contare le schiere di foreign fighters formatisi all’ideologia jihadista nei “buchi neri” delle città, e spesso in carcere, prima di partire per il fronte siriano – il cui destino toglie ora il sonno ai governi europei.
Se Francia, Belgio e Germania sono indubbiamente i Paesi più tormentati dalla questione, anche l’Italia non è immune dal germe della radicalizzazione. Un pericolo evidenziato dalla vicenda di Anis Amri, l’attentatore dei mercatini di Berlino consolidatosi nelle proprie convinzioni jihadiste nelle prigioni siciliane, ma anche dai numeri del ministero della Giustizia. Secondo l’ultimo rapporto annuale, i detenuti nel cosiddetto “circuito di Alta sicurezza 2” per reati legati al terrorismo islamico internazionale erano a ottobre 2018 66. Cui vanno aggiunti i 478 detenuti segnalati per radicalizzazione jihadista in prigione: 233 di livello alto, 103 di livello medio e 142 di livello basso.
Dall’esperienza multiforme delle carceri italiane, suggerisce ora lo studio del Grist, potrebbero emergere però delle indicazioni interessanti, anche in chiave europea, sul ruolo della fede dietro le sbarre: come antidoto alla rabbia e alla radicalizzazione anziché come loro benzina.
Terapia spirituale
Analizzando la correlazione tra adesione alla propria fede, sintomi di depressione ed estremismo di matrice islamica, gli autori della ricerca, coordinata dall’ex presidente della Società Italiana di Psichiatria Carmine Munizza, giungono a due importanti e distinte conclusioni sulla funzione della religione in carcere. Da un lato la sua funzione “terapeutica” per combattere la depressione, una piaga che colpisce in maniera significativa i detenuti: la misura del benessere psicologico – osserva il rapporto – mostra una forte correlazione positiva «con l’adesione alle pratiche, l’internalizzazione, l’introiezione, l’esclusivismo e l’universalità dell’Islam». Dall’altro, e in forma strettamente connessa, il suo ruolo di prevenzione e contenimento di derive fondamentaliste.
Non è un caso, naturalmente, che le indicazioni dei ricercatori emergano da uno studio di dettaglio svolto tra i detenuti di un carcere molto particolare: in base a un protocollo d’intesa firmato tra lo Stato e l’Ucoii – l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia – la casa circondariale Lorusso e Cutugno è una delle prime in Italia a garantire ai propri detenuti musulmani l’esercizio regolare della fede sotto la guida di imam garantiti dall’Ucoii. Preghiere e conforto religioso regolari, insomma, senza il rischio di imam fai-da-te e proseliti senza controllo. «In questo modo – sottolinea l’ex magistrato Francesco Gianfrotta – non solo si garantisce un diritto costituzionale fondamentale come quello al culto, ma si abbatte la tensione e si diminuiscono i conflitti».
Il timore di preghiere, sermoni e momenti di approfondimento spirituale, sembra suggerire il rapporto, non solo non ha senso di essere, ma dovrebbe essere rovesciato. «La religione rappresenta un mezzo importante attraverso il quale sopravvivere all’esperienza della detenzione», scrivono ancora i ricercatori sulla base delle interviste e dei dati raccolti: anche riconnettendo il detenuto schiacciato dal peso della propria colpa con la famiglia, la terra d’origine, le proprie radici, tradizioni e valori. Presumere di avere individuato la ricetta perfetta per contrastare la radicalizzazione sarebbe eccessivo, insomma, ma – sottolinea un altro dei coordinatori del gruppo di ricerca, lo psichiatra Elvezio Pirfo – «rispondere ai bisogni dei detenuti anche con soluzioni creative resta la strada maestra».
Contesto degradato
Gli “appunti di viaggio” messi insieme dal Grist anche a favore di policy-makers e decisori politici segnalano però anche le troppe lacune che ancora minacciano l’efficacia della “via italiana” al contenimento della radicalizzazione. Prima fra tutte, l’incombenza largamente dominante della dimensione securitaria, pur nella grande varietà degli istituti penitenziari: per troppi detenuti l’esperienza del carcere coincide con «la sofferenza, la privazione della propria dignità, l’umiliazione di essere considerato uno scarto della società». E non certo con quel percorso di riabilitazione umana e sociale che dovrebbe costituire il cuore della pena. Né il personale carcerario ha nella maggior parte dei casi il tempo e la preparazione per saper contrastare eventuale “germogli” di radicalizzazione, come le recenti direttive europee indicherebbero.
In queste condizioni, il rischio di mettere a repentaglio la preziosa esperienza di prevenzione di derive fondamentaliste è forte. Dati alla mano, ora però è impossibile ignorare la via da seguire.