In occasione delle due presentazioni, a Milano il 19 novembre e a Roma il 3 dicembre dell’ultimo libro di Andrea Carandini, Paesaggio di idee. Tre anni con Isaiah Berlin (Rubbettino 2015), ripubblichiamo oggi una intervista con il grande filosofo di Oxford pubblicata su uno dei primi numeri di Reset (n. 5, aprile 1994) poco prima dell’uscita del suo libro Il Mago del Nord. Hamann e le origini dell’irrazionalismo moderno.
Perché la sua attenzione torna ancora una volta, e adesso, sul romanticismo tedesco?
Perché ne siamo tutti vittime. Per duemilacinquecento anni la gente ha creduto in una dottrina fondamentale, che per ogni domanda reale c’è una risposta vera e che tutte le altre risposte sono false. Di questo erano convinti Platone, Aristotele, Sant’Agostino, e poi il Rinascimento, Spinoza, Descartes, gli illuministi francesi e poi Kant e tutti quelli che ci possono venire in mente, compreso Marx, compreso Freud. La risposta vera alle domande reali è una sola. Poi però si è posto un problema.
Quale? E come arriviamo per questa via al Romanticismo?
È il problema della differenza. Noi ci poniamo delle domande: che cosa è la realtà? Che cosa sono queste stesse domande? Come dovremmo vivere? Che cosa è bene? Che cosa è male? Qual è la forma migliore di vita sociale? Perché non si deve uccidere la gente? Perché non si devono fare la purificazioni etniche? Per tutte queste domande le differenze che ci sono tra la gente riguardano il metodo.
Che cosa intende qui per metodo?
Intendo che la gente dà risposte diverse non perché qualcuno neghi che ci sia una risposta vera, ma perché si propugnano metodi diversi. Alcuni dicono che una certa risposta è vera perché l’ha detto Dio nella Bibbia, altri perché è l’esito di indagini di laboratorio, altri perché lo stabiliscono alcuni principi metafisici. Altri dicono che la risposta vera sta nel cuore di un semplice contadino o di un bambino. Ora, per queste differenze di metodo si combattono guerre sanguinose perché ogni volta la «salvezza» dipende dal metodo che si sceglie; tutto dipende dalla correttezza del metodo. Se il mio metodo è giusto, il tuo metodo è sbagliato e io ti devo uccidere, perché altrimenti non raggiungeremo la salvezza e condurremo l’anima alla perdizione. È questo il centro della «philosophia perennis», il cuore della vita filosofica dell’umanità: che la verità sia una sola. Per quante differenze ci siano tra metafisici ed empiristi, tra atei e credenti, tra filosofi greci e moderni, tra positivisti e antipositivisti, su questo sono tutti d’accordo: una sola è la risposta vera e tutte le altre sono false.
Questa concordanza della «philosophia perennis» intorno all’unicità della risposta vera però a un certo punto si rompe.
Si rompe con il Romanticismo: dopo non è più così. Questo è il punto decisivo. Il primo che ha rotto questa unità è Vico, perché è stato il primo a capire che cosa è la differenza di culture. Sebbene fosse ufficialmente un cattolico credente, molto pio, si rese conto del fatto che ciò in cui credeva Omero non era ciò in cui crediamo noi, che molti poemi non avrebbero potuto essere scritti sulla base di quanto crediamo noi, che differenti culture producono poesie diverse. Vico fu il primo a capire che cosa è una cultura. E fu una grande scoperta. Ma la visione di Vico era storica e cronologica: l’inizio, l’età di mezzo, la fase finale, i ben noti «corsi e ricorsi». Alla barbarie segue l’Epoca degli Dei, poi quella degli Eroi e poi quella degli Uomini e poi di nuovo la barbarie.
Seguiamo allora il corso di questa scoperta: Vico apre la strada all’idea della differenza tra le culture. E poi?
E poi arriva Herder. Questo tedesco credeva nelle stesse cose di Vico ma, in più, nell’idea che ci fossero molte culture contemporaneamente: quello che credono i Francesi, pensava, non è quello che crediamo noi Tedeschi, quello che credono gli Italiani è diverso da quello che credono gli Svedesi. L’unico modo di scoprire la verità allora è attraverso qualche tipo di profonda simpatia tra le culture, non da soli. E’ una specie di pluralismo della conoscenza e, insieme, una forma di oggettivismo. Quello che vogliamo noi Tedeschi è diverso da quello che vogliono i Portoghesi e noi abbiamo ragione di volerlo in quanto Tedeschi, così come loro hanno ragione di volerlo in quanto Portoghesi. L’idea di una verità universale, di una risposta vera a tutte le domande, come quella in cui credevano Voltaire, Rousseau, Kant non è più giusta. Non ci sono idee universali percepite ovunque, sempre, da tutti gli uomini, come per legge naturale. Le verità non sono eterne, le verità sono locali.
Come arriviamo di qui al nostro Hamann?
Lasciamolo stare ancora per un momento Hamann. Per ora noi vediamo come un Vico e Herder si cominci a sovvertire l’idea di universalità. Se passiamo al diciannovesimo secolo troviamo gli eroi di Byron che sfidano le convenzioni, il Don Giovanni, che è un altro personaggio fondamentalmente contro le convenzioni, troviamo Beethoven, che non si cura delle regole, «Scrivo quello che ho nel cuore». Troviamo, poi, lungo questa strada, Nietzsche e altri. E troviamo il nazionalismo.
Ma non c’è un salto tra i nomi che ha fatto e il fenomeno del nazionalismo?
Che cos’è il nazionalismo? E’ quell’atteggiamento per cui uno dice: faccio questa cosa non perché sia giusta, non perché sia buona o utile, non perché rende la gente felice, no, lo faccio perché sono tedesco e questo è il modo tedesco di fare le cose. Essere tedeschi significa appartenere a un corpo organico chiamato Germania. Ed io esisto unicamente in quanto sono parte di questo grande organismo, di questa meravigliosa cultura che è quella tedesca. La Germania, la cultura tedesca sono il perseguimento di un’unica missione. I suoi valori sono creati da essa. E quello che faccio è bene per gli ideali tedeschi. Perché? E’ qualcosa che non dipende da me: essere tedeschi significa pensare in tedesco, mangiare tedesco, bere tedesco, camminare come un tedesco. Il fatto che i Cinesi non facciano nello stesso modo non significa niente per me, tedesco.
Non ho ancora capito dove va a finire il suo ragionamento: con Vico e con Herder abbiamo la scoperta della molteplicità delle culture, dei punti di vista. Ma in questo modo apriamo la strada al pluralismo, alla convivenza delle differenze. Invece il nazionalismo può essere intollerante, bellicoso, fanatico.
Nel diciottesimo secolo comincia non solo il nazionalismo ma anche un fenomeno che si può definire esistenzialismo: io mi affido a certi ideali e non lo faccio perché essi siano delle verità obiettive, perché ci sia qualche ragione metafisica che mi porti a farlo. No, lo faccio perché la mia vita è dedicata a questo impegno, lo faccio perché questa è la ragione che ho dato alla mia vita. E gli ideali che cosa sono? Non sono delle scoperte, sono delle invenzioni. Gli ideali non si trovano, gli ideali si fanno. Quando si arriva a questo punto, ci troviamo di fronte qualcosa di totalmente nuovo e pericoloso.
E questo vale per il nazionalismo?
Non solo. Vale per esempio per l’anarchia, per la Chiesa, per la classe, per il partito. Cominciamo, per esempio, dall’ideale anarchico. Ecco, se sono anarchico faccio delle cose perché questo è ciò che voglio, perché questa è la ragione per cui sono disposto a dare la vita. Io non accetto quello che vuole un Parlamento o quello che vuole un re; io sono quello che sono per individualismo, soggettivismo, romanticismo. E così altra gente fa quello che fa perché ha dedicato la sua vita a quello che vuole la nazione, la chiesa, la classe sociale, il partito. In altre parole è l’idea dell’io che si espande in qualcosa di più grande, in un super-Io, che si sente al centro: faccio quello che faccio perché me lo dice la nazione, perché me lo dice la chiesa, il partito, la storia, il progresso. Quello che viene detto agli altri non mi interessa, perché io sono parte di un movimento e appartengo a un organismo che si può chiamare «nazione» che si può chiamare «Bosnia» o «Serbia».
E la strada che porta ai nazionalismi esclusivi e distruttivi comincia con il Romanticismo?
È stato Herder quello che ha cominciato a dire che essere liberi significa vivere nella propria comunità dove si capisce quello che la gente dice perché parla la nostra lingua, che bisogna appartenere a qualcosa, perché in caso contrario si è degli esuli. E appartenere significa capire quello che fanno gli altri dai gesti, dalla lingua, dal modo di guardare, di mangiare. Lo diceva anche Hegel: libertà significa essere a casa. E l’idea di essere a casa, qui invece che là, è l’inizio del pluralismo. Ma se invece io comincio a dire che la mia casa è meglio della tua, è più importante e più bella della tua, o che la tua casa deve essere sottomessa o distrutta per il suo proprio bene allora posso anche farti la guerra.
Lei vuol dire chela scoperta della molteplicità delle culture, che potrebbe dal luogo alla convivenza, con il soggettivismo romantico produce violenze e guerra?
Prendiamo una situazione di duello. Mettiamo che io creda in X e lei creda in Y. In questo caso ci troviamo a dover combattere. Può finire che io la uccido o che lei uccide me o che ci ammazziamo entrambi. Nella cultura di questo io espanso tutte e tre queste cose sono meglio del compromesso, perché in quella visione il compromesso è una cosa miserabile, perché significa il tradimento della luce nella quale acquista un senso la nostra vita. E questa è una cosa che abbiamo imparato, che si deve morire per i propri ideali, no? Guardi che stiamo arrivando ad Hamann, ma prima devo dire qualche cosa su un altro concetto.
Vedo che lei ha ben chiaro il tracciato del suo ragionamento. Sa dove andremo a finire, dove vuole portare me e i lettori. Quindi: qual è questo concetto?
È la sincerità. È questa una virtù nuova che non c’era stata nel sedicesimo secolo. Non c’è verso di trovare un’idea del genere. Nessuno ci credeva, nella sincerità. Esisteva anche prima il martirio, certamente. Capitava di dover morire nel nome della verità, ma non c’era alcun rispetto per la sincerità. Non c’era un cattolico nel Cinquecento che pensasse dei Protestanti che essi credevano, sì, il falso, portavano, sì, le loro anime alla perdizione, ma che meritavano rispetto perché non lo facevano né per il denaro né per la gloria, bensì per la sincera convinzione nelle loro idee. Il rispetto per l’intima sincerità della gente comincia nel tardo Settecento e arriva insieme alla varietà delle culture, insieme all’idea che la varietà è buona e che la monotonia è cattiva. Ancora per Spinoza c’è una sola verità, mentre l’idea che la varietà sia buona in quanto tale deriva dal pensare che non c’è soltanto una risposta alla domanda, ma che ce ne sono molte. Questa idea non era qualcosa di accettabile prima del diciottesimo secolo. Con essa si determina una nuova situazione morale, politica e filosofica.
Abbiamo le ragioni del pluralismo da una parte e quelle dell’unità della conoscenza dall’altra.
Noi siamo vittime di entrambe le cose; crediamo nella scienza, ma crediamo anche nella sincerità; crediamo nei valori morali obiettivi, ma crediamo anche nell’essere tolleranti verso il dissenso di altri. Non sappiamo più dove siamo. Facciamo un esempio: supponiamo che io le chieda chi è stato migliore tra Federico il Grande o Torquemada. Quest’ultimo era un uomo completamente sincero, uccise una gran quantità di gente per salvar loro l’anima, perché nell’altro mondo avessero una possibilità di salvezza. Provocò molta sofferenza, commise crudeltà, fece morire tanti altri ebrei, musulmani, ogni genere di eretici cristiani, ma lo fece per un motivo molto puro: voleva salvarli. Federico il Grande invece era un assoluto mascalzone e non credeva in nulla, eppure gli standard di vita in Prussia con lui migliorarono. Chi è migliore tra il sincero Torquemada e l’ipocrita, ma utile Federico il Grande?
Dipende da che cosa si intende per «migliore». Migliore per chi? Parliamo delle motivazioni o delle conseguenze? Credo però che, dovendo scegliere un uomo da mettere al potere, la maggioranza delle persone non avrebbe dubbi.
Non c’è una risposta a quella domanda. Quello che voglio dire con questo esempio è che ci sono persone che risponderebbero in un modo e altre in un altro, perché ci sono due ideali: uno è quello della verità e del bene universali, l’altro è quello di una verità soggettiva, nazionale, oppure religiosa, che non è uguale per tutti, ma diversa. Se uno è comunista ritiene che ci sia una sola soluzione vera al problema e si sente autorizzato a uccidere la gente che vi si oppone; se uno è liberale non può dire la stessa cosa e prende atto che ciascuno vive la propria vita e che non c’è ragione di andare in giro a far fuori quelli che non la pensano nello stesso modo. Questo significa che tutti hanno il diritto di credere a cose totalmente diverse in tutti i sensi? Evidentemente c’è un limite: sostenere che due per due fa diciassette oppure che la luna è fatta di formaggio verde vuol dire spingersi troppo in là. Ma dobbiamo convivere con il conflitto tra valori locali, individuali, nazionali, soggettivi, plurali, imperiali; in altre parole tra verità di diverse culture.
Sembra che ci stiamo avvicinando finalmente alle ragioni del suo interesse per Johann Georg Hamann. Che parte ha questo filosofo tedesco nella storia di questo conflitto tra verità universali e verità soggettive?
Fatta questa lunga premessa, adesso possiamo dirlo. E l’affermazione dovrebbe risultare a questo punto più chiara per i suoi lettori: è mia opinione che Hamann sia stato il primo pensatore che abbia attaccato e denunciato l’illuminismo sotto ogni riguardo, sostenendo che tutte le affermazioni della cultura francese di quell’epoca erano false e insignificanti, che, all’opposto delle pretese universali, l’unica cosa che conti è l’esperienza concreta, che tutte le teorie sono pericolose, che tutte le affermazioni generali sono vuote. L’idea che ci siano verità generali è per Hamann insensata, così come è insensato sostenere che tutti gli uomini vogliono essere felici o che vogliono essere devoti a Dio. Nulla può essere vero riguardo a tutte le cose. Ogni forma di teoria, di proposizione generale o di verità universale è una illusione. L’unica cosa che conta è l’esperienza diretta. Se si crede a questo, se si accetta questo modo di pensare allora si comincia col dire: «Bene, era un cristiano molto pio, credeva nella Bibbia, credeva in Dio, ci credeva perché Dio gli parlava direttamente attraverso i libri sacri». Ma questo non vale solo per lui, vale per tutti coloro che dicono: «Leggiamo la Bibbia e sappiamo che Dio ci parla direttamente, che ci parla attraverso i libri, attraverso gli alberi, le pietre, i fiumi, che ci parla attraverso la storia». Insomma se uno vuole sentire la voce del Signore, sente la voce del Signore, e dovrà imparare l’ebraico dal momento che il Signore parlava in ebraico. Ma se uno legge Lutero in tedesco è, anche questa, una buona cosa se la sua lingua è il tedesco, perché la nostra lingua è come nostra «moglie», mentre una lingua straniera è come una «signora» estranea. Eccoci nel mezzo delle idee di Hamann l’unica cosa che conta è l’esperienza diretta di qualunque genere. Se uno chiede: «Che cosa è bene?», si può rispondere: «Le dirò che cosa è bene. E’ bene non uccidere». «Perché?» chiede l’altro. E si può rispondere: « Lo so perché Dio me l’ha detto», oppure: «Lo so perché ho questo sentimento dentro di me». Il pensiero di Hamann è questo: «Io sono una persona concreta, tu sei un essere umano e perciò ti voglio bene e ti comprendo. Se invece mi metto a fare teorie su di te allora non comprendo più niente».
La poesia, l’arte, la profezia: per Hamann sono queste le vie della conoscenza, non il lavoro degli scienziati.
Gli sono state attribuite affermazioni del genere anche se non ha esattamente scritto così: «Dio non è un matematico. Dio è un artista». Ma a questo proposito basta ripescare quello che di Hamann diceva Goethe, che lo ammirava.
Hamann si presenta come un accanito avversario della scienza, dell’illuminismo. Ma questo non spiega ancora il posto che lei gli attribuisce nella storia del pensiero.
Hamann era un reazionario. Odiava il liberalismo, la scienza,il progresso. Eppure Herder era apparentemente un suo devoto allievo, anche Jacobi lo era. Kierkegaard lo considerò un pensatore più grande di quanto non considerasse se stesso. Schelling lo riteneva meraviglioso. Tutto il Romanticismo tedesco giudicava Hamann straordinario, mentre i francesi in generale non lo amavano e nemmeno lo leggevano.
Ma Hamann non fu certo l’unico avversario dei Lumi. Ci furono altri reazionari, come Burke.
Ma Hamann era molto peggio, perché Burke almeno credeva in quello che si sarebbe poi chiamato il «senso comune», credeva nel quieto giudizio delle persone ragionevoli. Hamann invece non ci credeva. Credeva nella passione, nella relazione diretta con qualcosa di genuino, autentico, credeva nella rivelazione. In una lettera al suo allievo Herder scrisse: «Pensa di meno, vivi di più».
Lei ha detto che Hamann la interessa perché è stato il primo a denunciare l’Illuminismo da tutti i punti di vista. Ma anche altri nella stessa epoca attaccavano la mentalità universalistica che veniva da Parigi.
Sì, ma nessuno lo fece alla maniera di Hamann. Vede, anche Vico denunciava il razionalismo, pensava che chi ne seguiva l’ispirazione si sbagliava, ma Vico era un buon cattolico, credeva nella provvidenza, credeva in una specie di esame razionale della storia. E anche Herder, che criticava diversi aspetti dell’Illuminismo, non mi risulta che se la prendesse con la scienza. Anzi era interessato alla fisica, alla chimica. Pur essendo un allievo di Hamann, Herder non esprimeva una tendenza anti-scientifica. Hamann invece odiava e respingeva ogni forma di universalità, ogni forma di teorizzazione. Ed era anche contrario alla tolleranza.
Forse comincia a essere chiara la ragione importante da cui sorge il suo interesse per Hamann. Cerco di riassumere il cammino fino a questo punto perché tutto sia più chiaro per i nostri lettori: con Vico ed Herder (due figure sfasate nel tempo di un cinquantennio, il primo muore nel 1744, il secondo nel 1803) si giunge alla scoperta della varietà delle culture, della pluralità delle verità e si manifesta un indirizzo contrastante con l’universalismo e il razionalismo illuministici che sfoceranno nella Rivoluzione francese. Essi sono i teorici della diversità delle culture nel tempo e nello spazio. Ma questo loro distaccarsi dall’universalismo non ha la virulenza dell’attacco di Hamann. Il pensiero di quest’ultimo, che pure è stato il maestro di Herder, contiene qualcosa di più esplosivo, radicale, pericoloso e distruttivo. Herder contempla la varietà dei modi di essere del genere umano nelle varie parti del mondo come un bene; Herder predispone alla tolleranza, alla convivenza delle diversità. Hamann invece è, secondo lei, alla radice dell’intolleranza. In che modo possiamo adesso con l’aiuto dei suoi studi sul Romanticismo tedesco comprendere meglio le tragedie dell’Ottocento e del Novecento?
Possiamo dirlo così: abbiamo sofferto negli ultimi due secoli tanto degli eccessi dell’Illuminismo come di quelli del Contro-Illuminismo. Violente erano certe eccessive pretese di uniformità, di fare indossare a tutti la stessa uniforme, avanzate nel nome dell’Illuminismo. E violenta è la reazione contraria con tutti i suoi eccessi di soggettivismo, romanticismo, nazionalismo. Una reazione che ha dato origine ai nostri maggiori guai di oggi e ai due più grandi movimenti della nostra epoca attuale: il nazionalismo e il razzismo.
E qual è il posto di Hamann in questa storia?
È il primo che ha gettato la bomba contro l’Illuminismo. È quello che ha gettato la bomba originaria. Io non accetto il pensiero di Hamann, penso che si tratti di un pensatore pericoloso, forse anche leggermente pazzo e profondamente reazionario. Io sono invece favorevole all’Illuminismo, come credo anche lei; tuttavia non possiamo fare a meno di chiederci da dove sia venuta questa reazione.
Dagli eccessi dell’Illuminismo e dell’universalismo.
Esattamente. E quest’uomo è colui che lancia la sfida all’Illuminismo. Anzi, di più: la prima sfida a duemilacinquecento anni di pensiero razionale viene da questo curioso, isolato, umile, povero, non letto autore di Königsberg. Dopodiché tutto è andato storto.
La passione soggettiva della appartenenza a una nazione non ha avuto, secondo alcuni, solo aspetti negativi. È stato, si dice, il motore della costruzione degli stati nazionali nell’Ottocento. E quindi un fattore di progresso.
Sì, lo pensava Mazzini e qualcun altro con lui, ma non è una idea da considerare prevalente. Che il nazionalismo sia stato un fenomeno progressivo non lo pensava Marx, non lo pensava Freud, non l’ha pensato il movimento socialista, non l’aveva pensato Proudhon. Non lo pensa Popper.
Eppure nella fase di nascita delle nazioni sorte nell’Ottocento: la Grecia, l’Italia…..
No, anche i movimenti che hanno dato luogo agli stati nell’Ottocento erano sostenuti da convinzioni universalistiche. Lo spirito dell’epoca era dominato dal cosmopolitismo, dall’internazionalismo, dalla grande fiducia nella scienza. Io penso che il nazionalismo non sia mai stato progressivo, dovunque sia apparso. Ed oggi è chiarissimo che si tratta di un fenomeno patologico. Certamente la coscienza profonda di appartenere a una nazionalità (nationhood), il bisogno di identificarsi politicamente come appartenenti a una entità autonoma sono un fenomeno molto positivo, ma il nazionalismo (nationalism), in quanto infiammato senso dell’appartenenza, non lo è affatto.
Un punto che mi incuriosisce del suo ragionamento è che lei mette Hamann alla radice di un cumulo di guai che sono seguiti all’attacco irrazionalistico che lui ha iniziato, ma fa anche concessioni evidenti alla critiche dell’Illuminismo.
Ho già detto che soffriamo di un male duplice: eccesso di uniformità sul versante illuministico ed estremismo della reazione romantica che conduce fino ai nostri guai di oggi.
Dobbiamo trovare una via di mezzo?
Dobbiamo adattarci alle varietà locali: dobbiamo pensare che la molteplicità e la tolleranza sono i caratteri virtuosi di un mondo caleidoscopico. Possiamo dire con le parole di Mao, «che cento fiori fioriscano». E sperare in un mondo dove si combinino varietà e razionalità, felicità e conoscenza, giustizia e riconoscenza. E a questo punto è chiaro che stiamo parlando di una utopia, perché intanto abbiamo a che fare con le peggiori conseguenze degli eccessi dell’uno e dell’altro lato e siamo qui a sperare che la gente si stanchi di ammazzarsi.
Il suo atteggiamento verso l’Illuminismo è ambiguo. Lei si considera illuminista, ma insiste sul pericolo degli eccessi in entrambe le direzioni.
Ripeto le parole dell’oracolo di Delfi: «Non andate troppo lontano». Voglio dire: non spingetevi troppo in là. Di nulla troppo. Se si adotta una soluzione e ci si insiste oltre misura si finisce per esserne bruciati.
La sua, allora, è una filosofia dell’anti-esagerazione?
Sì, dell’anti-eccesso. Si deve credere in alcuni principi, ma ricordando le parole di Cromwell.
Uno che esagerava.
Non c’è dubbio che esagerava, ma nel suo famoso discorso disse: «Vi prego per le viscere di Cristo, pensate che potreste sbagliare».