Integrazione degli immigrati, l’Europa fa troppo poco

L’immigrazione è ormai divenuta una caratteristica permanente di una buona maggioranza dei paesi Europei. Fra questi, Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Italia, Portogallo, Svezia e Danimarca in particolare presentano una percentuale di stranieri residenti che incide stabilmente, a seconda dei casi, dal 5% a quasi il 10% sul totale della popolazione.
Fin dalla comparsa del fenomeno della lungo-residenza degli stranieri nei paesi di accoglienza, i singoli stati si posti il problema di quali fossero le politiche più adatte a tentare di incorporare i cittadini stranieri nella vita socio-economica dei propri paesi. Nel corso degli anni, essi hanno messo in piedi strategie di integrazione autonome e di natura a volte profondamente diversa tra loro.
L’Unione Europea, che fino al 1999 era rimasta un attore piuttosto marginale su questioni riguardanti l’immigrazione, ha cominciato a partire da quell’anno ad intervenire nel dibattito pubblico nel tentativo di favorire la diffusione delle “buone pratiche” e di armonizzare gli approcci fra paesi. Stabilire fino a che punto essa sia stata in grado di perseguire tali obbiettivi è l’oggetto del presente articolo.

L’intervento della EU

Il Consiglio europeo di Tampere (1999) è stato il primo a formalizzare l’idea che fosse urgente assicurare maggiore garanzia dei diritti fondamentali agli stranieri residenti nei paesi europei:

“L’Unione europea deve garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE.”

Il piano per l’integrazione degli immigrati ideato a Tampere ruota intorno a tre principi fondamentali. Il primo è che l’UE deve occuparsi di garantire la libertà e la sicurezza di tutte le persone residenti sul suo territorio – tanto dei cittadini dell’UE, quindi, quanto dei cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri. Il secondo principio è quello della non-discriminazione, ovvero l’uguale possibilità per tutti i residenti di partecipare attivamente alla vita economica e sociale della società in cui vivono. Il terzo principio riguarda lo status giuridico dei residenti di lungo periodo. Per questa particolare categoria di individui, il Consiglio ha prescritto il riconoscimento di uno status speciale, molto simile a quello dei cittadini degli Stati membri, nonché la possibilità di acquisire la cittadinanza dello Stato membro ospitante.
I tre principi sono stati ribaditi ed integrati in diverse occasioni. Nel 2002 il Consiglio europeo di Siviglia ha chiesto di raddoppiare gli sforzi volti a sviluppare una politica coerente per l’integrazione degli immigrati legalmente residenti. Nel 2003 il Consiglio europeo di Salonicco ha invitato la Commissione a presentare una relazione annuale sull’integrazione degli immigrati in Europa, e ha sollecitato l’istituzione di principi fondamentali comuni per l’integrazione. Tali principi di base sono state fissati l’anno successivo a Bruxelles. Essi consistono in undici punti molto ampi destinati ad “assistere gli Stati membri nella formulazione delle politiche di integrazione, offrendo loro una guida semplice non vincolante ma ponderata”. Molta enfasi viene posta sull’idea di integrazione come un processo bifronte, che da un lato prevede gli sforzi da parte degli immigrati, che sono tenuti a conoscere e sottoscrivere i valori fondamentali dell’Unione europea, e dall’altro ricade sulle società di accoglienza, da cui ci si aspetta un impegno di apertura dello spazio pubblico al fine di accogliere le esigenze e le richieste legittime dei nuovi arrivati.
Nel 2005, l’UE ha varato il piano quinquennale d’azione in materia di immigrazione, conosciuto come il programma dell’Aia. L’integrazione degli immigrati figurava come uno dei principali temi all’ordine del giorno. Il programma ha istituito un fondo per l’integrazione, con la raccomandazione agli Stati membri di sviluppare corsi di lingua e di educazione civica per immigrati. Quando il periodo di validità del piano dell’Aia è scaduto, un nuovo schema pluriennale per il periodo 2010-2015 è stato elaborato a Stoccolma. Il piano di Stoccolma ha ribadito il ruolo fondamentale dei servizi linguistici degli stati membri, pur insistendo sul fatto che gli sforzi di integrazione devono essere effettuati in tutti i settori della vita pubblica e sociale.

L’impatto sulle politiche nazionali

Quando ci si accinge a valutare l’impatto della UE sui regimi nazionali di integrazione, è essenziale notare che tutte le iniziative dell’UE in materia appartengono a un settore che il Trattato di Lisbona definisce “a competenza condivisa”, in cui la legiferazione nazionale dovrebbe essere limitata alle aree in cui l’Unione non ha in precedenza esercitato la sua competenza. Ciò significa che, almeno in teoria, l’UE dispone di un ampio margine di manovra in questo campo. Tuttavia, uno sguardo più da vicino la natura delle iniziative dell’UE rivela che in pochissimi casi, solo l’UE ha potuto fare pieno uso dei suoi poteri.
Tra i rari casi in cui l’UE è riuscita a guidare la riforma delle politiche in materia di integrazione degli immigrati meritano sicuramente di essere menzionate le direttive del Consiglio del 2003 e del 2005. La prima ha istituito il rilascio automatico dei permessi di soggiorno a lungo termine per i singoli individui che hanno risieduto nel paese per 5 anni, mentre il secondo ha stabilito le regole di base per la concessione del diritto al ricongiungimento familiare. Questi risultati, tuttavia, costituiscono più l’eccezione che la regola. La maggior parte del tempo l’UE si è limitato a giocare un mero ruolo consultivo, in cui i progressi concreti sono dipesi in misura molto maggiore dalla buona volontà degli stati membri.

Ci sono diverse ragioni dietro la natura modesta del ruolo dell’UE nella definizione dei regimi nazionali di integrazione. Il primo motivo è la mancanza di potere di esecuzione. Le direttive dell’UE sono infatti strutturate come misure non vincolanti, destinate a fornire agli Stati membri una mera assistenza nella definizione delle proprie politiche. Le linee guida sono formulate come principi (molto) generali da cui i responsabili politici nazionali, possono (ma anche non) trarre ispirazione. Il fatto che né la Commissione né il Parlamento europeo (PE) abbiano un ruolo significativo rende più facile per gli Stati membri di agire in modo indipendente l’uno dall’altro. I principi dell’UE finiscono così per mancare di forza giuridica concreta.

Il secondo motivo di limitato impatto dell’UE sta nella vaghezza delle direttive UE. I documenti prodotti nel quadro delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea non contengono regole né liste di priorità in termini di politiche pubbliche; essi piuttosto enunciano i principi di base che dovrebbero fare da sfondo durante la formulazione delle politiche. La nozione di “integrazione come un processo bifronte” è esemplare a questo riguardo. L’UE non ha fornito alcuna specificazione di come un tale sforzo reciproco dovrebbe essere tradotto nella pratica, e nemmeno di come dovrebbe essere inteso esattamente. Il risultato è che il margine di interpretazione è così grande da rendere la raccomandazione vuota nella pratica.
Un altro fattore di riduzione dell’impatto dell’UE sulle politiche nazionali di integrazione è la sua forte dipendenza dalle “best practices” degli stati membri. Lo scambio di esperienze e pratiche fra i vari paesi è esplicitamente auspicato in tutti i documenti dell’UE come metodo per promuovere il progresso nelle politiche di integrazione. L’elogio dell’ emulazione buone pratiche, tuttavia, rimane su un livello astratto, in quanto non individuo nello specifico una serie di buone pratiche degne di essere replicate. Pertanto, non vi è alcuna garanzia che i programmi nazionali di integrazione rimangano in linea con la direzione (vagamente) indicata dalla UE. Gli stati membri sono incoraggiati a prendere spunto da pratiche di altri Stati, ma non c’è alcuna conferma sull’efficacia effettiva di tali politiche.
La vaghezza delle direttive e l’eccessivo affidamento sulle buone pratiche sono strettamente correlati ad un altro problema squisitamente europeo in campo di politiche migratorie, ovvero la difficoltà di elaborare meccanismi di controllo efficaci. Più gli obiettivi sono vaghi, più è difficile determinare se e in quale misura essi siano stati raggiunti. Non a caso, infatti, non esiste nessun organo di monitoraggio creato per questo scopo. L’Unione non è neanche in grado di accertare che i mezzi finanziari attribuiti a sostenere programmi nazionali di integrazione vengono utilizzati in armonia con le sue linee guida. Il fondo 2004 per l’integrazione, per esempio, non è sottoposto ad alcuna procedura di revisione, nonostante il fatto che esso rappresenti la principale fonte finanziaria per i governi nazionali di sviluppo dei regimi di immigrazione.

Conclusione

In conclusione, è possibile affermare che nonostante l’aumento senza precedenti (e in crescita) del coinvolgimento dell’UE nelle politiche in materia di integrazione degli immigrati, l’impatto dell’UE limitato sulle politiche nazionali di integrazione negli ultimi quindici anni è stato seriamente limitato. I limiti sono, per la maggior parte, autoimposti. La mancanza di poteri di applicazione è ovviamente un fattore importante che spiega la modestia del ruolo dell’Unione europea, ma non è certo l’unico. La strutturazione delle proposte comunitarie, che sono dolorosamente vaghe, e mancanza di originalità (dipendenza da “buone pratiche” nazionali), mina definitivamente gli sforzi europei di generazione di una forza centripeta di convergenza. Nonostante alcuni risultati siano stati effettivamente raggiunti, in particolare per quanto riguarda lo status dei cittadini di paesi terzi, il suo impatto sulla formazione degli approcci nazionali di integrazione degli immigrati rimane modesto.

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