Mohamed Morsi è stato eletto presidente, il primo Capo di Stato civile della Repubblica Araba d’Egitto dal 1953, quando Mohamed Naguib inaugurò una lunga serie di presidenti in uniforme militare che ha avuto termine diciotto mesi fa con la destituzione di Mohamed Hosni Mubarak. Si tratta anche del primo presidente della storia egiziana eletto in maniera democratica.
Abbastanza a prescindere dall’esito del voto popolare – che sembra essere stato favorevole al candidato della Fratellanza Musulmana per un margine ristretto – la proclamazione del vincitore è rimasta in sospeso per diversi giorni carichi di tensione, durante i quali l’establishment militare ha negoziato con i Fratelli una serie di limitazioni sostanziali ai poteri e alle competenze effettivi del nuovo presidente.
La Fratellanza pareva avere parecchie frecce al suo arco, avendo già ottenuto una larga vittoria nelle elezioni parlamentari (insieme ai più conservatori partiti salafi) e ora nelle elezioni presidenziali. Ma le elezioni per il Parlamento erano state dichiarate nulle, il Parlamento stesso era stato sciolto, la prima Assemblea Costituente (in cui la Fratellanza aveva una maggioranza schiacciante) era stata dichiarata incostituzionale, le leggi marziali erano state a tutti gli effetti reintrodotte e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) aveva proclamato, pochi giorni prima del secondo turno delle elezioni presidenziali, un’integrazione importante alla Dichiarazione Costituzionale che riduceva significativamente i poteri del nuovo presidente a favore dello stesso SCAF.
Il comparto militare aveva un’ampia gamma di strumenti a sua disposizione per intimidire i Fratelli Musulmani e ovviamente era pronto a utilizzarli tutti, con la piena cooperazione dello “Stato sommerso” composto dai molti superstiti del vecchio regime ancora presenti nelle pubbliche amministrazioni, nella giustizia e nelle forze di polizia.
Come se ciò non bastasse, lo SCAF aveva anche recentemente istituito un Consiglio di Difesa Nazionale che prenderà tutte le decisioni in materia di sicurezza nazionale. Il nuovo presidente e il suo Primo ministro saranno due dei 17 membri di tale organismo, 12 dei quali saranno i massimi gradi del comando militare delle Forze Armate e dei Servizi Segreti egiziani. L’establishment militare resterà quindi indipendente dal governo di elezione civile – a tutti gli effetti uno Stato nello Stato – e avrà l’ultima parola su tutte le questioni che riguardano la sicurezza interna, la politica economica e le relazioni internazionali.
Ciò vuol dire che malgrado Mohamed Morsi abbia vinto alle urne, il riconoscimento ufficiale della sua vittoria è costato caro alla Fratellanza Musulmana, prima di tutto in termini di potere politico. Il nuovo presidente – e il governo che nominerà – non avranno gli strumenti necessari per gestire una situazione politica, economica e internazionale estremamente difficile e ben presto potrebbero trovarsi a dover pagare per questo un alto prezzo politico in termini di favore popolare. Anche il budget del prossimo anno fiscale è stato presentato alla vigilia delle elezioni dal governo uscente e verrà approvato direttamente dallo SCAF, che attualmente esercita tutti i poteri del dissolto Parlamento.
Certamente la Fratellanza avrebbe potuto rifiutarsi di scendere a compromessi con i militari. In quel caso avrebbe probabilmente dovuto rinunciare a una carica peraltro estremamente indebolita di presidente e il candidato dei militari, Ahmed Shafiq, avrebbe ottenuto la nomina a Capo di Stato. Un’eventualità del genere – che avrebbe significato il fallimento totale di tutti gli obiettivi della primavera egiziana – avrebbe però innescato una spirale di violente proteste e repressione probabilmente peggiore di quella che ha appena avuto luogo a piazza Tahrir e nelle aree circostanti da gennaio 2011 in poi. Negli ultimi giorni il SCAF ha dato chiari segnali di essere pronto a reprimere con tutta la forza necessaria qualsiasi protesta contro le decisioni che sarebbero state annunciate. Oltretutto una decisione che avesse contraddetto i risultati delle elezioni avrebbe emarginato l’Egitto nel panorama internazionale, creando gravi problemi soprattutto con gli Stati Uniti.
Perciò, anche se l’elezione di Mohamed Morsi nelle circostanze attuali è un traguardo ben più modesto rispetto a quanto molti si sarebbero aspettati, i compromessi che hanno portato a questo risultato appaiono un atto di saggezza politica degno di lode e, in ogni caso, tale elezione rappresenta un progresso sostanziale nel panorama politico egiziano. L’Egitto di oggi è già estremamente diverso da quello di due anni fa, e il contesto mostra diversi segnali di un’ulteriore evoluzione in atto.
A breve termine la competizione per il potere tra SCAF e Fratellanza Musulmana certamente continuerà e si manifesterà ancora in due importanti occasioni: le elezioni parlamentari, che devono essere ripetute dopo lo scioglimento da parte della Corte Costituzionale delle due Camere elette, e la stesura e approvazione della nuova Costituzione che dovrebbe definire in termini legali il nuovo equilibrio politico tra i principali soggetti politici della società egiziana, così come sono e saranno rappresentati nelle istituzioni politiche.
Tali eventi avranno luogo in un contesto politico in fase di divenire. Come spesso avviene al termine di un lungo periodo di oppressione politica, il sentimento popolare potrebbe mostrare cambiamenti repentini. Non sarà infatti sfuggito a tutti gli osservatori il fatto che, malgrado Mohamed Morsi abbia vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali, al primo turno di consultazione la maggioranza che ha votato per lui è stata inferiore di parecchi milioni di voti a quella ottenuta dal Partito Libertà e Giustizia nelle precedenti elezioni parlamentari. Questi risultati rispecchiano le divisioni interne alla Fratellanza (un esempio ne è la candidatura dell’altro Fratello, a quanto detto più liberale, Abd el Moneim Abd el Foutouh) ma anche la misera prestazione del Partito Libertà e Giustizia nella breve vita del Parlamento oltre che, probabilmente, una reazione a quella che parecchi elettori egiziani considerano un’influenza politica eccessiva della Fratellanza. E i compromessi che hanno portato alla conferma della nomina di Mohamed Morsi certamente non aiuteranno il prestigio dei Fratelli Musulmani.
Via via che la corsa alla presidenza si focalizzava sui candidati della Fratellanza e dell’establishment militare, il movimento politico laico, moderato e più liberale che aveva dato fuoco alla miccia della rivoluzione egiziana a gennaio 2011 nelle ultime settimane ha iniziato a suscitare sempre meno attenzione.
Si è molto parlato, soprattutto dopo le elezioni per i due Rami del Parlamento, dell’incapacità dei movimenti progressisti egiziani di trasferire la propria influenza politica da Piazza Tahrir alle istituzioni. Questa incapacità è stata giustamente motivata con la frammentazione, la mancanza di leader e di programmi politici coerenti e soprattutto con la carenza di esperienza politica, specialmente a fronte di un’organizzazione radicata, potente e motivata come la Fratellanza Musulmana.
Malgrado ciò al primo turno delle elezioni presidenziali la somma dei voti del terzo e quarto classificato – il laico Hamdeen Sabbahi e l’islamista moderato Abd el Foutouh – corrispondeva al 40 per cento del totale delle preferenze. Ciò vuol dire che esiste una forte base moderata, forse ancora più forte di quanto fosse possibile ipotizzare un anno fa, che potrebbe far sentire la propria voce a partire dalle prossime elezioni parlamentari, se solo riuscisse a convergere intorno a candidati e programmi comuni.
I Fratelli Musulmani ne sono pienamente consapevoli, dal momento che Mohamed Morsi, probabilmente allo scopo di consolidare la presa sull’establishment militare e sui resti del regime di Mubarak, ha promesso di includere rappresentanti dei movimenti laici moderati nel prossimo governo egiziano. Dovrà anche rassicurare la minoranza cristiana copta, comprensibilmente e seriamente preoccupata dall’ascesa politica delle forze islamiste.
Nel prossimo futuro, e di certo finché non verrà approvata una nuova Costituzione, il fulcro della vita politica egiziana sarà rappresentato dalla battaglia di tutte le forze politiche egiziane contro i persistenti tentativi del comparto militare e dello “Stato sommerso” di controllare e dettare le regole del gioco politico. Il perseguimento di tale obiettivo richiederà probabilmente la cooperazione tra islamisti e laici al fine di ottenere una Costituzione che garantisca una divisione ragionevole dei poteri e un sistema elettorale che consenta la libera espressione del sentimento popolare.
Il futuro della “primavera egiziana” dipende in gran parte dal successo di questa cooperazione. Se una delle forze politiche preferirà raggiungere un accordo separato con il SCAF per ottenere vantaggi politici a breve termine, sarà difficile prevedere cambiamenti sostanziali.
Solo quando (e se!) sarà attivo un nuovo quadro di riferimento costituzionale si potrà assistere a un ritorno alla competizione tra le componenti laiche e confessionali della società egiziana, nell’ambito di un lento e complesso processo di modernizzazione. Sarà responsabilità dell’establishment militare – visto che ancora detiene così tanto potere – fare in modo che tale competizione rimanga a un livello pacifico e supporti lo sviluppo dei prerequisiti fondamentali della democrazia: lo stato di diritto, la divisione dei poteri e l’alfabetizzazione diffusa. Il comparto militare egiziano può svolgere il ruolo di arbitro nel processo politico egiziano oppure continuare ad esservi direttamente coinvolto come uno degli attori principali. È questa la scelta che farà tutta la differenza.
(Traduzione di Chiara Rizzo)