Non solo affari. Non solo un road show per presentare la “nuova” Italia e attirare capitali nella nostra economia in affanno. Nel suo giro nei paesi del Golfo, una decina di giorni fa, Mario Monti ha parlato anche di politica con i suoi interlocutori. Di quella domestica, certo, per rassicurare emiri e sultani dubbiosi sulle nostre capacità di ripresa, ma anche di quella regionale, con particolare riferimento allo scacchiere israelo-palestinese e alla crisi siriana. Nel suo colloquio a Mascate, con il sultano Qabus dell’Oman il presidente del consiglio ha discusso anche temi «strategici».
Riferiva il 19 novembre scorso l’Ansa che i due hanno discusso dello scenario regionale segnato dagli «sviluppi in Medio Oriente e in Nord Africa e del ruolo che l’Oman e l’Italia possono svolgere» tra l’altro per favorire la pace «in Siria e a Gaza». Stessi discorsi nelle tappe in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti. L’Italia, se vuole essere una nazione credibile sul piano economico, e con la quale dunque fare business, deve dimostrare di avere un alto profilo politico riconosciuto. Non più paese “minore” e quasi sotto tutela americana – a distanza di ventitré anni dalla caduta del Muro! – ma attore forte e autonomo, nazione-cerniera tra due sponde del Mediterraneo, come si addice alla sua posizione geografica e alla sua storia. Monti è apparso consapevole, fin dall’inizio del suo mandato, dello stretto nesso che deve esserci tra capacità di fare politica sul piano internazionale, crescita dello status dell’Italia e della sua credibilità, e possibilità di uscire dalla crisi economica, restando nel club delle potenze mondiali.
Questo linkage si è rivelato in tutta la sua evidenza nel modo nel quale il presidente del consiglio si è mosso e si muove sia nel perimetro europeo sia nei confronti degli Stati Uniti. Ora in Medio Oriente. In questo, è sostenuto con vigore da Giorgio Napolitano, anch’egli conscio, non da adesso, dell’importanza di una “nostra” politica estera, non più dettata da arcaiche e ormai controproducenti consuetudini e obbedienze.
In questo quadro va visto il sì italiano all’innalzamento dello status della Palestina all’Onu. Va visto come innanzitutto una prova di forte soggettività italiana, che in molti non si aspettavano. In passato si sono mitizzate le posizioni mediterranee dei Moro, degli Andreotti e dei Craxi, ma nessuno prima di questo governo aveva “osato” tanto, smarcandosi apertamente da Washington e da Tel Aviv. E questo non è avvenuto in ossequio a una scelta “filoaraba”, come sarebbe apparso evidente in passato, ma in virtù di una capacità nuova di usare pienamente la propria forza politica e diplomatica su tutti i fronti, sapendo anche dire no a richieste irricevibili di amici e alleati storici.
In questa dinamica e nell’esaltazione della funzione di grande paese mediterraneo, contano molto, nel governo e nel rapporto con Monti, il peso e il ruolo di Andrea Riccardi, ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione. Il fondatore di Sant’Egidio è un fautore non solo del dialogo interreligioso (lunedì scorso ha incontrato al Cairo Ahmad al Tayyeb, grande imam di al Azhar, un po’ il “papa” dei sunniti) ma anche dell’intensificazione delle relazioni nel Mediterraneo, nello sforzo costante di far incontrare e mettere in rapporto anche paesi in ostilità.
Se Giulio Terzi di Sant’Agata svolge da tecnico il suo ruolo di ministro degli Esteri, e in questa veste è sempre presente al fianco di Monti, Andrea Riccardi è un personaggio che sa muoversi con agilità politica e diplomatica, e lo fa da anni, nel mondo e, soprattutto, in ambienti complicati come quello mediorientale. Inoltre, ha ottimi rapporti con il Vaticano, che – nel caso del riconoscimento della Palestina, in particolare, ma non solo – ha molto apprezzato la posizione italiana. Negli snodi cruciali è il “politico” Riccardi che Monti ascolta, non il “tecnico” Terzi (contrario al sì alla Palestina).
La “scoperta” di un’autonomia forte italiana nell’arena internazionale sta dunque diventando un tratto distintivo di questo governo. L’importante è che anche il grosso del mondo politico realizzi questa acquisizione, lasciando finalmente cadere riflessi condizionati di schieramento subalterno a tutti i costi dietro qualcuno o qualche idea di stereotipata di mondo. E così l’ambiente diplomatico. Terzi, già ambasciatore a Washington e a Tel Aviv, rischia di rappresentare una Farnesina con lo sguardo rivolto al passato.
Articolo uscito su Europa il 1 dicembre 2012