Pochi sanno che la Lega, fondata venticinque anni fa da Umberto Bossi, è il più antico partito d’Italia. Ed è uno dei dati che maggiormente sorprendono i giornalisti stranieri che cercano di capire la politica italiana da Paesi abituati all’alternarsi di partiti fondati subito dopo o molto prima della seconda guerra mondiale. In effetti, il primato del movimento padano è dovuto in gran parte proprio agli scandali che travolsero vent’anni fa i partiti della prima repubblica e che oggi, per una sorta di nemesi, rischiano di far sparire la Lega che su quella crisi costruì le sue fortune.
La sensazione è che per i partiti politici l’abuso di denaro pubblico abbia assunto la dimensione della inevitabilità e che un qualsiasi finanziamento pagato con le tasse degli italiani sia – proprio come ai tempi del referendum del 1994 – improponibile. Tuttavia, il paradosso è che proporre di azzerare i finanziamenti equivale a buttare il bambino con l’acqua sporca. Ciò che invece è indispensabile è una riforma radicale dell’intero sistema che va dalla definizione di cosa è un partito nel nostro ordinamento giuridico fino alla disciplina dei rimborsi: riforma i cui tempi non possono essere quelli del decreto legge del governo.
In effetti il finanziamento pubblico – fu la Germania il primo paese europeo a introdurlo nel 1959 per i partiti e la Svezia nel 1965 per i gruppi parlamentari – esiste in tutti e venti e sette i paesi dell’Unione. Tra le grandi democrazie fa eccezione gli Stati Uniti dove le critiche sugli effetti di un sistema totalmente legato ai finanziamenti privati sono condivise persino dall’uomo che ha vinto le ultime elezioni presidenziali.
In effetti, in uno studio di qualche anno fa del Consiglio d’Europa si sottolinea l’importanza di finanziare con denari pubblici il costo della democrazia per evitare che si creino debiti di riconoscenza nei confronti di imprese e interessi forti. Del resto anche in Italia nel 1974 il finanziamento pubblico ai partiti fu proposto da uno dei politici più onesti della storia della Repubblica – l’onorevole Flaminio Piccoli – proprio come risposta al primo grande caso di corruzione quando tutti e quattro i partiti di governo furono accusati di aver ricevuto fondi da una grande azienda pubblica.
Ha, dunque, almeno in parte ragione il segretario del PD quando dice che senza finanziamento pubblico ci ritroveremmo di nuovo nelle mani di un pifferaio magico in grado di spendere miliardi. Tuttavia, se il principio è giusto, quello che Bersani dimentica è che anche il finanziamento pubblico non ha evitato negli ultimi vent’anni né l’avvento al potere dei pifferai, né l’ulteriore aggravarsi della corruzione rispetto ai livelli che produssero la liquidazione di un’intera classe politica.
Quello che è stato del tutto sbagliato è il modo in cui i partiti hanno (auto) regolato l’erogazione di denaro pubblico e ne hanno utilizzato i proventi. A partire dal titolo stesso della legge del 1999 con il quale si introducono “rimborsi” che sono nella lettera degli articoli che seguono a tutti gli effetti “finanziamenti” non sottoposti a rendicontazione: lo scopo era quello di aggirare la volontà espressa dagli elettori senza accettare, invece, un dibattito costruttivo, autocritico sui problemi di una democrazia che è da rifondare.
Una revisione del sistema complessivo avrebbe, in realtà, lo stesso rango – in termini di complessità e interesse per beni comuni – della legge elettorale e cinque, a mio avviso, ne dovrebbero essere le priorità. Bisognerà, innanzitutto, rivedere ed estendere il tetto ai limiti di spesa per le campagne elettorali saltato per aria con le disposizioni che consentono ad un candidato di moltiplicare tale soglia per il numero di circoscrizioni nelle quali si candida. La strada più efficace per disciplinare gli effetti perversi di dover trovare il modo per finanziare le campagne elettorali rimane, infatti, quella di limitarne il massimo costo possibile. Come fanno in maniera molto chiara da comprendere e far rispettare in Inghilterra.
Occorrerà, poi, limitare (in Francia sono vietate) le donazioni al di sopra di un certo tetto ed incoraggiare – attraverso forti deduzioni fiscali – i contributi al di sotto di quella soglia per far tornare i partiti ad essere movimenti di massa. In terzo luogo, bisognerà, poi, avere il coraggio di legare il costo della politica alle prestazioni e al gradimento che essa complessivamente riscuote tra i cittadini. La crescita dell’astensione, ad esempio, non deve più essere solo un argomento per finte “prese di coscienza” nei salotti televisivi, ma avere conseguenze sul piano economico in maniera da sollecitare decisioni concrete.
La più recente delle diciotto proposte di legge sulla riforma del sistema dei partiti, presentata dall’Onorevole Gozi e costruita attraverso una consultazione sulla rete, prevede che l’ammontare complessivo dei rimborsi elettorali venga ridotto quanto più aumenta il numero di cittadini che decide di non votare. Il presupposto per rendere praticabili queste proposte è, però, la piena realizzazione della trasparenza nei bilanci dei partiti, la certificazione della democraticità delle regole che ne disciplinano la vita all’interno, l’introduzione di sanzioni chiare e il riconoscimento giuridico che, da tempo, dovrebbe essere stato presupposto di un qualsiasi trasferimento di risorse dei contribuenti italiani.
Infine, una riflessione andrà aperta su come facilitare e regolare l’evoluzione della democrazia – anche aldilà del momento delle elezioni – che consegue alle modalità di partecipazione nuove rese possibili dalle tecnologie e che i costituenti dell’articolo quarantanove sembrano aver profeticamente previsto.
I partiti politici, messi in panchina dal governo tecnico, hanno in questi mesi la possibilità di affrontare queste questioni con visione, pragmatismo e senza scorciatoie. L’alternativa è che tra venticinque anni molto probabilmente ancora una volta avrà venticinque anni il più antico partito politico d’Italia.
Francesco Grillo è direttore del think tank Vision and Values. Quest’articolo è stato pubblicato su Il Mattino il 7 maggio 2012