Nei quarantacinque anni – e passa – della Prima repubblica, il Pci non ebbe mai la ventura di partecipare al governo; ma ciò non creò, né nella dirigenza né nel popolo comunista, alcun tipo di problema.
Nei vent’anni della Seconda repubblica, gli eredi del Pci hanno partecipato al governo per circa sette anni; ma ne hanno assunto la guida per meno di due. E ciò è bastato ad alimentare all’interno del Pd, una serie di crisi propriamente esistenziali. Causa e, nel contempo, possibile soluzione di tali crisi, i “papi esterni”. Simboleggiati, in primo luogo e per lungo tempo da Prodi; e, successivamente, da Napolitano e da Monti, dall’Europa e da Renzi.
Che cos’è un papa esterno? È una sorta di tutore; garante verso l’esterno della rispondenza del suo pupillo ai requisiti richiesti; e, al tempo stesso, sprone, nei confronti del medesimo, per il raggiungimento di tali requisiti. Un rapporto oggettivamente profittevole ad ambedue ma anche fonte di equivoci e di frustrazioni. A rappresentarne concretamente la natura, l’“endorsement”dato da D’Alema a Prodi nel 1995: “Lei è una persona seria e noi poniamo la nostra forza al suo servizio”.
E qui tutto si gioca sul peso relativo dei due sostantivi. Se a prevalere è “forza”, siamo nella Prima repubblica e Prodi è un “indipendente di sinistra”; quello che pone le sue competenze al servizio di una forza politica in sé autosufficiente. Se è “serietà”, siamo nella Seconda e Prodi è, appunto, un papa esterno; quello che conferisce, con la sua presenza una legittimazione decisiva a una forza in sé non autosufficiente rispetto agli obbiettivi che si propone.
Ma stiamo anticipando i tempi. Perché dobbiamo capire insieme, per prima cosa, perché l’esclusione dal governo non abbia creato particolari traumi nel Pci della Prima repubblica; mentre l’accesso parziale e condizionato al medesimo abbia determinato, e determini tuttora, vere e proprie crisi esistenziali nel Pds/Ds/Pd della Seconda.
L’ipotesi di lavoro che suggeriamo si gioca tutta sul tema dell’identità; requisito fondamentale di cui il Pci “d’antan”disponeva; mentre è ancora materia del contendere nel Pd di oggi. Allora erano a disposizione due grandi atout. Un retroterra culturale, in cui l’adesione all’Urss e alla prospettiva della rivoluzione mondiale era una sorta di riassicurazione ideologica a copertura del tatticismo più spregiudicato e di un gradualismo praticato senza bisogno di dichiararsi. Allora, il famoso “fattore k” escludeva sì i comunisti da responsabilità di governo ma non dall’esercizio più ampio possibile del potere.
Con la caduta del muro di Berlino, comincia però a cambiare tutto. Da una parte, il governo, che dico la guida del paese, diventa un oggetto contendibile. Dall’altra i postcomunisti giungono all’appuntamento decisivo senza una precisa identità e, anche per questo senza forze sufficienti. Di qui il grande trauma del 1994; con l’entrata in campo di Berlusconi e la conseguente sconfitta di Occhetto e del suo schema neofrontista.
Ed è allora a partire da questo primo grande trauma che si intrecciano interrogativi identitari e consulenti (papi esterni) percepiti (o, più esattamente, auto investitisi) come solutori dei medesimi.
La forza (quella ereditata dal vecchio Pci) c’è. Ma non è sufficiente; per vincere; e, in ogni caso, per gestire il successo. Ma perché?
E qui si susseguono e, ancora, si intrecciano due possibili risposte. A partire da due diagnosi che però hanno un punto fondamentale in comune; nel senso di individuare la debolezza del progetto nel quadro della Seconda repubblica nella incapacità di fare i conti con il retaggio della prima.
In chiaro ciò che renderebbe poco credibile il centrosinistra e, in particolare, il costituendo partito democratico consisterebbe nel ritardo di uno dei contraenti, il Pds già Pci nel misurarsi criticamente con la propria tradizione.
Secondo D’Alema il difetto sarebbe nella cultura politica: troppo aperta a derive radicali e/o estremiste. In questo senso il suo percorso politico nella seconda metà degli anni Novanta, prima e dopo la procurata caduta del governo Prodi, è di una chiarezza estrema. Si dà il benservito al papa esterno perché non se ne ha bisogno. Perché il Pds è in grado di risolvere da solo le sue ambiguità politiche. E queste ambiguità si risolvono prendendo di petto tutte le posizioni radicali. Così, ci si contrappone al giustizialismo antiberlusconiano, proponendo al Cavaliere, con la Bicamerale un grande patto sulle istituzioni e sulla giustizia; così ancora, si contrasta l’estremismo sindacale aprendo alla grande industria, con la flessibilità e le privatizzazioni affidate ai “capitani coraggiosi”; così, infine, ci si misura con il pacifismo a senso unico in nome di un interventismo democratico, tale da associare la nuova sinistra continentale e i democratici americani.
Il tutto si risolverà, però, in un completo fallimento; dovuto essenzialmente alla totale inaffidabilità dei partner prescelti (a partire da Berlusconi). Di questo fallimento si discuterà, peraltro, assai poco. Prendiamone atto; salvo ad aggiungere, per quanto ci concerne in questa sede, che le conseguenze di questo fallimento saranno due: la prima, la definitiva trasformazione di D’Alema in “uomo nero”; la seconda, e più importante, l’orientamento del dibattito sull’identità in una direzione che con la politica aveva un rapporto molto mediato.
E infatti la partita che si riapre, dopo la parentesi dell’Ulivo e della sinistra plurale e di cui sono protagonisti Bersani e Renzi, si colloca in un orizzonte diverso da quello del passato. Stiamo parlando, questa volta, non della strategia del partito ma della sua stessa natura. Strutture, immaginario collettivo, tradizioni, riferimenti esterni rapporto tra la collettività e le persone chiamate a rappresentarla: tutto è rimesso in discussione. E uno dei contendenti, appunto Renzi, appare, ripetiamo appare, nel bene ma anche e soprattutto nel male, come la quintessenza del papa esterno. Un signore che viene da un’altra cultura politica (mentre il suo precursore, Veltroni, era comunque “uno dei nostri”). Un signore che, per ritornare alla formula di D’Alema, chiede al Pd di porre la propria forza a servizio della sua serietà; intendendo per tale quel “carisma personale aggiuntivo” necessario per vincere il confronto bipolare.
In questo caso, la richiesta è, però, assai più esplicita e invasiva. Prodi proponeva il passaggio all’Ulivo, ma con discrezione e usando tutta la (molta) vaselina a sua disposizione. Renzi chiede esplicitamente agli ex comunisti di rinunciare a tutti i loro parametri esistenziali ma senza offrire nulla in cambio se non la fiducia nella sua persona. E soprattutto senza chiarire in alcun modo la sua proposta economico sociale. Anche per questo la sua proposta, rifiutata l’anno scorso, è, ancor oggi, in una specie di terra di nessuno.
Rimane, però, una proposta senza alternative convincenti. Perché chi rivendica la tradizione comunista, nella sue versione emiliana pratica, per altro verso, un minimalismo autodistruttivo. Dando l’impressione, più che fondata, di contrastare un papa esterno, in nome della sacralità del passato (“dare un senso alla nostra storia”) ma di essere nel contempo, totalmente subalterno ad altri papi esterni (Napolitano, i mercati, l’Europa, Monti); così da sacrificare a questi gli interessi politici fondamentali di un partito che aveva avuto per mandato di difendere.
E allora tutte le frustrazioni di questi ultimi vent’anni andrebbero ricondotte alle loro ragioni reali. È vero. Il partito ha bisogno di un papa esterno. E Renzi è l’unico disponibile in circolazione. Però questo bisogno non nasce dal passato. Ma dal presente. E cioè dalla totale incapacità di rappresentare un’alternativa al berlusconismo sul terreno economico-sociale; progetto europeo compreso.
È lecito attendersi, con l’ottimismo della volontà che il prossimo congresso del Pd sappia capire e trasmettere questo messaggio. Con o senza papi esterni.