Ha 73 anni e da più di mezzo secolo attraversa la storia d’Italia da anomalo protagonista: è nato esattamente nel centro dell’Italia, a Gubbio, ma per formarsi è sceso giovanissimo nel Meridione, a Partinico, perché era lì che Danilo Dolci all’epoca sperimentava tecniche di resistenza gandhiane, come gli «scioperi al contrario»; è maestro elementare, ma la pedagogia l’ha scovata anche fuori dalle classi e, critico di teatro e di cinema, ha fondato o co-fondato una sequela di riviste, da «Quaderni piacentini» a «Ombre rosse», dalla «Terra vista dalla luna» a «Linea d’ombra» allo «Straniero » (ultima impresa, le «Edizioni dell’Asino », nate per provvedere, per esempio, le nuove generazioni di un testo come I libri da leggere a vent’anni. Una bibliografia selettiva, a opera di due ventenni, Giulio Vannucci e Nicola Villa). Da quale personalissimo punto di vista Goffredo Fofi giudica l’Italia attuale? E cosa ne pensa? «Reset» glielo ha chiesto. Ecco la sua risposta|.
Avendo lavorato come maestro elementare con i bambini di Palermo e di Napoli, ed essendo profondamente segnato da questa esperienza, ritengo che oggi nella nostra società bisogna puntare soprattutto su una funzione di tipo educativo. Mi riconosco, poi, nella definizione di sé che dava Ignazio Silone: «un cristiano senza chiesa e un socialista senza partito». Anch’io mi considero cristiano ma non cattolico, sul piano religioso le sole simpatie che abbia mai avute sono state per i quaccheri, il gruppo religioso più laico tra quelli che hanno fatto la storia del cristianesimo. Per i quaccheri all’interno di ciascuno di noi esiste una piccola luce, una scintilla riconducibile al cosmo.
Questa scintilla è ciò che tiene uniti tutti gli esseri umani e per questo, dicono i quaccheri, dobbiamo alimentarla e potenziarla. Non molto diverso è il celebre discorso di Italo Calvino: lui affermava la necessità di conoscere nell’inferno quello che inferno non è e cercare di proteggerlo, assisterlo, comprenderlo a fondo, farlo crescere. L’essere socialista è poi, per me, qualcosa che ha radici profonde. Mio padre stesso lo era, anche se era analfabeta. Sono cresciuto in un ambiente dove era notevole il peso di certi discorsi sulla solidarietà di classe, rivolti a contadini e artigiani, più che agli operai delle fabbriche. Ritengo che i giornalisti siano tra i principali responsabili della nostra attuale deriva. È una categoria che smobilita e corrompe il paese, anche più di quanto non facciano certi politici che, benché socialisti o comunisti, ubbidiscono a scelte di corporazione. I giornalisti stessi sono una casta, ancora più terribile di quella politica. È una casta dove quelli che contano davvero sono al massimo una cinquantina. Una corporazione, poi, con delle forme di difesa che i politici non hanno: passano da un giornale di destra a uno di sinistra con più fluidità di quanto non facciano i politici e senza dover essere costretti a renderne conto a qualcuno. Se l’Italia è giunta a un punto simile la colpa maggiore non è della destra, composta da mascalzoni e cinici che continuano a essere fascisti e a fare il loro lavoro di sempre perché sanno ciò che vogliono. La colpa è della sinistra e della progressiva distruzione del Pci. Gli anni Settanta e Ottanta, sono stati quelli in cui molti dirigenti del Pci si istruivano e si formavano sulle pagine di «Repubblica» e detestavano Enrico Berlinguer. I suoi due famosi discorsi sull’austerità, nel partito non sono mai passati. Il trentennio Craxi-Berlusconi sia stato un trentennio fascista. Più lungo del ventennio e senza resa dei conti finale. Berlusconi è, di Craxi, il legittimo e diretto figlio.
I nostri eretici
Dopo il 1980 è cominciata un’altra epoca storica, l’epoca del postmoderno. In cui, tra l’altro, finisce malamente l’idea che si possa cambiare il mondo. Sono nato a Gubbio nel 1937, in una società di contadini, artigiani, proprietari terrieri ed ecclesiastici, una società dunque quasi medievale. Ho vissuto il miracolo economico, che rappresentò l’ingresso nel moderno. E ora posso dire di aver visto, e di stare vivendo, la post modernità. Pirandello manifestava lo sbalordimento di chi era passato dalla carrozza all’aeroplano. Noi stiamo vivendo la terza fase: quella della Rete. È proprio negli anni Ottanta che sono finiti quei movimenti che avevano creduto fino ad allora di poter cambiare il mondo. La ricchezza – l’elogio della lentezza, come si diceva in quegli anni – rappresentava il riposo meritato di una generazione dopo le fatiche del decennio precedente. Era una generazione che dopo il Sessantanove, il momento più alto per le conquiste operaie, viveva la sua perdita di peso. Un movimento estremamente fragile, tagliato via rapidamente e con la complicità di molti di noi. Negli anni Ottanta era comprensibile l’abbandono delle tensioni dell’epoca appena chiusa, l’epoca degli scontri, dei morti e degli attentati quotidiani. Però proprio in quegli anni era già cominciato il fenomeno Craxi, ovvero, spariti i Togliatti e i De Gasperi, il postcomunismo. Guardando a ciò che accade oggi, credo che si debba essere pessimisti, dei pessimisti attivi, meglio ancora nichilisti attivi. Siamo giunti a una nuova barbarie e non c’è modo di evitarla o resisterle: la barbarie stavolta sarà globale e neppure gli svizzeri potranno salvarsi. Sul piano della politica italiana, nel nostro paese sono presenti tre correnti: una destra estrema, rappresentata da Umberto Bossi, Silvio Berlusconi e i fascisti, una destra tradizionalmente fascista, che è quella di Antonio Di Pietro, e ciò che resta di Rifondazione,modello fascista e non, come si vorrebbe, democratico e comunista, e un centro-sinistra che in realtà è un centro-destra. Figure come Roberto Saviano o Nichi Vendola dovrebbero stare attentissime a non farsi inghiottire e devitalizzare. Quando Vendola, l’unico piccolo Obama italiano, lascerà la Puglia per misurarsi sul piano nazionale cercando qualcuno con cui formare un gruppo o un partito, si ritroverà con i rifondaroli e i verdi, falliti e complici del fallimento della sinistra nei vent’anni precedenti. In questi anni si è registrata poi la crescita del narcisismo, il desiderio di un rifugio, comprensibile, per quanto criticabile. Siamo tutti individui offesi che non riescono a realizzare le proprie potenzialità e che trovano invece rifugio nel consumo, nella new age, nell’arte. Perché si diventa scrittori oggi? Perché si è delusi, si vuole poter contare, si vogliono riconoscimenti, pubblicità. Siamo tutti frustrati, fragili e deboli. Perché non contano le cose che si vogliono dire, ma conta esserci. Esserci è un ricatto feroce che riguarda tutti e fa parte del meccanismo del mercato, della vendita, del prezzo dato a ogni cosa.
Esercitare un pessimismo attivo, invece, significa sottoporre a critica la cultura, la politica, l’idea stessa di democrazia se essa si esprime come potere di una maggioranza manipolata. Noi veniamo da un trentennio di conformismo culturale. Abbiamo perso alcune delle menti più brillanti, Carlo Levi, Pasolini, Calvino,Morante, Silone, Ortese, Bilenchi, punti di riferimento per la società dei loro anni, e che hanno lasciato il campo a una generazione che, sul piano del peso civile, non li ha sostituiti. Abbiamo perso gli eretici. Il problema adesso è come sopperire a questo vuoto. Politici e giornalisti dell’Italia non sanno nulla. I nuovi scrittori, sì, uno dei pochi vanti della nostra narrativa è il ritorno alla realtà. La confusione mentale è generata dalla smobilitazione culturale: una delle difficoltà, per le generazioni del futuro, sarà collegare tra loro le lotte e i contrasti che si verificano oggi, vista l’assenza dei partiti dal tessuto sociale italiano. Anche i giornalisti contribuiscono: scrivono tonnellate di inchieste inutili, denunciano l’ovvio e non vanno mai a scavare. Occorre un Roberto Saviano che dica che la mafia sono le banche e che, per questo, Parma è una delle città più mafiose d’Italia. Prima delle sue parole i giornali locali non avevano detto nulla.O quasi.
Il Sessantotto leninista e quello cattolico
La mia tesi è che il Sessantotto si sia sfasciato rapidamente perché al suo interno ha preso il potere l’ala leninista, i fratelli maggiori dei giovani studenti che avevano dato inizio al movimento. Finito il movimento sono nati i gruppi, una vera iattura. E l’unico Sessantotto che ha resistito è stato quello dei cattolici. Negli anni Ottanta è questo che ha prodotto un’ondata di volontariato, terzo settore, associazionismo, ciò in cui oggi possiamo sperare. La distinzione che oggi si fa tra «cattolico» e «non cattolico », per esempio, allora non aveva alcuna importanza perché ci si ritrovava ad agire in un terreno comune: anziani, bambini, Aids, immigrati. Ora, non c’erano molti preti bravi in Italia. E quelli che lo erano vennero fatti fuori dalla sinistra: Veltroni, D’Alema, li hanno cooptati come clienti, corrotti oppure ricattati. Se la politica ha ucciso la società civile e la sua vitalità, il giornalismo ha ucciso l’opinione pubblica. L’ha fatto sostituendosi a essa. E sebbene questo sia il caso d’imputazione più grave per il nostro giornalismo, in Italia non se ne discute. E la sinistra non ne parla. Siamo un popolo di castrati, anestetizzati e corrotti, difficili da risvegliare. Per questo bisognerebbe accettare per un certo periodo di difendere i conflitti. Quella di Saviano che condanna gli scontri di Roma è ipocrisia pseudo democratica. Dunque, sfiducia nella politica, nel giornalismo, nell’Italia. Che fare allora? Non rimane che impegnarsi in quei lavori di cui parlava Calvino quando diceva che bisogna conoscere meglio quell’inferno che inferno non è: esistono ancora pulpiti puliti da cui parlare. Siamo tutti profondamente corrotti da questi trent’anni di pace sociale e di assenza di conflitto, ma è necessario ricominciare a ragionare e ancor di più ricominciare a fare politica seriamente; e ciò non significa andare in parlamento, ma fare lavoro di quartiere, difendere chi ne ha bisogno.
Io simpatizzo per gli studenti, ma simpatizzo di più per quella classe vituperata e massacrata, con il concorso della sinistra, che è la classe operaia.
Secondo «Diario operaio», libro di Rinaldo Gianola, sono 7 milioni questi lavoratori che producono e non smerciano denaro da banca a banca né ottengono il loro denaro con il crimine. Sono loro che producono qualcosa da esportare all’estero e furono sempre loro che consentirono all’Italia il boom economico. Per ripartire è necessario qualcosa che ci aiuti a capire, sul piano culturale ma anche su quello antropologico, cosa siamo e cosa siamo diventati. La vera tragedia è che questi trent’anni ci hanno lasciato nudi. E la sinistra non c’è più. Ai grandi intellettuali italiani spetterebbe il compito di studiare anziché ricercare la foto in copertina e il posto in prima pagina. Molti anni fa, quando a Radio Popolare la maggior parte erano iper marxisti e iper bolscevichi, costretto a definirmi, dissi che ero anarco-socialdemocratico. Una battuta. Ma in effetti è così: significa che bisogna anche saper andare a dei compromessi, ad esempio votare per il meno peggio in politica perché alle volte, se è necessario costruire un fronte comune contro un nemico disastroso, ci si alleerà con chi prima non si era neppure immaginato.
Divertimento e nuovi maestri
Io ritengo che le arti, come le società, cambino. Alcune di queste arti hanno retto bene al cambiamento, altre invece si sono sfasciate. Il teatro, ad esempio, già un solido punto di resistenza, si è trasformato in una parodia della televisione. Il resto è semplice divertimento, oggetto di consumo. Una volta la cultura di massa rubava idee e modi alla cultura popolare. Adesso ci sono prodotti di cultura di massa studiati a tavolino da pubblicitari e multinazionali secondo logiche di mercato. In questo modo il pubblico diventa lo schiavo che deve consumare e basta. Non c’è differenza tra Mazzantini, Boldi e De Sica ma neanche tra Virzì e Boldi: il loro cinema è solo fiction. Contemporaneamente però, nel cinema italiano, stanno anche nascendo giovani maestri, grandi registi come Pietro Marcello, o Giovanni Piperno, che cercano altre strade per esprimersi.
La Chiesa e il diavolo
Come diceva don Tonino Bello, oggi l’importante non è confortare gli afflitti ma affliggere i confortati: gli italiani dovrebbero essere scossi e risvegliati per mostrare loro ciò che sono veramente. Al contrario i film ci dipingono in situazioni simpatiche, generose, belle, lontane dalla realtà. Nel nostro paese non ci sono adulti: i veri bamboccioni siamo noi. Perciò ho molta attenzione per questa generazione cresciuta in questo trentennio fascista. Quelli che ne escono meglio, credo, sono i giovani che vanno in piazza: entrano in scena nel momento storico in cui il meccanismo del trentennio si è inceppato. Diceva un vecchio proverbio: quando ricomincia la fame si ricomincia anche a ragionare. Però devono essere i giovani ad agire. Nella rivista che adesso dirigo, «Gli Asini», sono i giovanissimi a sviluppare le idee e le linee editoriali, io offro solo un aiuto tecnico.
Bisogna ripartire da zero. E il problema è la mancanza di soggetti validi, che bisogna reinventare. Bisognerebbe fare attenzione alle minoranze che si muovono all’interno del mondo cattolico; i compromessi con la Chiesa sono oggi obbligati e doverosi, nonostante le guerre su aborto, pillola, eutanasia. Perché credo che la Chiesa sia l’unico baluardo possibile. Alla Chiesa e alla sinistra dovremmo chiedere il perché siamo diventati ciò che siamo, un popolo di analfabeti. Dobbiamo studiare. E dobbiamo fare. Dobbiamo discutere delle riforme, e se lo Stato è sordo, facciamolo senza di esso, com’era quando lo Stato non aveva invaso ogni angolo. Dobbiamo riflettere sulla scomparsa deimiti di un tempo. E sui nuovi miti, consumo e ricchezza. Berlusconi non è comico, come dice Moretti. È il diavolo, in termini classici e medievali. È Ubu Re.
Noi siamo peggio degli altri. Turchi ed egiziani hanno meno colpe, perché sono più poveri. Noi da 65 anni non abbiamo guerre. Ma siamo i più fragili, i più rammolliti. Il nostro presente è nelle mani di chi coi giornali ci disalfabetizza, ci tiene all’oscuro di tutto quello che succede nel mondo. Tolleriamo Putin e Berlusconi, Berlusconi e Gheddafi. Tutte cose, d’altronde, non inedite e già accadute anche prima di Craxi. Quello a cui siamo chiamati tutti noi oggi è una capacità di responsabilizzazione, di cui ci hanno spossessato e che dobbiamo recuperare. Siamo il paese più provinciale d’Europa. Se le grandi organizzazioni non funzionano è necessario ripartire da noi, bisogna creare movimenti, federazioni di movimenti, bisogna agire. La storia ha fatto un salto: siamo nel postmoderno e la storia precedente non esiste più, è da questo trentennio che dobbiamo ripartire per costruire qualcosa di nuovo.
(A cura di Maria Serena Palieri)