“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E se fosse Grillo l’(inconsapevole) Principe di Salina che riporterà l’Italia alla Prima Repubblica? Sembra incredibile che dal massimo della (presunta) innovazione si possa arrivare al massimo della restaurazione, ma gli indizi non mancano e, se il no dovesse prevalere al referendum, si tratta di uno scenario possibile.
Un esito che potrebbe sembrare paradossale rispetto alla clamorosa affermazione alle legislative di tre anni fa (che fecero emergere per la prima volta una tendenza tripartita nel paese, con i penta stellati al 28%), come pure all’ultima tornata amministrativa, quando il movimento di Grillo è risultato vincitore non solo a Roma, ma anche a Torino e in numerosi altri centri. Vittorie che devono molto al sistema elettorale maggioritario e a doppio turno in vigore per le comunali, che ha permesso ai candidati grillini di recuperare al secondo turno larga parte dell’elettorato rimasto sul mercato (soprattutto quello di centro-destra), rimontando così anche posizioni di svantaggio al primo turno, come nel capo-luogo piemontese.
Forti di questo successo, a giugno i cinque stelle sembravano avere ormai superato le difficoltà iniziali ed essere pronti per una prova di governo, che paradossalmente avrebbe potuto essere favorita dalla riforma costituzionale e elettorale promossa da Renzi, in quanto si tratta dell’unico sistema che gli consentirebbe di andare al governo da soli.
Per tale motivo, all’interno di una parte del PD, nei centristi, ma anche in Forza Italia, è ripartito il pressing per una revisione dell’Italicum in senso più proporzionale e meno maggioritario. In particolare, si invita a superare il doppio turno (che rappresenta la vera cifra innovativa della legge elettorale), perché altrimenti – come sostenuto anche dall’ex Presidente Napolitano – si rischierebbe di premiare “eccessivamente” una forza minoritaria nel paese.
In questo quadro, il ritorno celebrato a Palermo di Grillo (e del figlio di Casaleggio) alla guida del movimento, sembra aver espresso una direttrice diversa all’esperimento/esperienza politica dei cinque stelle, una direttrice a cui non sembra estraneo un obiettivo – non dichiarato – di opposizione perenne, più che un’autentica ambizione di governo.
Ne è specchio la mozione con cui a settembre il movimento si è dichiarato a favore di un modello sostanzialmente proporzionale (il “Demoratellum”). È ben vero che Grillo e i suoi non hanno cavalcato più di tanto l’argomento e in proposito hanno già effettuato diverse giravolte (a fine giugno De Maio aveva chiuso le porte ad ipotesi di modifica perché la legge elettorale “non è una priorità”). Ma, aldilà degli annunci e dei contro-annunci ufficiali, anche al movimento cinque stelle potrebbe non dispiacere un esito proporzionale dell’eventuale revisione dell’Italicum (esito su cui inciderà non solo il risultato del referendum costituzionale ma anche la sentenza della Corte Costituzionale).
Questo perché le difficoltà emerse dal confronto con la prova amministrativa nelle città (Roma in primis), e le contraddizioni che sono emerse negli ultimi due anni all’interno del movimento/partito, potrebbero spingere Grillo verso una più comoda strategia di opposizione e “non” Governo. Una strategia che si si potrebbe spiegare in base alle caratteristiche intrinseche del movimento, funzionali alla sua espansione elettorale ma controproducenti rispetto alle concrete esperienze di governo.
A partire dall’exploit delle politiche 2013 Grillo e Casaleggio sono infatti riusciti, attraverso una centralizzatissima navigazione a vista a proporre sul mercato elettorale un “estremismo di centro” (che potremmo anche chiamare “non centro”, ispirandoci al gusto grillino per i neologismi), che risulta al momento abbastanza vincente, almeno finché il movimento riesce a proporre dei candidati palatabili per l’elettorato, senza risultare (ancora) logorato dalla propria prova sul terreno.
In altri termini, Grillo – che è tutt’altro che un semplice “comico” ma si è dimostrato un politico di prim’ordine, come prima Berlusconi e poi Renzi – potrebbe riuscire dove hanno fallito tantissimi nostalgici della DC, che dopo le elezioni del 1994 hanno costantemente cercato di ricreare un’area di centro maggioritaria. Grillo insomma, meglio dei tardi democristiani Cossiga e Casini, ma anche dell’esperimento tecnocratico-moderato di Monti. Per questi ultimi, tuttavia, il posizionamento al centro rispondeva ad una vocazione politica, in quanto luogo della moderazione e posizione strategica per la costruzione di alleanze di Governo, di cui il neo centro sarebbe una componente obbligata.
L’originalità del brand elettorale di Grillo sta invece in una sua decisa collocazione in un “centro di fatto”. Nella retorica grillina, l’M5S infatti si caratterizza innanzitutto per una propria profonda alterità rispetto a sinistra e destra. È un “non centro”, insomma, come risultante di una differenza quasi antropologica dagli altri partiti, una differenza costantemente e ostinatamente ribadita dai militanti e inverata da una serie precisa di scelte. Anzitutto il rifiuto a priori di qualsiasi alleanza con le altre forze politiche, non solo prima ma anche dopo le elezioni, come dimostra il disperato tentativo di sottrarsi alla proposta di confronto avviata a inizio legislatura da Bersani, in modo da vedere poi inverata, con il Governo Letta (che del fallimento del tentativo bersaniano è figlio diretto), la propria tesi della sostanziale omogeneità tra sinistra e destra (vedete: hanno addirittura fatto un governo insieme!).
Un approccio che comporta, per corollario, il rifiuto di convergenze anche su singoli punti tematici, a meno che si tratti di proposte di iniziativa dei cinque stelle stessi (nel qual caso si potrà argomentare che sono gli altri che hanno accettato le loro proposte, che altro non sarebbero che “proposte dei cittadini”, praticamente un’espressione della volontà generale di rousseauiana memoria).
Tale rifiuto di possibili convergenze (insomma di qualsiasi seria dialettica politica e parlamentare) è apparso in modo palese ad esempio in occasione della discussione sulle unioni civili. Su questo tema, il gruppo parlamentare penta stellato (che le prime analisi descrivevano come tendenzialmente vicino per “cultura” politica a temi “di sinistra”) aveva manifestato inizialmente una certa simpatia, ma ha dovuto fare marcia indietro dopo un secco input di Grillo (e Casaleggio), che, stesa una patina formale di consultazione via blog con i cittadini, le hanno imposte – non senza imbarazzo – ai (propri) parlamentari delegati.
I temi su cui batte la propaganda grillina sono poi di fatto trasversali, a partire dall’opposizione all’Euro (senza disamina alcuna di quanto ci costerebbe il percorso di uscita, ma che corrisponde ad un malumore oggettivamente diffuso verso la moneta unica e l’austerity). Ma anche l’opposizione frontale contro una classe dirigente ritenuta corrotta per intero, a cui contrapporre i cittadini e i cinque stelle che di questi sarebbero “megafono”). Un fenomeno diffuso in tutta Europa ma qui ancora più acuto.
Non condivido la tesi che per i cinque stelle conti più la “procedura” (l’“uno vale uno”, come nuovo paradigma del fare politica attraverso un’espansione delle possibilità di democrazia diretta per i cittadini consentite dalla rete del programma politico) rispetto al programma politico. Il blog di grillo prima e il sistema Rousseau poi (gestito dalla Casaleggio Spa, società privata che custodisce tutti i dati dei 130.000 attivisti) di fatto servono semplicemente a validare i contenuti politici principali decisi in via esclusiva da Grillo & Casaleggio. Non si tratta dei teorici cinque punti su energia, ambiente etc su cui in teoria dovrebbe ispirarsi il movimento (ma che il 99% dei votanti nemmeno conosce) quanto piuttosto di un’attenta miscela di temi “di sinistra” (disoccupazione/reddito di cittadinanza, lotta ai poteri forti, anticapitalismo) e “di destra” (emigrati, sicurezza, morale, famiglia tradizionale), approccio simbolicamente personificato dal duo in vespa e cappotto Di Battista / Di Maio. Più un po’ di cospirazionismo, che in Italia non guasta mai. Insomma contenuti interclassisti e generici, opportunamente cementati dal richiamo all’”onestà”: un termine che ma non dà molte indicazioni su come si intenda in concreto governare una nazione ma che mantiene un certo appeal, da comunità dei puri. Un po’ come faceva il vecchio PCI, che attraverso la questione morale finiva per praticare un’opposizione di tipo più antropologico che politico (e paradossalmente anche l’MSI, che non mancava di sottolineare come i propri dirigenti non fossero coinvolti in malversazioni).
Con la sua regia, e al netto dei toni sulfurei e del linguaggio arrabbiato, Grillo sembra insomma pescare elettoralmente in modo ampio, come un tempo faceva la DC. Ma soprattutto con le sue scelte cerchiobottiste Grillo ha evitato quello che per lui era il rischio politico maggiore, quello dell’appiattimento su uno dei due lati dello schieramento politico. Di fatto il M5S non si può inquadrare tra i populismi di destra (Ukip, Alternativa per la Germania, Fronte Nazionale) ma neanche tra quelli di sinistra (Tsipras e Podemos) e Grillo è insomma riuscito a dare una declinazione politica del qualunquismo / populismo originale (e non violenta, questo va riconosciuto). Qualunquismo che a ben vedere rappresentano una tendenza profonda nell’elettorato italiano, sin dalle origini della prima Repubblica.
Buona parte dell’elettorato cinque stelle sembra d’altra parte fare capo all’ex ceto medio, con molti giovani e anche persone di buon livello culturale. Un ceto medio certo arrabbiato, per la decadenza economica e sociale che lo ha colpito negli ultimi anni, ma pur sempre ceto medio. A priori, non mancherebbero insomma gli ingredienti per fare dei cinque stelle un autentico “partito della nazione” (paradossalmente scippando a Renzi uno dei suoi principali obiettivi politici).
Nel suo procedere il movimento si è però confrontato ad un irrisolto (e probabilmente irrisolvibile, viste le premesse massimaliste), problema di selezione della propria classe dirigente, che non può certo scaturire per miracolo con pochi clic sul web al momento delle primarie (i mesi impiegati per comporre una giunta a Roma – ma anche a Livorno – sono lo specchio della sostanziale inadeguatezza dei militanti eletti).
Per paradosso, anche il basso livello tecnico dei propri rappresentanti può rispondere ad una funzionale logica elettorale. Come osserva Michele Serra, in una fase di critica della delega, in cui il mondo è visto come una grottesca macchinazione e vi è sfiducia generalizzata e diffidenza di fondo verso i saperi tecnici, visti anch’essi come espressione di una casta, l’abbastanza evidente inesperienza (non solo politica, ma anche professionale) di molti loro esponenti (a partire dal candidato premier Di Maio), finisce per non essere un problema, anzi. Uno vale uno (anche se io non salirei su un aereo dove in base a questa logica il pilota è stato sostituito da una persona che non ha mai guidato un aereo), basta che siano onesti…
Certo, dopo il boom delle politiche, non è stato semplice sopravvivere con un gruppo dirigente improvvisato e con vistosi limiti. Per superare tali limiti Grillo, assieme allo “Staff” (di cui non sono mai state declinate le generalità) è stato costretto a etero-dirigere con pugno di ferro parlamentari ed eletti locali. Modalità tutt’altro che democratiche, e anzi piuttosto opache e leninista, che hanno portato alla perdita di 39 tra deputati e senatori, più numerose sospensioni e espulsioni varie a livello locale. Un serrate i ranghi, seguito poi da un “passo indietro” del comico genovese, con la nomina di un “Direttorio”, che sembravano preludere a una strutturazione più tradizionale del movimento.
A fine settembre, però, con il Convegno Italia a cinque stelle, si è tornati ad un ruolo centrale del garante e della società Casaleggio, rendendo marginali gli altri dirigenti. Anche in questo caso, il ritorno a Itaca dell’elevato e la successione dinastica di Casaleggio junior non sono stati i massimi esempi di democraticità e trasparenza interna, ma hanno consentito di garantire una direzione ferma al movimento, evitandone l’implosione.
E in ogni caso va dato atto a Grillo di essere riuscito con la sua strategia a mantenere sostanzialmente inalterata la forza del marchio elettorale, che è poi quella che conta (il peso elettorale dei vari fuoriusciti/espulsi sembra quasi nullo, fatte salve alcune possibili eccezioni a livello locale; la gente vota i cinque stelle semplicemente perché si identifica con Grillo e con la sua forte protesta nei confronti dell’establishment, e l’opacità della gestione interna, non rappresenta elettoralmente un problema, come accadeva in passato per Forza Italia e altre forze a conduzione leaderistica).
Con il ritorno alle origini, alla purezza, da Palermo è tornata una postura di opposizione pura e dura, che certo può essere interpretata anche alla luce delle difficoltà riscontrate nelle prove di governo concreto. Un percorso dimostratosi non esente da difficoltà già a Parma e Livorno e negli altri piccoli comuni amministrati dal movimento, ma molto più palese e imbarazzante in un contesto oggettivamente assai difficile e complesso come quello di Roma.
Il passaggio decisivo resterà quello del referendum costituzionale. Il No alla riforma porterebbe ad una inevitabile revisione della legge elettorale. E vi sono segnali di una possibile convergenza di Forza Italia (e probabilmente di Ala e della minoranza PD) su una legge tendenzialmente proporzionale, vicina in fondo al Democratellum. Certo non è detto che Grillo riuscirà a condividere apertamente una proposta che provenga dall’uno o l’altro degli altri principali schieramenti, e anzi potrebbe riservarci l’ennesima piroetta. Ma di fatto, un approdo proporzionale potrebbe non dispiacere al leader genovese, in quanto in linea con la sua nuova strategia di “opposizione felice”, arroccata nel suo rifiuto delle intese neo nazarene che a quel punto sarebbero inevitabili.
Uno scenario che comporterebbe un de profundis per il cammino tendenziale bipolare e maggioritario verso cui si era faticosamente incamminata la seconda repubblica. Un de profundis che però conviene a molti. Conviene ad una buona parte del PD e a Forza Italia perché in quello scenario si vedrebbero “condannati” a governare in uno schema di grande coalizione. Ma conviene anche ai cinque stelle perché in quel modo verrebbe scongiurato il “complotto per farli vincere”, assicurandogli un ruolo di opposizione perenne, che non si confronta alle difficoltà del governo e così facendo si mantiene pura (e elettoralmente appetibile).
Insomma se la prima repubblica si caratterizzava per la conventio ad excludendum del PCI, la terza si potrebbe caratterizzare per la conventio ad autoexcludendum del M5S. Uno scenario paradossale, ma non irrealistico.
Analisi molto interessante e confermata dagli sviluppi, almeno fino ad oggi, del quadro politico successivo all’esito del referndum del 4 dicembre 2016.