Biden è rimbambito. È un guerrafondaio. L’America prepara e minaccia guerre. Perché tanto non ne ha mai subita una sul proprio territorio. Nelle guerre che l’America ha fatto in giro per il mondo, di atrocità ne ha combinate più di quelle che ora denunciano in Ucraina. Se la prendono con la Russia, la Cina e l’Europa per far pagare ad altri i guai di casa propria. Pensano ai loro profitti, del resto del mondo non gli importa nulla. La guerra in Ucraina vede un ritorno dell’antiamericanismo. In tutte le salse. Sembra in apparenza nuovo. In realtà è vecchio come il cucco. Sa lontano un miglio di déja vu.
Quando, oltre trent’anni fa, lasciai Pechino per andare a fare il corrispondente a New York, ero – lo confesso – un pochino prevenuto, non verso l’America, ma nei riguardi dell’allora presidente Ronald Reagan. Per anni avevo letto, anche sul mio giornale di allora, l’Unità, che Reagan era vecchio, un po’ fuori di testa, un attore suonato, uno che rischiava di portare il mondo alla guerra, e così via. Il mio predecessore nell’incarico di corrispondente del giornale del Pci dagli Stati uniti, Aniello Coppola, mi spiegò invece che molti europei non avevano capito proprio nulla. “Reagan è il presidente più popolare, più simpatico che l’America abbia avuto da Kennedy in poi”, diceva. Coppola era un esponente storico della sinistra “ingraiana”. Ma era anche, e soprattutto, un grande giornalista. Pensava con la sua testa, non coi preconcetti. Aveva ragione lui. Reagan seppe tenere a bada i falchi nel suo governo (e ce n’erano!). Fece all’Urss di Gorbačëv proposte che questa non poteva rifiutare. Il suo modo di esprimersi come se recitasse in un film di Hollywood era straordinariamente efficace. “Cosa faremmo se dovessimo essere attaccati dai marziani, ci metteremmo d’accordo, no?”, fu il suo approccio a Mosca, dove ebbi occasione di accompagnarlo con la White House Press. “Il suo sogno di ‘Guerre stellari’, di uno scudo difensivo spaziale, non si è mai realizzato. Ma contribuì a far implodere l’Urss, senza che ci fosse alcuna guerra.
Intendiamoci. Non tutti erano privi di paraocchi come Aniello. Ho letto che una mia bella e brava collega d’antan dice ora di essersi “pentita di aver esultato per l’elezione di Biden” perché “è un guerrafondaio”. Evidentemente avrebbe preferito Trump. Tornano, come negli anni ’30, bizzarre sintonie. Leggo che il leader della Lega, Matteo Salvini, intercettato dai giornalisti nei pressi del Senato, si sarebbe così espresso sull’invio di armi in Ucraina. “L’America non è Biden, ‘aridatece Trump’ perché con lui abbiamo vissuto anni di pace. Guarda caso quando tornano al governo i Democratici tornano i venti di guerra”. Il collega che mi aveva sostituito in America (e che ci fu mandato da un direttore ultrafiloamericano, quasi misticamente kennediano, non saprei dire se malgrado che, o proprio perché non sapeva l’inglese) ora dirige un giornale la cui ragione sociale pare sia la denuncia delle malefatte occidentali e Nato nel determinare la crisi ucraina. Un altro collega, che in America c’era stato a insegnare la Russia alle “centinaia di agenti della Cia” che andavano ad ascoltare le sue conferenze al Wilson Center, poi era diventato un egregio sostenitore delle teorie complottiste per cui l’attentato alle Torri gemelle e i successivi attentati islamisti in Europa sarebbero state finzioni, messe in scena dai guerrafondai Usa. Non fosse prematuramente scomparso, farebbe la felicità dei nostri talk show televisivi, a caccia di posizioni spettacolarmente estreme.
Antiamericanismi, al plurale, bisognerebbe dire. Ce n’è, ce ne sono stati, di molti tipi. C’è stato un antiamericanismo russo, e uno cinese. Che però si sono alternati a momenti di apertura, anzi addirittura di cooperazione. A volte di fronte all’affacciarsi di nemici volta a volta considerati più pericolosi (l’imperialismo giapponese, poi quello dei “nuovi zar” per Mao, Hitler per Stalin), a volte perché conveniva di gran lunga competere pacificamente. C’è stato anche un antiamericanismo europeo da sinistra. La mia generazione protestava contro la guerra americana in Vietnam, e neanche in nome del pacifismo: “Il Vietcong vince perché spara”, si scandiva nei cortei. Ma c’è stato ancora di più, molto più radicato in profondità, un antiamericanismo di destra. Gratta gratta è ancora il filone che va per la maggiore. Si sentono e si si riscoprono argomenti già sentiti e già usati. Non solo ieri o l’altroieri. E non da chi ci si aspetterebbe…
Riandiamo un attimo agli anni Trenta del secolo scorso. E salta agli occhi quel che potrebbe sembrare un controsenso. L’America è la nazione dove impera il capitalismo che più selvaggio di così non si può, è in prima fila nel contenere il pericolo bolscevico, da nessuna altra parte del mondo Mussolini e Hitler hanno tanti e tanto convinti ammiratori. Henry Ford e Charles Lindbergh pendono dalle labbra dei nuovi despoti europei, il padre dei Kennedy pure, e fa affari con loro. La sinistra socialista e comunista invece sono bandite in America, dovrebbero a prima vista deprecare l’imperialismo USA, la sua ideologia individualista, anti-collettivista, anti-socialista. Eppure le cose non stanno affatto così. È la destra europea a nutrire, talvolta fanaticamente, un’ideologia antiamericana.
“L’antiamericanismo è comico, prima ancora che stupido”, annota una delle più lucide menti pensanti della sinistra europea, Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere (Quaderno 5 § 105). Non sopporta i luoghi comuni di chi al capitalismo rampante e al consumismo americani preferirebbe un “collettivismo della miseria, della sofferenza”, polemizza con chi in opposizione alla “grande fabbrica” predica “l’ideologia scema sul ritorno all’artigianato”. Irride l’orgia di “luoghi comuni”, il sciocchezzaio degli opinionisti che celebrano l’Europa (e l’Italia fascista) come custodi della “qualità” e disprezzano gli Stati Uniti come rozzi campioni della “quantità”. Le riflessioni di Gramsci su “Americanismo e fordismo”, ce l’hanno insomma con tutti gli antenati dell’ideologia della “decrescita”, con i nemici della tecnologia, con chi delira di superiorità “spirituale” dell’Europa sull’America “materialista”.
Gramsci e la Russia sovietica: il materialismo storico e la critica del populismo è il titolo di un bel saggio del 2016 di Domenico Losurdo, che era uno storico serio, e certamente “di sinistra”, di cui consiglierei la lettura a chi è convinto che la sinistra italiana debba essere per forza, geneticamente, filorussa e antiamericana. Lo è invece, guarda un po’, la destra. Decisamente antiamericano è ad esempio il filosofo Martin Heidegger – uno davvero nazista, non “nazista” così così, solo per dire, cioè alla maniera in cui il Cremlino rimprovera che lo sia l’ucraino Zelensky, o alla maniera in cui tutto il resto del mondo rimprovera lo siano gli invasori dell’Ucraina. Già nel 1935 rimproverava a Stati Uniti e Unione Sovietica di rappresentare, da un punto di vista filosofico, il medesimo principio, consistente nella “furia sciagurata della tecnica scatenata e nella “massificazione dell’uomo”. Alla faccia della “massificazione” per un sostenitore senza riserve del regime di Hitler! Heidegger sarebbe tornato sull’equiparazione, nel 1942, in piena guerra mondiale, per sostenere che “Il bolscevismo è solo una variante dell’americanismo”. C’è un filo che lega quelli che ce l’hanno con l’America (e con l’Inghilterra), con la loro democrazia, con i loro permissivismi, causa di decadenza, di sgretolamento del costume e della morale, di cedimento al prevalere delle razze malsane e inferiori.
Un altro denso saggio, di Michela Nacci, L’Antiamericanismo in Italia negli anni Trenta (Bollati Boringhieri 1989) offre un campionario vastissimo dell’antiamericanismo che avrebbe finito per portare Mussolini nelle braccia di Hitler. Nel novero non ci sono solo volgari propagandisti, ma anche intellettuali di grande levatura. “In America non è felicità senza parecchio denaro”, scrive ad esempio Mario Soldati nel suo America primo amore, che è del 1935. Se la prende con il grattacielo americano, espressione tangibile del materialismo diffuso, della “prepotenza economica” Usa, anche Emilio Cecchi, che pure avrebbe apposto una sua pregevole postfazione ad Americana, la celebre antologia di 33 narratori americani, dai primi anni dell’Ottocento fino agli anni trenta, curata nel 1941 da Elio Vittorini. “[Il grattacielo] è il campanile senza campane, dio una religione materialista, senza Dio. Rocche baronali della plutocrazia, i grattacieli somigliano in tutto alle rocche medievali dei nobili, armati uno contro l’altro, entro la stessa cerchia di mura, e soltanto uniti contro il Comune, la Res publica”. Plutocrazia, Bolscevismo, Giudaismo, minaccia mortale alla civiltà, è il refrain continuo spacciato dall’intellighenzia di mezza Europa per giustificare la guerra, e anche lo sterminio. Con i grattacieli ce l’hanno persino gli emigranti meridionali del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, scritto mentre l’autore, antifascista, era ancora al confino: “La vita è triste tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, con gli ascensori, le porte girevoli, la metropolitana […] e mai un po’ di terra”.
All’Europa tra le due guerre non piace il “progresso” americano. Nemmeno agli esuli in fuga dal nazismo, come Theodor Adorno, che della civiltà Usa fa polpette nel suo Minima Moralia. “Finirà che diventeremo una colonia degli Stati uniti”, la profezia-lamento di Giuseppe Prezzolini nel 1929. Fa molta impressione, in quegli anni, l’immagine di un’America dei gangster. In realtà si va, allora come oggi, a ondate. “Di ritorno a Parigi, mi accorgo che per essere alla moda, bisogna dire male dell’America; per essere alla moda bisognava esaltarla oltre misura, tre o quattro anni fa. Il vento è cambiato; se continua così non ci sarà più macellaio di paese, che sgozza il maiale nel cortile, che non parli con disprezzo dei mattatoi di Chicago”, scrive Paul Hazard nel marzo del 1931.
Certi antiamericanismi possono parere un vezzo innocente. Come quello di Luigi Barzini Junior, deluso dalla “volgarità americana nel vestire”, e dall’impossibilità di sfoggiare un’eleganza discreta perché: “Come dove ognuno grida bisogna gridare più forte per farsi ascoltare, così a New York bisogna sottolineare lievemente tutto per non scomparire”. Altri innocenti non sono affatto, come i fustigatori delle Lega delle nazioni che, spinta dalle “insolenti plutocrazie transoceaniche”, dall’ “internazionale demomassonica”, “ebraico- plutocratica” e “pacifista” basata a Londra, Parigi e New York, aveva osato imporre sanzioni all’Italia per l’aggressione all’Etiopia. Per non dire dei veri e propri farabutti e sicofanti, cantori del massacro e dello sterminio preventivo degli ebrei, come il prete spretato Giuseppe Preziosi, coccolato da Hitler e fatto Ispettore generale della Razza da Mussolini.
È rimasto probabilmente qualcosa di quell’antiamericanismo “anticapitalistico” di destra – no, diciamola tutta, fascista – degli anni Trenta anche nell’antiamericanismo della sinistra nel dopoguerra, e poi in quello del ’68. Antiamericano e filosovietico era stato certamente, e a lungo, il Pci di Togliatti. Almeno quanto anticomunista era l’America. Ma tacciare di antiamericanismo il Pci di Berlinguer, quello in cui militava la mia generazione, è un falso storico. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia c’era stata una svolta, la rottura che non c’era stata invece dopo i fatti d’Ungheria. Luciana Castellina, intervistata da Repubblica, ha avanzato una ipotesi interessante: che lei e gli altri del Manifesto furono espulsi dal Pci di Berlinguer non perché avevano posizioni diverse, né tanto meno perché criticavano l’Urss di Brežnev, ma perché rifiutavano di cessare di pubblicare una rivista di fazione. “Non voleva che anche i filosovietici facessero un loro giornale, cosa che gli metteva molta più paura”, ha detto a Simonetta Fiori.
Succedeva ben prima che Berlinguer dicesse a Pansa, nell’intervista al Corriere del 1976, che si sentiva più sicuro protetto dall’ombrello nella Nato, che, mettiamo, nel Patto di Varsavia. La svolta c’era già stata un paio d’anni prima, quando commentando i fatti del Cile Berlinguer aveva lanciato il “compromesso storico”. Era anche un compromesso in politica internazionale. Si offriva, sia pure ancora in sordina, una “Europa né antiamericana né antisovietica”, purché gli uni e gli altri smettessero di ingerire. L’accento era su “Europa”. Non smisero: erano gli anni delle stragi, dei misteri ancora oggi irrisolti, del rapimento Moro. Le formulazioni erano sì infelici, e anche un po’ ambigue. Lo si faceva, come suggerisce il titolo di un documentato saggio di Valentine Lomellini, quasi sottovoce, a mezze parole (Bisbigliando al ‘nemico’? Il Pci alla svolta del 1973, tra nuove strategie verso Washington e tradizionale anti-americanismo). Gridarlo non sarebbe servito, il Pci si sarebbe spaccato. C’era ambiguità? Certamente. Ma neanche tanto: si scrive tanto dell’ambiguità del Pci nell’immediato dopoguerra, ma chi, onestamente, può sostenere che Togliatti non avesse scelto la via democratica anziché l’insurrezione?
Gli americani non capirono. Non tutti gli americani. A non capire fu la parte dell’establishment che decideva. Ricordo come me la spiegò, durante la mia prima, frenetica, visita in America nel 1976, una collega di Kissinger che aveva partecipato ad una riunione riservata, in cui si discuteva della possibilità che il Pci entrasse al governo. Gli “accademici” erano tutti favorevoli. E pure la Cia. Solo il Pentagono obiettò che il Pci non poteva accettare tutte le pesanti servitù militari cui era soggetta. Helmut Sonnenfeldt, “il Kissinger di Kissinger”, che presiedeva la riunione, concluse: “Allora, cosa possiamo fare per impedire che il Pci vada al governo?”. Umberto Gentiloni Silveri ha ritrovato negli archivi del Pci, ora all’Istituto Gramsci, le note riservate che allora avevo indirizzato alla segreteria (L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi 2009). Eppure mi ha fatto una certa impressione sentire l’ambasciatore di Carter in Italia, Richard Gardner – con il quale pure ho avuto rapporti di amicizia attraverso la moglie Danielle Luzzatto, e la figlia Nina – dire, intervistato nel film su Berlinguer di Veltroni, che di Berlinguer non ci si poteva fidare perché continuava a parlare bene della Rivoluzione d’Ottobre. Capirono benissimo invece gli altri. Cercarono di ammazzarlo in Bulgaria.
Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 28 e domenica 29 maggio.