Luigi Einaudi e Benedetto Croce sono unanimemente riconosciuti i padri del liberalismo italiano. Il loro rapporto, di dialogo (anche polemico) e di collaborazione, di amicizia e stima reciproca, pur nella diversità della formazione e degli interessi, è stato messo a nudo da molti studi. Ci si è soffermati molto, e non poteva essere altrimenti, sulla lunga discussione che li vide attivi per più lustri, soprattutto dal 1927 al 1941, sul tema dei rapporti fra liberismo e liberalismo. Tenere sempre ben presente questa discussione è importante per elaborare una «dottrina» compiuta del liberalismo. Altrettanto importante è però, ritengo, mettere a confronto le loro idee su un altro nodo teorico essenziale per i liberali: il tema del conflitto.
Su questo aspetto specifico, non c’è stata, fra Croce ed Einaudi, polemica o discussione: entrambi ritenevano infatti che l’ideale liberale fosse imprescindibile dalla lotta fra gli individui e i gruppi. Essi però giungevano a questa consapevolezza da vie diverse. Vanno ripercorse e conosciute entrambe perché arricchiscono di molto la dottrina liberale, soprattutto in tempi come i nostri in cui non mancano coloro che concepiscono l’«ordine» liberale in modo astratto e sovrastorico, quietistico e pacificato. Qui, per ovvi motivi, lo faremo solo in modo generale, come prima approssimazione, concentrando l’attenzione soprattutto sull’economista piemontese.
Le fonti del pensiero economico e politico di Einaudi, e quindi anche della sua idea della positività del conflitto, o quanto meno di un conflitto regolato, sono molto diverse da quelle di Croce. Si può senza dubbio dire che, per quest’ultimo, l’idea di conflitto trovava una sua ragion d’essere nell’accettazione, seppure con molti e importanti distinguo, della logica dialettica di Hegel. Anzi, della dialettica e in genere del pensiero di Hegel il filosofo napoletano tendeva a esaltare proprio gli aspetti conflittualistici rifiutando i momenti in cui il movimento dialettico sembrava ai suoi occhi chiudersi. È questo il senso ultimo del celebre scritto crociano Ciò che è vivo e ciò che è morto nel pensiero di Hegel del 1906: il pensatore di Stoccarda – diceva Croce – dopo aver avuto il grande merito di scoprire, o meglio portare a consapevolezza, la dialettica, come momento del pensiero e della realtà all’un tempo, aveva poi quasi dimenticato questa sua scoperta e aveva individuato un punto o un momento terminale in cui con l’affermarsi di uno Spirito assoluto completamente a sé trasparente e realizzato non era più possibile pensare un momento ulteriore.
Ovviamente, su questa interpretazione crociana di Hegel tanto ci sarebbe da dire e anche forse da contestare. Fatto sta che Hegel è da Croce giustamente considerato come il filosofo che ha messo in movimento l’essere; colui che ha scoperto l’immane «potenza del negativo», cioè il ruolo dell’elemento contrastivo, nella delineazione e nella conservazione della verità e in definitiva della vita. Egli ha effettivamente «redento il mondo dal male». Una «redenzione» che, per Croce, non va intesa, al modo delle vecchie costruzioni metafisiche, come un superamento delle contraddizioni, e quindi della critica e della discussione, ma come un riconoscimento del ruolo coessenziale, e in qualche modo addirittura prioritario, che esse hanno nel movimento della storia. È in quest’ordine di idee, tutto filosofico, che si colloca perciò il liberalismo crociano: esso è la filosofia della modernità, che aborre ogni idea di compiutezza o perfezione ed è necessariamente pluralistica e conflittuale.
A partire da Hegel
Il luogo hegeliano in cui originariamente viene messa all’opera questa attività del negativo è sicuramente la dialettica di servo e padrone nella Fenomenologia dello Spirito (1807). Una dialettica in cui è in gioco nientemeno che il «riconoscimento». Un processo che non può essere inteso nel senso morale o moralistico in cui Hegel stesso ancora lo concepiva nel periodo jenese, o come lo concepisce oggi ad esempio e tutto sommato un Axel Honneth, ma va piuttosto inteso nel senso tragico e fondativo di una conquista attraverso la lotta acerrima fra gli uomini, come irriducibile conflittualità politica.
Hegel poi riassunse la dialettica servo-padrone e la lotta per il riconoscimento in alcuni importanti paragrafi dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1816), opera che come è noto Croce tradusse integralmente per l’editore Laterza nel 1907. In quest’ordine di idee si spiega anche come nel 1925 il «crociano» Guido de Ruggiero potesse inserire Hegel nella sua Storia del liberalismo europeo, dedicando addirittura al pensatore di Stoccarda uno dei capitoli centrali del libro (il volume ebbe una enorme diffusione internazionale, ed è ancora oggi nelle bibliografie sul tema, nella traduzione in inglese del 1927, pubblicata dalla Cambridge University Press, di un altro importante «crociano»: l’oxoniense Robin George Collingwood).
Tutt’altra origine aveva invece per Einaudi l’esaltazione del liberalismo come conflitto. L’estensione dell’idea di concorrenza, i cui effetti benefici egli aveva potuto apprezzare attraverso la lettura de La ricchezza delle nazioni (1776) dell’amato Adam Smith, dal terreno economico delle merci e dei capitali a quello politico e intellettuale delle idee e delle strategie di azione, era molto probabilmente avvenuta attraverso la lettura delle opere di John Stuart Mill, in primo luogo di quelSaggio sulla libertà (1854) che avrebbe poi prefato, come vedremo, nell’edizione italiana di Piero Gobetti del 1925.
E in effetti l’anglofilia di Einaudi, da lui stesso rivendicata con orgoglio, trova riscontro anche nel fatto che egli fu sempre molto vicino al pensiero della tradizione dell’empirismo, a un modo di ragionare concreto, semplice e quasi essenziale, senza i «voli filosofici» della logica speculativa o dialettica. La quale, come il caso di Mill mostra a sufficienza, arrivava però a elaborare, dai diversi presupposti filosofici, una molto simile dottrina della conflittualità: meno profonda, ad avviso di chi scrive, di quella di stampo realistico di un Hegel, ma forse più efficace perché inserita di proposito in una teoria del liberalismo politico che avrebbe avuto straordinaria influenza. Il saggio di Mill sulla libertà, scrive Einaudi, offre «la giustificazione logica del diritto al dissenso e la dimostrazione della utilità sociale e spirituale della lotta». E aggiunge: «È necessario rileggere la dimostrazione che il Mill dà dei seguenti immortali principî: “La verità può diventare norma di azione solo quando a ognuno sia lasciata amplissima libertà di contraddirla e di confutarla. – È doloroso costringere un’opinione al silenzio, perché questa opinione potrebbe essere vera. – Le opinioni erronee contengono sovente un germe di verità. – Le verità non contraddette finiscono per essere ricevute dalla comune degli uomini come articoli di fede, senza alcuna comprensione del loro fondamento razionale. – La verità, divenuta dogma, non esercita più efficacia miglioratrice sul carattere e sulla condotta degli uomini”».
Una delle più riuscite esaltazioni del pluralismo e della conflittualità da parte di Einaudi è senza dubbio nell’articolo Verso la città divina, che pubblicò nel numero del 20 aprile 1920 della «Rivista di Milano» in risposta a un precedente intervento di Giuseppe Rensi. Il suo, scrive, vuole essere «un inno alla discordia, alla lotta, alla discussione degli spiriti». E ciò perché «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto».
L’elemento contrastivo svolge una doppia funzione: permette, da un lato, di far essere, appunto per contrasto, ciò che si ritiene il vero (che non sarebbe se non si opponesse a un falso): ma, dall’altro, fa anche in modo che io possa convincermi, se del caso, che ciò che prima ritenevo falso era in tutto o in parte vero. La verità vive appunto, per dirla con Croce, in un processo dialettico di opposizione e distinzione, vive come movimento e attività, non nella stasi di ciò che va realizzato una volta per sempre. Né la condizione di verità o libertà raggiunta può considerarsi mai non condizionata da rischi e pericoli ulteriori; e solo attraverso la lotta e nuovi conflitti essa può essere conservata.
La libertà e l’anticonformismo dell’oggi possono convertirsi presto in nuova illibertà e nuovo conformismo. «Un’idea, un modo di vita, che tutti accolgono, non val più di nulla… l’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità». Conseguente è perciò il risvolto liberale della questione: lo Stato non deve cercare un’armonia più o meno imposta perche è la difformità, la disarmonia, l’imperfezione il milieu più proprio della politica liberale. La quale, considerata sotto questo aspetto, potrebbe sembrare «contro natura», ma non lo è, se è vero, come in questa prospettiva è vero, che il liberalismo aderisce, seppure in modo controintuitivo, all’essenza più intima della vita umana. «È un bisogno costante dell’animo umano», scrive l’economista piemontese, «quello che rifugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità degli spiriti, anche se ottenuta col ferro e col sangue».
Quello del liberale è invece «l’ideale di uno Stato, il quale si astiene dall’imporre agli uomini una foggia di vita… lo Stato limite; lo Stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti».
L’illusione del fascismo
Einaudi, come d’altronde Croce, in un primo momento si illuse, come è noto, che il fascismo potesse avere una funzione di ristabilimento dell’ordine liberale precedente la guerra. Per il piemontese, in più, c’era soddisfazione per una certa moderata politica liberistica di tagli alle spese e privatizzazioni, perseguita soprattutto dal ministro delle Finanze di Mussolini, Alberto De Stefani. Le delusioni erano però destinate a subentrare presto: sia sul fronte economico, man mano che si ponevano le prime basi dell’economia protetta e del corporativismo, sia su quello politico, con il venir meno delle garanzie liberali e con la connessa costruzione dello Stato totalitario. Nel 1924, in particolare dopo l’assassinio di Matteotti, a Einaudi era ben chiaro che il problema fosse ormai di libertà: il costruendo Stato fascista tendeva a risolvere tutto nell’uno, piuttosto che favorire la lotta fra i molti che gli stava a cuore. C’era necessità di più conflitto, non di meno.
«Colla abolizione della libertà di stampa, colla compressione della libertà del pensiero, con la negazione della libertà di movimento e di lavoro in virtù dei bandi e del monopolio delle corporazioni, il paese è risospinto verso l’intolleranza e la uniformità. Si vuole imporre con la forza l’unanimità dei consensi e delle idee perché si afferma necessario difendere la verità contro l’errore, il bene contro il male, la nazione contro l’antinazione». Occorreva perciò riaffermare con urgenza «il diritto di critica, di non conformismo, le ragioni della lotta contro l’uniformità». E ancora: «Sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi e indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati… La libertà non è semplice strumento ma fine comune dal cui raggiungimento dipendono gli altri fini civili politici e spirituali della vita».
Sollecitato dal suo allievo torinese Gobetti, che fra le molteplici attività si era fatto anche editore, Einaudi scrisse allora due importanti saggi sulla positività del conflitto: la citata prefazione all’edizione italiana di On Liberty, da cui ho tratto le citazioni precedenti, che uscirà nel 1925 proprio a ridosso della morte a Parigi del giovane torinese (era nato nel 1901); l’importante saggio posto come prefazione a Le lotte del lavoro, la raccolta dei suoi scritti sugli scioperi e le lotte operaie, e in genere sui problemi del lavoro, pubblicati a partire dal 1897 (memorabili i duereportage usciti su «La Stampa» sugli scioperi degli operai tessili del biellese dell’autunno 1897 e di quelli del porto di Genova a cavallo fra 1900 e 1901).
Quest’ultima prefazione è significativamente intitolata La bellezza della lotta ed è, a mio avviso, il punto più alto della riflessione di Einaudi sul tema. Egli tocca qui in effetti, con un discorrere semplice e con una prospettiva di buon senso, alcuni punti fondamentali che, per chi abbia anche voglia di ricostruire filosoficamente la teoria del liberalismo, trovano in momenti alti e ben precisi della storia del pensiero occidentale il loro adeguato riferimento.
Il liberalismo non esiste come entità a sé stante da realizzare, ma solo come (sempre cangiante) lotta per conquistare (nuovi spazi di) libertà. Questa lotta avviene non solo fra gli uomini, ma anche all’interno di ognuno di essi. Di qui «lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando, a proprie spese a vincere e a perfezionarsi».
Il liberalismo è l’opposto del socialismo, ma solo a livello idealtipico, qualora cioè si intenda il primo come una visione della realtà (non solo economica) fondata sull’attività e il secondo su un essere da realizzare. Il liberalismo non è, ma si fa: è metodo e non sistema. Da ciò consegue una non corrispondenza fra idea e realtà: ci sono sedicenti liberali, anche fra gli imprenditori, che sono in verità socialisti perche aspettano paternalisticamente aiuti dal prossimo o prebende dallo Stato e mostrano di non credere nella concorrenza; e ci sono sedicenti socialisti, anche fra gli operai, che sono in verità liberali perché vogliono elevarsi e progredire senza una coazione esterna. Ne consegue che, così come esiste un «liberalismo» che cerca armonie definitive (ad esempio quello di un Bastiat), così esiste un socialismo come afflato ed esigenza etica che è liberale e riformista perché del liberalismo accetta il metodo e la sostanza morale. Da qui l’antimarxismo del nostro (al contrario di Croce, Einaudi non colse l’importanza di Marx come teorico del conflitto e della dialettica: come Rosselli, ridusse il marxismo a rigido determinismo e meccanicismo). «Il socialismo scientifico e il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al di sotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia».
Ogni società, così come ogni persona, tende all’equilibrio fra le forze che la attraversano. L’equilibrio liberale non può essere né assoluto equilibrio, che è la situazione tipica dei regimi dittatoriali o variamente perfezionistici, né l’assoluto disequilibrio dell’anarchia, con il quale se mai si realizzasse non ci sarebbe nemmeno più una società o uno Stato. Si tratta di un equilibrio instabile, sempre minacciato, sempre da riconquistare ma anche sempre necessariamente, almeno in parte, da perdere (il negativo è in questo senso, hegelianamente, il momento vitale). È equilibrio fra equilibrio e disequilibrio. E infatti, scrive Einaudi, «è preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni e a lotte a quello imposto da una forza esteriore» perché «nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambo i contendenti». E ancora: «perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato a ogni istante di non durare… L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti attraverso a oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi». E aggiunge: «Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere di quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella». Tuttavia «la natura umana è cosiffatta da ripugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita».
Alla base dell’esaltazione del conflitto, c’è una precisa idea di uomo, una visione antropologica da cui scaturisce una etica a essa consustanziale: da una parte gli uomini sono realisticamente un nesso inscindibile di pulsioni positive e negative, che non solo non è possibile risolvere (pena la creazione di danni e tragedie incommensurabili), ma che non è nemmeno auspicabile che sia risolto in modo definitivo (si può dire, sempre in linguaggio hegeliano, che, se ciò accadesse, verrebbe meno il momento del «negativo» che mette in moto la dialettica e si interromperebbe in conseguenza il movimento della storia e della vita). Gli uomini, inoltre, come aveva già messo in chiaro Kant (ma già prima di lui un Hobbes), sono fra di loro in un rapporto di «socievole insocievolezza»: né si autoisolano dalla comunità, come vorrebbe l’astrazione dell’individuo agente razionalmente o dell’homo oeconomicus di un certo (pseudo) liberalismo individualistico, né aderiscono a essa: il rapporto fra individuo e comunità è anch’esso dialettico.
Tra socialismo e liberalismo
In più: fra di loro vige, per dirla questa volta heideggerianamente, una sorta di «contrapposizione commisurante»: l’uomo ha bisogno degli altri per individuarsi, per crearsi una propria identità, e quindi non può proporsi di eliminarli o semplicemente di non farne conto, ma si rapporta a essi in modo emulativo e competitivo, agonistico e antagonistico, «commisurante» per l’appunto. «Gli uomini – scrive Einaudi – sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di un’organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentanti o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante». E aggiunge: «A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati e agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere». La conclusione essendo che «l’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello, non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta lontana, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana».
Molte di queste idee, compresa la distinzione idealtipica fra liberalismo e socialismo e conseguentemente fra un socialismo liberale e riformista da una parte e il marxismo dall’altra, ritornano negli scritti liberali che Croce andò componendo negli anni successivi, quelli del trionfo del fascismo nella società italiana. A cominciare da quel piccolo gioiello che è La concezione liberale come concezione della vita, il saggio del 1927 in cui è scritto, fra l’altro, «che in essa si rispecchia tutta la filosofia dell’età moderna, incentrata nell’idea della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità o l’opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato». Né, alla luce di quanto ho qui argomentato, si può considerare un’«eccentricità» crociana l’asimmetria asserita in un altro importante saggio del 1939 fra la teoria liberale, affermatasi nel modo più compiuto nell’Europa continentale, e la pratica liberale, affermatasi invece soprattutto nei paesi anglosassoni.
Il filosofo napoletano, che forse assegnava in qualche modo a sé il compito di risanare la frattura in una nuova e «superiore» sintesi, era diventato infatti in quegli anni fuori dall’Italia il simbolo dell’opposizione al fascismo ed era considerato uno dei massimi pensatori liberali viventi (il settimanale «Time» gli avrebbe dedicato la copertina). Il saggio in questione, che egli aveva intitolato Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, il secondo che esplicitamente dedicava al liberalismo, gli era stato commissionato da un importante editore americano: Harcourt and Brace di New York. In particolare, esso comparve per la prima volta in inglese, col titolo The Roots of Liberty, come primo saggio di un volume collettaneo intitolato Freedom.
Comunque sia, a me sembra di poter dire, in conclusione, che la tradizione italiana del liberalismo classico, soprattutto dopo la stagione giunta ormai al termine del neoliberalismo, possa continuare a esserci utile. Sia nella linea di Croce, sia in quella di Einaudi. Piuttosto che insistere sulle differenze fra i due padri, ritengo in questo momento più proficuo riprendere il filo, in modo ovviamente non acritico, di un’idea di liberalismo non conflittualistico e veramente non metafisico. Di tutte le ideologie, la più insidiosa è forse proprio quella che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni e che si è presentata sotto le mistificate vesti della lotta alle (e della fine delle) ideologie (cfr. i recenti saggi della Oxford University Press: David Harvey, A Brief History of Neoliberalism; Manfred B. Steger & Ravi K. Roy, Neoliberalism. A Very Short Introduction, Oxford University Press).