Abbiamo chiesto a qualche amico e collaboratore di Reset di segnalare per noi un libro (romanzo o saggio) che merita di essere portato dal 2013 nel nuovo anno alle porte. Questo è il risultato, queste sono le scelte.
Roberto Biorcio (sociologo della politica) ha scelto Le peuple existe-t-il? (Edition Science Humaine) di Michel Wieviorka
È diventato ormai un mantra per tutte élite politiche e tecnocatiche italiane ed europee indicare come principali nemici da combattere tutti i partiti e i movimenti populisti che fanno appello ai “popoli” del vecchio continente contro le politiche economiche (disastrose) decise a Bruxelles o a Berlino. Negli ultimi due anni invece, molti commentatori avevano salutato con entusiasmo i movimenti popolari, i “popoli” del mondo arabo e musulmano che si erano sollevati contro regimi autoritari e corrotti.
Con tutte le sue ambivalenze e i suoi molteplici significati, l’idea di “popolo” è ritornata attuale nell’opinione pubblica, tra i politici e gli studiosi.
Per questo è molto interessante leggere e riflettere sul libro curato da Michel Wieviorka che, non casualmente, pone la questione a numerosi studiosi e intellettuali: filosofi, politologi, sociologi, antropologi, storici, demografi e scrittori.
Le risposte e gli spunti che emergono dal libro sono moltissimi, ma alcuni mi sono sembrati di particolare importanza. Dalle riflessioni che partono dalla etimologia e dai diversi ambiti disciplinari è confermata la classica tipologia dei differenti significati che può assumere il concetto di popolo.
Anzitutto l’idea di popolo come popolazione che abita lo stesso territorio ed ha in comune costumi, tratti culturali e (talvolta) anche una lunga storia: l’idea del “popola nazione”. Ma ha molto rilievo anche l’idea di popolo come insieme dei cittadini di uno stato. Un popolo che, per mote costituzioni detiene la sovranità politica. Un’idea in questo caso strettamente intrecciata a quella di democrazia. E d’altra parte, viene spesso attribuito al popolo un altro significato, limitandolo all’insieme dei cittadini di condizioni più modeste, distinto da coloro che hanno privilegi di ricchezza, di cultura e uno status sociale elevato (l’idea del popolo come “classe” o come “plebe”). Una polarizzazione della società fra ricchi e poveri che già Hegel aveva segnalato nei “Lineamenti della filosofia del diritto”.
Sono d’altra parte molto controversi anche le qualità, le virtù e i vizi attribuiti allo stesso popolo. Si possono valorizzare la parsimonia, il buon senso, la saggezza e le virtù della gente comune, contrapponendoli all’arroganza e ai costumi spesso corrotti e degenerati (i “bunga-bunga”) delle classi dirigenti. Oppure attribuire al popolo le vecchie idee di Le Bon, Freud, Reich e Canetti sulla folla e sulla massa: emotività e irrazionalità, propensione e piacere nell’uso della violenza, disponibilità a farsi guidare da un capo autoritario.
Per i politici, il richiamo al popolo assume sempre un fascino particolare: come rileva Margaret Canovan: il “popolo” è un termine che può essere anche privo di significati precisi, ma è ricco di risonanze retoriche ed emotive. E spesso i politici (e talvolta i giornalisti) propongono una propria idea di popolo come “mito fondatore” per un nuovo movimento o un nuovo partito. Invece di parlare semplicemente di lavoratori autonomi, si inventa l’idea del “popolo delle partite IVA” che ha ben altra risonanza.
L’appello al popolo assume funzioni molto diverse a secondo del significato attribuiti al concetto. Per la destra il riferimento è di regola il popolo-nazione; per la sinistra è più spesso evocata l’idea del del popolo-classe. Ma non mancano casi di sovrapposizione delle due concezioni.
L’appello al popolo assume particolare importanza nelle fasi in cui i regimi politici sono contestati e messi in discussione. Così si è verificato nelle rivolte del mondo arabo: in Algeria, lo slogan centrale della rivoluzione era “Un solo eroe: il popolo”, in Tunisia, gli appelli alla mobilitazione erano avviati di solito con le parole “Chaad yourid, il popolo vuole”.
Wieviorka ricorda che quando una democrazia è consolidata e funziona in modo soddisfacente, le forze politiche si limitano a mobilitare i cittadini e a valorizzare i loro diritti. L’idea di popolo si mantiene in uno stato latente. Ma la crisi delle democrazie occidentali, il passaggio a una “postdemocrazia” che toglie sovranità ai cittadini, il commissariamento delle politiche nazionali da parte di Bruxelles fa cresce la distanza fra le élite politiche ed economiche e la popolazione. Riacquista attualità e rilievo l’idea di popolo, che può esprimersi nella forma di populismo di sinistra, ma più spesso in quelle del populismo di destra, che associa al nazionalismo anche la xenofobia e il razzismo.
Michael Kazin (storico della Georgetown University e direttore della rivista Dissent) ha scelto I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla grande guerra (Laterza 2013) di Christopher Clark
Lavorando a un libro sugli americani che hanno cercato di evitare che la loro nazione partecipasse alla Prima guerra mondiale, ho provato a comprendere una delle domande più significative della storia del secolo passato: come e perché la Grande guerra è iniziata. Clark fornisce la risposta più convincente in una prosa che è un piacere da leggere, che oggi non si può dire che di una manciata di storici delle relazioni internazionali.
Nella prospettiva di Clark, chiedere quale nazione è stata la maggior responsabile dell’inizio della guerra significa non cogliere le vere cause. Francia, Russia, Germania, Austria -Ungheria, Gran Bretagna, Serbia, tutte costruirono alleanze militari che hanno incoraggiato i leader a pianificare la vittoria in un conflitto che credevano improbabile. Ogni stato incoraggiò i propri cittadini a considerare atti aggressivi delle forze militari come di natura puramente difensiva. Nessuno era disposto ad avviare negoziati seri per ridurre le tensioni e prevenire un cataclisma globale. Come scrive Clark: “Lo scoppio della guerra nel 1914 non è un romanzo di Agatha Christie al termine del quale scopriremo il colpevole in piedi sopra un cadavere nel giardino d’inverno con una pistola fumante. Non vi è alcuna pistola fumante in questa storia, o meglio, ce n’è una nelle mani di ogni personaggio principale. Visto in questa luce, lo scoppio della guerra è stata una tragedia, non un crimine”.
Si tratta di una Storia scritta al più alto livello dell’analisi strutturale, ma con un’acuta capacità di individuare gli eventi drammatici che sono presenti all’inizio di ogni conflitto sanguinoso. La Prima guerra mondiale è stato l’evento catalizzatore del XX secolo, ma è difficile immaginare come il nazismo, il fascismo, il comunismo, la Seconda guerra mondiale o la Guerra Fredda, sarebbero potuti accadere se i leader europei fossero stati in grado di eliminare le contrapposizioni nell’estate del 1914. Il libro di Clark spiega meglio di qualunque altro volume perché tale soluzione non ha avuto luogo.
Massimiliano Panarari (sociologo e saggista) ha scelto La nuova geografia del Lavoro (Mondadori 2013) di Enrico Moretti
It’s the economy, stupid!, affermava con decisione Bill Clinton (su indicazione del suo spin doctor James Carville), patrocinatore dell’esplosione (con annessa, serissima, bolla speculativa) della new economy negli Stati Uniti degli anni Novanta. Perché l’economia è fondamentale per chiunque – dai neomarxisti ai neoliberisti – voglia capire il proprio tempo. E per meditare su quali orientamento abbia preso (e prenderà sempre più massicciamente nel futuro ravvicinato) l’economia internazionale risulta molto proficua la lettura del nostro libro dell’anno: La nuova geografia del Lavoro di Enrico Moretti. Ex bocconiano, professore di Economia alla University of California di Berkeley (e pluripremiato economista quarantenne, chiamato a discutere il suo lavoro dal presidente Usa Barack Obama), Moretti effettua una ricognizione (con visite dirette, a metà tra il lavoro sul campo e il reportage giornalistico di alto livello) nelle realtà urbane protagoniste di questa ricomposizione vittoriosa dell’economia postindustriale.
A partire dalle aree metropolitane californiane nelle quali si concentra l’economia creativa (e creatrice) di questo Terzo millennio, tra Ict, biotecnologie e l’industria dell’immaginario capitanata (ancora) da Hollywood con i suoi innumerevoli spin off. Mentre nel digitale si ricerca la grande convergenza, gli Stati Uniti, negli ultimi decenni, hanno assistito al prodursi della “grande divergenza”, con una divaricazione in continuo incremento tra le città che si sono inserite nell’economia della conoscenza e la sospingono (con la crescente produzione di occasioni di occupazione qualificata) e quelle che ne sono rimaste tagliate fuori.
È la Path-dependency: il successo produce altro successo, l’insuccesso ulteriore scacco e rovina; un trend innanzitutto a stelle e strisce, ma che riguarda tutto il mondo occidentale (e, più in generale, l’intero mondo fattosi da tempo Villaggio globale). La questione chiave è quella del possesso del capitale umano che si rivela fondamentale in un’economia effettivamente fondata sul sapere, la creatività e l’innovazione. Un volume, scritto da un italiano global, che dice molto anche sulle ragioni del tristissimo declino di questo nostro Paese, che, di fatto, ha perso il treno per l’economia della conoscenza tanto tempo fa, negli anni Sessanta, quando se ne trovava potenzialmente all’avanguardia. E che, dulcis in fundo, contesta le tesi un piuttosto semplicistiche e unidirezionali di Richard Florida (recentemente criticato in maniera severa dal settimanale The New Republic) sugli stili di vita di una città quale magnete e fattore di attrattività per le “classi creative”.
Mariella Gramaglia (giornalista) ha scelto Storia di chi fugge e di chi resta (e/o 2013) di Elena Ferrante
Ci sono gli innamorati di Amitav Ghosh, quello dei romanzi brevi, Cromosoma Calcutta, Le linee d’ombra, Lo schiavo del manoscritto, che non gli hanno mai perdonato la fluviale Trilogia della Ibis. Si sono persi. Io sono fra questi: a un certo punto l’epopea colto-salgariana mi ha fatto regredire al ricordo dei miei cuginetti che giocavano a Sandokan con un incrociarsi minaccioso di spade e pugnali di legno. Da osservare da lontano, come volevano i tempi. Ci sono gli innamorati (o meglio le innamorate) della Elena Ferrante dei librini sottili, Amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura, oppure della sua sublime autocoscienza di scrittrice e di femminista (La Frantumaglia) che si sono sentit* tradit* dalla torrenziale narrazione che si snoda nella trilogia dell’Amica geniale. Trilogia che forse promette un quarto volume perché, nello stupore ansioso di chi ama la scrittrice, il libro si chiude (a pag. 382) con un vuoto reale e metaforico.
L’aereo su cui viaggia la protagonista del romanzo si solleva dalla pista ma non completa il suo volo. Io non sono tra le tradite. Ho adorato la trilogia, dal primo volume sulle ambizioni di due piccole scugnizze napoletane degli anni Cinquanta, al secondo sulle pungenti curiosità intellettuali e sulla passione che strappa i capelli di due giovani donne, a quest’ultimo: Storia di chi fugge e di chi resta. Scabro, sorprendente, che ti prende e ti fa oscillare come una salva di colpi su un punching ball. I motivi? Almeno tre.
Si può stare dentro la saga come in una pancia, come accade alle bambine e alle adolescenti, regredire e trasalire senza imporsi di stare attente, perché esserlo è ovvio come respirare. Si può leggere una nuova narrazione del ’68 senza che sia l’ennesima, perché la forza di gravità femminile tiene la protagonista ai margini del “grande gioco” e glielo fa scoprire con uno sguardo inedito. Si può ribadire a se stesse che l’amore o è molesto o non è. O lacera, taglia, inganna il giudizio, sorprende il gusto, manipola la consapevolezza, nega l’evidenza, oppure si chiama in altri modi: tenerezza, amicizia, dolcezza di intese.
Giovanni Boccia Artieri (sociologo della comunicazione) ha scelto Fine Impero (Minimum Fax 2013) di Giuseppe Genna
Il romanzo di Giuseppe Genna può essere letto come un racconto sul rapporto tra il Potere e il suo strutturarsi in immaginari, un racconto capace di dare vita alla tensione fra i nostri anni ’80 e la fine Impero di questi anni ’10, vissuta con il suo carico di banalità e mediocrità, metro di misura di un’epoca allo stato terminale. Il protagonista è uno scrittore sfibrato dalla morte della piccolissima figlia che si trascina – e ci trascina – in collaborazioni varie all’interno del mondo dello spettacolo che raccontano quello spettacolo del potere che è la cifra che ci accompagna da lungo tempo.
Troviamo così il racconto dei luoghi e dei simboli che con i loro linguaggi hanno colonizzato i corpi e la mente: la moda, la pubblicità, la televisione, il Palazzo e la Villa. Ma anche dei personaggi: dalla minorenne modella kazaka all’agente Zio Bubba/Lele Mora per arrivare al Proprietario (dell’Italia) che ha la faccia “di gomma e fard” che dà una festa in Villa in cui si consuma il senso di vuoto di questo passaggio d’epoca.
Ed è nel linguaggio dolente, sfibrato ma mai consolatorio di una narrazione come questa che è possibile raccogliere le tracce più chiare di una condizione che rappresenta il presente: un perenne stato di transizione che è diventato una costante che si ripete ciclicamente senza portare ad un reale mutamento. Come bonus track vale la pena di ripercorrere i frammenti di questo nostro immaginario sul tumblr del romanzo che raccoglie, con metodo warburghiano, video e immagini e leggere il racconto di Fine Impero in Tweet raccolti su uno Storify.
Giuliano Santoro (giornalista e scrittore) ha scelto La figlia (Sellerio 2013) di Clara Usón
Il 2013 è stato l’anno dell’austera inconcludenza delle larghe intese di Monti e Letta. Alle quali si sono affiancati, in maniera speculare e disperante, i fenomeni – altrettanto inconcludenti – di Grillo e dei Forconi, che hanno agito d’intesa con l’istinto di autoconservazione di un’Italia che continua a sperare che tutto cambi senza che nulla muti per davvero.
L’anno che sta per cominciare, tra elezioni europee e sommovimenti di crisi, potrebbe segnare un altro fenomeno esiziale: l’affermazione dei nostalgici delle sovranità nazionali. In questa temperie in Europa si scrivono libri preziosi. Spesso si tratta di oggetti narrativi non identificati: romanzi non-fiction, inchieste narrate, saggi che incedono prendendo la forma viva del reportage. Tra gli altri segnalo qui La Figlia nel quale la scrittrice catalana Clara Usón ricostruisce la vita realmente vissuta di Ana Mladić, secondogenita del criminale di guerra dei balcani Ratko, morta suicida nel 1994 in mezzo alla macelleria etnica di Bosnia. La storia e il decesso della giovane donna serba diventano un punto di vista sorprendente per ripercorrere l’avvento dell’orrore neo-nazionalista nella ex Jugoslavia. Usón riesce a farci rivivere il lento e inesorabile cammino tracciato da santoni new age in cerca di visibilità, politici di secondo piano a caccia del potere e soldati frustrati affamati di gloria: accarezzando gli istinti più retrivi di un popolo impaurito riuscirono a far scivolare un paese nell’ossessione dei confini e nella difesa del sacro suolo.
L’incedere sobrio e appassionante de La Figlia è tutt’altro che rassicurante e non fornisce risposte sbrigative. Sono allergici alla barbarie molti amici di Ana, giovani di Belgrado la cui forma di vita è incompatibile col razzismo e con la guerra. Ma dalle pagine del libro si evince che i simboli non sono eterni. Al contrario, essi sono in tensione col mondo circostante. Ecco dunque che la Resistenza serba al nazismo viene dolorosamente pervertita fino a trasformare le gesta eroiche dei partigiani nel mito reazionario della purezza cetnica, portato avanti da bifolchi consumati dal rancore e da truppe d’assalto para-mafiose.
In questo libro la ricorrente figura del padre (allegoria politica, metafora psicanalitica, espediente narrativo) si rovescia nel suicidio della figlia. Non abbiatene paura: è davvero utile affacciarsi alla finestra di questo radicale cambio di prospettiva.
Giorgia Serughetti (ricercatrice) ha scelto Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza (Laterza 2013) di Tamar Pitch
Contro il decoro di Tamar Pitch è uscito all’inizio del 2013, e già sembra parlare di un’Italia che non c’è più. Un’Italia vandalizzata da barbari in camicia verde e strapazzata dagli stravizi di regime a cui governi “in bianco e nero” dell’austerità e del rigore mirano a ridare sobrietà e credibilità nei salotti buoni d’Europa. In questo paese, dice la filosofa, l’opinione pubblica ha creduto di poter vedere differenze macroscopiche, sia etiche sia estetiche, tra i difensori del “decoro” e i propugnatori dell'”indecenza”, ma è stata un’illusione, una semplificazione o un errore di prospettiva. Perché invece i due termini sono completementari: l’indecenza – l’amoralità dei festini con escort e coca, l’esaltazione dei corpi in vendita, l’esibizione volgare di lussi straordinari – è il rovescio speculare del decoro – metafora del limite e della misura ma anche dispositivo di repressione di difformità e potenzialità trasgressive.
Insieme, i due termini garantiscono la perpetuazione di un sistema di controllo sociale in cui l’imperativo indivuaIistico del successo (che include una nozione malinterpretata di “merito”) fa da sponda allo smantellamento pezzo a pezzo dello stato sociale. E chi non ce la fa è semplicemente fuori. Fuori da città rese “decorose” – come case per bene – da politiche di “pulizia”, e fuori da una cittadinanza che assume un’impronta censitaria, oltre che sessista e razzista. Attraverso questa chiave Tamar Pitch legge fenomeni diversissimi in apparenza: voto di condotta in classe e tagli brutali alla scuola pubblica, leggi anti-prostituzione e incitamento al consumo sessuale, tessera del tifoso e pay tv, criminalizzazione dei “tossici” e sregolatezza dell’upper class.
Ma di che Italia parla? Di quella che è stata o di quella in cui stiamo vivendo? La legge Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe, tanto per citare due tra le più famigerate, sono ancora in piedi e nessuno sembra pronto a metterci mano, né a invertire la tendenza degli investimenti sull’istruzione o sul welfare. E non è detto che i giovani della nuova era renziana avranno più libertà di sconfinare, trasgredire, desiderare.
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