Il secondo giro della discussione americana intorno a Tariq Ramadan, il noto intellettuale svizzero musulmano, è più incandescente del primo, che avvenne tre anni fa. Ancora oggi Paul Berman non riesce a sopportare l’idea che il supplemento domenicale del New York Times abbia dedicato un prestigioso profilo a questo personaggio collocandolo sul «pinnacolo» più alto dell’attenzione generale. Berman è un polemista noto per le sue posizioni di liberal specializzato nella critica dei liberal, e per l’appoggio alla strategia dei neocons in Iraq, sulla base dell’equazione islamismo uguale totalitarismo, Saddam uguale Hitler, Bush uguale Eisenhower.|
Quando uscì l’articolo di Ian Buruma sul Times magazine, scrisse una ventina di cartelle per The New Republic, che avevano l’obiettivo di mettere in guardia contro il «pericolo» Ramadan. Ma le cose cambiano: da allora il «pericoloso» svizzero, che era bandito dagli Stati Uniti, grazie al patriot act può andare e venire tra Ginevra, Oxford e New York. Così Berman ha trasformato uell’articolo in un libro di 300 pagine, The Flight of Intellectuals (Melvillehouse, 2010), ovvero la «fuga» degli intellettuali.
Alla testa dei suoi critici si è posto un giovane filosofo politico di Yale, Andrew March, sostenendo che le idee di Ramadan su Europa, cittadinanza, immigrati musulmani sono del tutto ragionevoli e coerenti con una prospettiva di liberalismo politico. Invece il libro di Berman si apre (e in certo senso si chiude) con l’affermazione che Ramadan «non è altro che un figlio, un fratello, un nipote e addirittura un pronipote, all’insegna di rapporti familiari che sembrano condizionare tutti i suoi scritti e le sue azioni». March nota che «questa frase consente a Berman di passare le successive 100 pagine a raccontare la storia spesso nauseante delle posizioni assunte dagli arabi e dall’islam nei confronti di Israele, degli ebrei, di Hitler e dell’Olocausto, con un ruolo importante del padre e del nonno di Ramadan».
Berman non affronta mai direttamente un giudizio su Ramadan, non ha una precisa e definitiva imputazione da rivolgergli, se non quella di non esprimere sufficiente indignazione nel distaccarsi da una tradizione di famiglia. Accuse fragili, quasi un «destino biologico», da meritare al «falco» Berman diverse stroncature. A quella politica di Benjamin Barber (in una lettera al New York Times): «questo libro è tutto pregiudizi e invettive confezionate nel gergo di una pseudo-scienza sociale», si aggiunge quella, analitica, di Foreign Affairs, affidata a Marc Lynch, specialista di Medio Oriente: figure come quelle di Ramadan, simboli di un islamismo non violento sono state evitate a lungo come potenziali promotori di estremismo, ma rappresentano ora un ponte attraverso divisioni che erano un tempo insuperabili.
Il libro è, secondo Lynch, un «furioso contrattacco che viene dai tempi andati dell’amministrazione Bush» e la sua lettura dell’islamismo, povera di fonti, è cieca di fronte alle drammatiche differenze aperte all’interno del variegato mondo islamico, non vede la dura guerra in corso tra i puristi salafiti e i pragmatici modernizzatori che cercano di adattare l’Islam al mondo moderno. Questa cecità finisce come sempre per favorire gli estremisti.
Per Andrew March, Ramadan è impegnato principalmente nell’affermare una concezione dell’etica che rimuova nel lungo termine per i musulmani il vincolo giuridico letterale della shari’a, la legge religiosa. Berman, invece, va cercando in tutti gli angoli del suo pensiero solo denunce e ponti tagliati. E così perde di vista l’audacia e la radicalità delle idee di Ramadan.
Nella lettura del libro di Berman impressiona il peso costante della presenza di un altro bersaglio, costante e centrale: Ian Buruma, lo scrittore olandese autore di Assassinio ad Amsterdam, firma assai affermata in America, seguito a breve distanza, per numero di reprimende, da Timothy Garton Ash. Colpirli è un chiodo fisso di Berman. La loro colpa? È quella di preferire, in una strategia di dialogo con il mondo islamico, il modello di Ramadan a quello di Ayaan Hirsi Ali, la esule somala rifugiata prima in Olanda e poi in America, e minacciata di morte dai fondamentalisi. La donna rappresenta la scelta di abbandono dell’Islam in favore di una visione secolare e atea, e si capisce bene come questa via impensierisca, se proposta come modello, riformisti di cultura musulamana come Shirin Ebadi, il Nobel iraniano: come immaginare che la causa della democrazia debba porsi come obiettivo quello di portare milioni di persone fuori dalla loro religione? E’ evidente, si fa notare da più parti, che esprimere solidarietà a una donna minacciata dai fondamentalisti non significa condividerne le analisi.
I musulmani secolarizzati o convertiti, e divenuti sostenitori senza riserve dei governi israeliani (Berman cita tra i casi esemplari quello dell’italiano Magdi Allam) sono nella cruda analisi di Foreign Affairs soltanto un sideshow, uno spettacolo di contorno rispetto alla reale e decisiva lotta in corso tra riformatori e tradizionalisti, Fratelli musulmani e Salafiti, governi autoritari in carica e opposizioni.
L’ondata di faziosità introdotta da Berman ha prodotto in sostanza un contraccolpo chiarificatore, al punto che anche il New Yorker, che aveva dedicato a Ramadan qualche punzecchiatura, ha poi affidato il caso Berman a un disinibito scrittore indiano Pankaj Mishra (Islamismism, 7 giugno 2010): lo zelo inquisitorio non è la migliore premesse per il dialogo, specie da parte di chi deve rifarsi del suo precedente ruolo di «generale al computer» dopo quasi un decennio di guerra globale al terrorismo, una «crociata» che ha aiutato un banda di terroristi ad allargare la sua presa nel mondo.