Ideologia. Termine stantìo, che odora di muffa e di sbaglio. Quante escalation e nefandezze in nome della Grande Mèta, quanti baratri infernali su quelle vie lastricate dalle migliori intenzioni. Sono le locuzioni di rito. Ma se si cerca di ignorare gli alert semantici che scattano automatici ogni volta se ne discute, si scopre che la parola ideologia è aborrita nelle conversazioni, non perché effettivamente sia morta nel 1989, e abbia smesso di operare nel mondo attuale. Tutt’altro, potrebbe trattarsi di uno stato di morte apparente. Anzi, è proprio nel nostro chiederci che fine abbia fatto che dovremmo riconoscere il segno della sua ottima salute. Diceva Baudelaire che l’astuzia più raffinata del diavolo è persuadervi che non esiste. Talmente totalizzante da essere indistinguibile.
Sullo stesso tema l’articolo di Francesco Saverio Trincia
Questo è stato lo spunto di una giornata di studi organizzata da Corrado Ocone, Roberto Pierri, Paolo Granata e Tommaso Visone alla Luiss Guido Carli lo scorso 14 giugno. Vi hanno preso parte Sergio Moravia, Roberto Finelli, Luciano Albanese, Diego Fusaro, Sebastiano Maffettone, Luciano Pellicani, Stefano Petrucciani, Francesco Saverio Trincia e tanti altri. Presente anche Jacques Bidet, professore emerito all’Université de Paris X – Nanterre, fondatore della rivista Actuel Marx che ogni tre anni organizza il Congrès Marx International. Uno stimolo per discutere anche della recente traduzione curata da Diego Fusaro per l’editore Bompiani dell’Ideologia tedesca di Marx e Engels, e della pubblicazione per Rubbettino degli atti di una precedente giornata di studi marxiani, Leggere Marx oggi, a cura di Roberto Pierri e Paolo Granata.
Il primo pregiudizio che colpisce l’ideologia è l’immaginario di ottusità e indurimenti che evoca nel dibattito attuale. Un errore, perché almeno agli albori godeva dei più nobili natali, nientemeno che l’età dei lumi. Levatrice dell’ideologia è stata la Francia dei philosophes, come ha puntualizzato un grande studioso di quella temperie culturale come Sergio Moravia. Il termine faceva riferimento originariamente agli idéologues che, sul finire del Settecento, studiavano le idee e le loro applicazioni in morale e politica su basi materialistiche e sensistiche. Pierre Jean Georges Cabanis era il più noto, autore de “Rapporti del fisico e del morale dell’uomo” del 1802: una radicale reductio allo stato fisiologico dei più nobili prodotti della nostra mente. Il pensiero è succo gastrico del cervello e la morale il frutto d’una digestione di dati sensibili come il sesso, l’età, la dieta, lo stato di salute.
Studiosi che andavano al concreto, da cui poi Schopenhauer ha attinto a piene mani. Locke, Helvetius, Condillac i padri teorici dell’operazione. Eppure Napoleone li squalificava (perché repubblicani), e affibbiò loro l’ingiusto epiteto di “tenebrosi metafisici”. Da lì il termine ideologia scadeva nella valenza peggiorativa di dogmatismo e ciarpame dottrinario. Il termine paradossalmente si è convertito nel suo contrario, e da quel momento in poi chi voleva rintracciare nella materia la genealogia delle idee, etimologicamente parlando, non era più un idéologue, ma un critico dell’ideologia.
E qui arriviamo a Marx, uno dei più grandi autori di tale sforzo. Il cielo delle idee è la coltre oppiacea che maschera i reali rapporti di dominio, la storiella a uso e consumo dei vincitori. L’elemento marxiano è la malafede, il gioco a vincere dell’allontanamento dal vero di chi ha l’interesse di presentare i rapporti di forza instaurati alla stregua di un destino. Opera di un’autentica scienza del reale è invece scuotere le datità, ribaltarle, sparigliando tutte le carte, squarciando le cartapeste d’idealità, andando alle strutture concrete. Scriveva Marx nel Manifesto: «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti». L’obiettivo polemico notoriamente è Hegel, i suoi capovolgimenti, le sue false sintesi dialettiche pro borghesia. La critica della sovrastruttura idealistica è una delle analisi più affascinanti di Marx, ripresa e sviluppata da Lukács e dalla Scuola di Francoforte. Eppure è proprio qui che s’incorre nel paradosso. L’obiezione a Marx, osserva tra gli altri Francesco Saverio Trincia, è che la critica dell’ideologia è essa stessa ideologia, contraddicendosi nell’affermarsi come vera versione dei fatti.
Da una parte c’è la massa dei tranquilli, gli ingenui ipnotizzati e alienati. Dall’altra, l’élite di illuminati usciti dalla caverna, di realisti al di là del bene e del male. La partita post-ideologica si gioca proprio su questa presunzione: essere veri scienziati (e Marx si considerava alleato della scienza tanto da dedicare il Capitale a Darwin, come ricordato da Luciano Pellicani) significa scendere a livello dei contrasti del reale, confrontarsi con i fatti nascosti da velo di Maya.
Marx, Freud, Nietzsche: la vera conoscenza parla da “dietro”, spazzando via i mondi apparenti, le sintesi superiori, indagando in modo neutrale su “come stanno le cose”. Il problema, ridotto all’osso, sta proprio nel concetto di oggettività. Questo preteso éclaircissement non può celare un colpo di Stato militare sotto mentite spoglie teoretiche? Non sarà un raffinato artificio della parte per porsi come tutto? Non prepara un ancor più infingardo, perché più sottile, dispositivo alienante? Il problema è che, nel proclamare dettami disinfettati dalla logica borghese, si corre il pericolo di proporre il nuovo Pensiero Universale della prassi storica, nota Luciano Pellicani. E su questa linea, Roberto Finelli propone il correttivo gramsciano alle tesi di Marx, che poi è lo stesso di un altro grande estimatore e critico del filosofo di Treviri, Benedetto Croce: l’inconcepibilità di un pensiero oggettivo e neutrale. Gramsci è più rigoroso nel riabilitare la nozione di ideologia come pensiero che produce non nubi di falsità, bensì sistemi coerenti ed epistemicamente dignitosi, facenti capo, però, a un orizzonte parziale e soggettivo. L’imparzialità è la vera malafede, essendo la politica dell’idea un’opera di presa di coscienza gnoseologica mirante alla formazione di collettivi consapevoli.
Il presupposto anti-ideologico, nota Augusto Illuminati, è in fondo la stessa postura nascosta negli attuali discorsi tecnocratici, assimilabili a una versione up to date dei fisiocratici francesi e delle teorie sul “dispotismo illuminato”. Oggi l’ipostasi indiscussa non è più la natura ma l’espertocrazia del salvare. There is no alternative, è la grande narrazione auto-legittimante. Una volta depurati i posti di comando dagli orpelli ideologici e dalle istanze di parte, il governo è faccenda burocratica, si tratta di oliare i meccanismi. E i migliori interpreti di tale corso naturale non possono che essere gli economisti e i “tecnici”, da individuare per via meritocratica contando i brevetti e il numero di citazioni su riviste specialistiche (possibilmente anglosassoni).
Cantare, con Fukuyama, la fine delle ideologie non è che una prestazione ideologica assai raffinata. La nostra era neocapitalistica globale per Diego Fusaro è il tempo più ideologico, calza appieno cioè la definizione di Marx nell’autogiustificarsi come fatale. Capitalismo sive natura, ovvero comoda sottrazione alla critica e alla storia. Jacques Bidet ha usato il termine criptologie per indicare l’ideologia che affossa i suoi presupposti, che si “naturalizza” aggirando la contraddizione. In fondo, osserva Stefano Petrucciani, è l’obiezione sotto cui cade ogni messaggio che celi la sua provenienza soggettiva, ogni pacificazione ideale che nasconda la genetica dei conflitti d’interesse e della lotta tra diverse egemonie.