Articolo uscito sulla rivista «Il Mulino».
Il pezzo di Carlo Galli è la più brillante formulazione che sinora abbia letto dei giudizi, e soprattutto dei pregiudizi, ostili alla candidatura di Matteo Renzi a segretario del Partito democratico. Come direttore di questa rivista (Il Mulino, ndr) gli sono grato: il dibattito interno al Pd (come quello interno al Pdl… se ci fosse) è importante per il destino del nostro paese e non tollera reticenze diplomatiche: così scrivevo nell’editoriale del numero del Mulino ora in libreria a proposito di un articolo di Antonio Funiciello, un altro pezzo brillante, polemico e in radicale contrasto con quello di Galli. La nostra rivista si propone di dare un ampio spazio alle diverse posizioni politiche che oggi si confrontano nel Pd e anche di discutere dei caratteri personali dei candidati che le rappresentano. Sarebbe però opportuno, e più utile al lettore, se in questo dibattito la riflessione facesse premio sulla polemica e sulla ricerca di brillantezza retorica, e se venissero messi a fuoco in modo pacato i cinque temi sulla base dei quali la scelta di un candidato dovrebbe essere fatta.
Il primo è l’orizzonte ideologico-culturale al quale il candidato si iscrive. Nel caso di Renzi mi sembra chiaro: è il liberalismo di sinistra, e, se il sindaco fiorentino fosse un accademico come Galli e me, non farebbe fatica a giustificarlo. Dopo la crisi teorica del marxismo, il collasso del comunismo e le difficoltà delle socialdemocrazie tradizionali, questa è la posizione politicamente e intellettualmente dominante nelle sinistre di governo dei paesi industrialmente avanzati: tanta eguaglianza delle opportunità quanta è possibile raggiungere nel contesto internazionale in cui viviamo e nelle circostanze concrete in cui un governo opera.
Circostanze concrete, dunque un’analisi spietata della situazione italiana e delle proposte di riforma per migliorarla: questo è il secondo tema sul quale si debbono confrontare i diversi candidati. Molte di queste proposte saranno inevitabilmente comuni tra tutti i candidati, ma altre no: e soprattutto quel che manca, ma meno a Renzi che a tutti gli altri, è una narrativa affascinante in cui incastrare i singoli pezzi, un’idea di Italia come grande paese, civile ancor prima che prospero. Quell’idea di Italia che Veltroni era riuscito a dare nel suo discorso del Lingotto. O un’idea diversa, ma che riesca a tenere insieme aspirazioni individuali diffuse, fascino culturale e realizzabilità.
Il terzo grande tema è quello della ricostruzione del sistema politico italiano, a cominciare dalle sue regole elettorali e costituzionali. Data la sua urgenza – è uno dei compiti del governo Letta –bisogna essere chiari, sia sulle riforme immediate, sia su quelle a lungo termine: Costituzione sacra e inviolabile, alla Rodotà, o modifiche significative, sino al semipresidenzialismo francese? Qui non vedo per Renzi, un bipolarista convinto, difficoltà maggiori di quelle che dovranno affrontare i suoi avversari. Nessuno per ora scopre completamente le sue carte, ma dovranno pur scoprirle per il congresso.
Il quarto tema – il partito – è parte del terzo, della ricostruzione di una democrazia decente dopo i guasti del bipolarismo assatanato degli ultimi vent’anni. Data la sede in cui si svolgerà il dibattito, questo sotto-tema sarà quello dominante, come già si vede dalle bordate che Carlo Galli spara contro Matteo Renzi. Sia ben chiaro, anche a me piacerebbe l’alternativa “lunga, complessa e responsabile” che Galli disegna nel penultimo capoverso del suo articolo. Ma è mai il partito stato quella cosa lì, o in passato è stato l’oligopolio collusivo analizzato da Roberto Michels più di cent’anni fa? E può esserlo in futuro, nella “democrazia del pubblico” descritta da Bernard Manin? È in questa democrazia della televisione e dei social network che si confrontano i candidati alla segreteria e, mentre è apprezzabile ogni tentativo di rivitalizzare i circoli e forme di partecipazione di iscritti e simpatizzanti, bisogna rendersi conto che la personalizzazione della politica è arrivata per restare. L’importante è che nel partito operino sufficienti strutture di confronto da far coincidere le persone che poi dovranno esporsi al giudizio elettorale con progetti e visioni elaborate all’interno del partito, con (non troppo) diverse versioni del suo patrimonio ideale. Anche negli altri grandi paesi democratici la politica è fortemente personalizzata, ma i leader che emergono si sono formati nel partito- come Renzi- e non emergono dal populismo antipolitico, come Grillo o Berlusconi, sintomo delle disgraziate condizioni del nostro paese.
Quinto tema, le persone, i candidati leader, gli uomini e le donne con la loro età, la loro storia, le loro competenze, i loro tratti caratteriali. Persone in carne ed ossa non freddi avatar di idee e programmi. Anche l’attenzione per le persone è destinata a restare, ma va mirata nel modo più obiettivo possibile, e possibilmente in un contesto comparativo. A Carlo Galli Matteo Renzi – anche personalmente, mi pare – non sta molto simpatico. Come persona o come avatar? Gli sta più simpatico Civati, non così diverso da Renzi come stile comunicativo? O Cuperlo, che io trovo persona deliziosa, ma anche perfetto esemplare dell’Ancien Régime? E si è chiesto Galli perché nei rumors che circolano non è mai nominato Fabrizio Barca, di gran lunga la persona più affascinante e competente tra coloro che ancora sperano che il partito tradizionale sia salvabile?
E’ la migliore difesa possibile di Renzi e del suo ruolo. Un po’ amara nel suo rassegnato realismo. Dobbiamo dare per scontati – dice Salvati – la personalizzazione della politica ma anche il dominio della TV e dei social media nella costruzione dei leader. Io mi chiedo però se almeno il partito non debba essere “salvato” da questo. E se l’equilibrio fra leadeship e intelligenza collettiva non sarebbe meglio realizzato in un assetto che candidi Renzi al governo ma altri alla segreteria. Già perché Barca non è nominato? Qual è la risposta di Salvati?