Freddo, malattie, cellule jihadiste: l’inverno da incubo dei curdi

L’operazione militare turca nel nordest della Siria, denominata “Sorgente di pace”, lanciata il 9 ottobre 2019, ha provocato l’esodo di oltre 200.000 persone e la morte di circa 90 civili, secondo i dati della Mezzaluna curda che opera all’interno della Siria.

Decine di migliaia di agricoltori curdi-siriani della Rojava si sono rifugiati con le loro famiglie nel nord dell’Iraq. Oltre 12.000 curdi-siriani sono attualmente al riparo nel campo di Bardarash, vittime dell’offensiva turca. Quasi la metà di essi è costituita da bambini. Bardarash è una città situata nella regione del Kurdistan iracheno, nel Governatorato di Dohuk, a 70 km a nord di Erbil e a 32 km a nordest di Mosul. La sua popolazione è in prevalenza curda e sunnita.

La Barzani Charity Foundation, un’organizzazione non governativa locale fondata dall’ex primo ministro del governo regionale del Kurdistan, Masrour Barzani, gestisce il campo insieme all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Ai nuovi arrivati vengono forniti pasti caldi, cherosene e coperte.

Letizia Gualdoni, un’infermiera di Médecins sans frontières che gestisce il campo, ne ha denunciato la carenza di personale medico e l’inefficienza delle strutture sanitarie. Con l’arrivo dell’inverno, con i problemi di riscaldamento che comporta e con le gravi carenze igienico-sanitarie denunciate, gli ospiti del campo manifestano chiari segni di squilibrio mentale, sostiene.

La regione del Kurdistan iracheno è ancora ad alto rischio di infiltrazioni di esponenti del Daesh e il direttore del campo, Botan Salahaddin, denuncia il fatto che cellule dormienti dell’ISIS potrebbero infiltrarsi tra i rifugiati.

Gli ospiti del campo accusano la Turchia, e in particolare il presidente Erdoğan, di aver causato sofferenze immani alla popolazione della Rojava costretta ad abbandonare le proprie case e la propria terra e costretta a vivere rannicchiata in tende precarie, esposte a forti venti e piogge.

Gran parte dei rifugiati ha dovuto pagare 400 dollari ai trafficanti per attraversare il confine iracheno e mettersi in salvo. Molti di loro raccontano di aver perso tutto e di essere fuggiti portando con sé solo figli e parenti.

 

Processo fallito

Erdoğan fu il primo leader turco ad aprire, ormai più di un decennio fa, ai curdi e ad avviare colloqui di pace diretti con Abdullah Öcalan, il leader carismatico imprigionato del fuorilegge Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

Öcalan diresse una campagna di guerriglia contro l’esercito turco dalla Siria fino dal 1998, inizialmente per l’indipendenza curda e poi per l’autonomia, fino a quando fu espulso dal regime di Damasco e poi catturato a Nairobi, in Kenya, nel 1999. Il gruppo è ora etichettato come organizzazione terroristica sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Europea.

Il crollo del processo di pace per la risoluzione della questione curda, avviato nell’estate del 2015 dal governo turco con il vertice del PKK, è all’origine del sanguinoso sconvolgimento degli ultimi mesi che ha visto gli USA redistribuire le proprie forze a sud della regione della Siria nordorientale che i curdi chiamano Rojava. Gli Stati Uniti abbandonando il nordest della Siria hanno consentito ai turchi di dare il via alla loro offensiva militare.

Da allora i curdi hanno stretto un accordo con la Russia e con il regime di Assad accettando di ritirarsi a 30 km a sud del confine turco riuscendo così a conservare un controllo, seppur ridotto, di quel territorio grazie alla presenza, in particolare nell’area di Deir Ez-Zor, di basi americane.

Ma la stabilità che un tempo prevaleva nella zona protetta del nordest della Siria dagli Stati Uniti e dai curdi è stata compromessa e ne stanno approfittando le cellule dormienti dell’ISIS che si riorganizzano per sferrare isolati, ma micidiali, attacchi.
Sicurezza o sradicamento?

L’offensiva turca ha inteso sradicare dal nordest della Siria le Unità di protezione del popolo (YPG) che godevano del sostegno USA per stabilire lungo il confine sudorientale della Turchia una cosiddetta zona di sicurezza dove trasferire almeno uno dei quattro milioni e mezzo di rifugiati siriani che sono ospitati nel paese.

Gran parte dei curdi-siriani della Rojava sono convinti però che l’obiettivo della Turchia sia quello di sradicare completamente i curdi dalla regione reiterando l’agghiacciante campagna di pulizia etnica, denominata “Cintura araba”, portata avanti da Hafiz al-Assad, leader del partito Baath della Siria negli anni ’70, padre dell’attuale presidente Bashar al-Assad.

Quella campagna faceva parte di un progetto di arabizzazione che prevedeva la costituzione di un cordone di sicurezza lungo 275 chilometri che si estendeva lungo il confine turco per una profondità di 15 chilometri e ora la Turchia vuole espandere questa stessa fascia fino alla profondità di 30 chilometri.

Allora le terre curde furono usurpate dal regime e consegnate a migliaia di abitanti di etnia araba. Fu quello un vero e proprio progetto di sostituzione etnica.

Vi è da dire che ora l’attuale presidente Bashar al-Asad, nonostante condivida con Erdoğan la stessa posizione sull’irredentismo curdo, non vede di buon occhio l’intenzione del presidente turco di reinserire nel suo paese centinaia di migliaia di arabi sunniti gran parte dei quali hanno combattuto contro il suo governo.

Fino al momento dell’offensiva turca, le YPG non avevano mai attaccato apertamente la Turchia. Mentre il processo di pace era ancora in corso, alcuni leader curdi-siriani del Partito di unità democratica (PYD), la cui ala armata è costituita dalle YPG, come Ilham Ahmed e Saleh Muslim, avevano avuto frequenti contatti con le autorità turche. Ora Ankara sta facendo pressione sugli Stati Uniti e sull’UE affinché classifichino le YPG come organizzazione terroristica così come è avvenuto col PKK.

L’alleanza delle YPG con gli americani è nata nel 2014 a causa della riluttanza turca a combattere lo Stato islamico, avendo Ankara come priorità quella di scongiurare la formazione di uno stato curdo ai suoi confini sudorientali sostenuto dall’Occidente.

 

Crimini di guerra

Human Rights Watch ha confermato che, durante l’offensiva turca nel nordest della Siria, gruppi jihadisti del sedicente Esercito nazionale siriano (SNA), alleato della Turchia, “hanno compiuto esecuzioni sommarie, giustiziando civili” e che “non hanno ancora dato conto degli operatori umanitari scomparsi mentre operavano nella cosiddetta zona di sicurezza”.

In un rapporto del novembre scorso il gruppo di monitoraggio dell’HRW con sede a New York ha denunciato che l’SNA “si è anche rifiutato di consentire il ritorno delle famiglie curde sfollate a seguito delle operazioni militari turche, appropriandosi illegalmente delle proprietà della popolazione curda dopo aver saccheggiato le loro case”. Diversi curdi che avevano tentato di far ritorno nelle loro abitazioni a Serekaniye (Ras al-Ayn) – secondo HRW – sarebbero stati uccisi dai combattenti dell’SNA.

“L’esecuzione sommaria di civili, il saccheggio delle loro proprietà e il blocco degli sfollati per impedire loro di far ritorno nelle proprie case sono una prova schiacciante del motivo per cui la ‘zona di sicurezza’ proposta dalla Turchia non sarà affatto una zona sicura”, ha affermato Sarah Leah Whitson, direttore per il Medio Oriente di Human Rights Watch.

Dunque, contrariamente alla narrazione della Turchia secondo cui la loro operazione creerà una zona di sicurezza stabile, si teme che coloro che amministreranno quel territorio, essendo rappresentanti dell’SNA, possano compiere discriminazioni per motivi etnici.

Funzionari delle YPG affermano che dell’SNA facciano parte gruppi di jihadisti radicalizzati, tra cui ex combattenti dell’ISIS. Affermazione questa che è stata confermata dall’Osservatorio siriano per i diritti umani con sede a Londra e da alti funzionari curdi iracheni.

Prima che scoppiasse il conflitto civile in Siria nel 2011, Erdoğan aveva aperto la strada a una politica di frontiera aperta che vedeva le famiglie curde e arabe, divise dopo la caduta dell’Impero ottomano, attraversare insieme a piedi la Turchia per recarsi in Siria durante le celebrazioni di fine Ramadan ed era possibile allora osservare scene di fratellanza lungo la linea di confine: siriani lanciavano pacchetti di tè dalla frontiera in Turchia e turchi rispondevano lanciando scatole di delizie turche (i famosi lokum).

Il confine era aperto. I legami commerciali erano intensi. Il turco divenne la lingua franca per i siriani che divoravano le telenovelas turche e si iscrivevano alle università turche. Ora vi è un muro di 764 chilometri, il suo scopo è quello di tenere fuori le YPG.

 

Foto: Zaid Al-Obeidi / AFP

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