Non è cosa da tutti i giorni il veder sorgere una nuova rivista di filosofia apertamente rivolta all’“international scene”, in particolare se si pensa al dibattito italiano e alla sua triste deriva mediatico-personalistica. Se a questo si aggiunge il fatto che il periodico in questione è diretto da un gruppo di giovani studiosi, non si può non salutare con favore il primo numero di Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age, edito dalle Edizioni di Storia e Letteratura e coordinato da Federica Buongiorno. Il fine del “magazine” è, seguendo quanto scrive la redazione, quello di dare vita ad uno strumento – per la precisione una “mappa” – che sia utile a orientarsi nella difficile navigazione dell’acque “interne” della “dimensione storica” propria al pensiero filosofico. Si tratta, quindi, di un progetto rivolto a confrontarsi con la problematica posta in essere dal rapporto che il pensiero intrattiene con il (suo?) passato.
A riguardo l’intento – legittimamente ambizioso – sembra essere quello di voler riaprire criticamente i conti con le vecchie mappe che impediscono di superare i confini del nostro tempo. Il tema con il quale “Azimuth” ha scelto di iniziare a portare avanti tali significativi obiettivi è “Il dominio dell’umano. Frontiere antropologiche tra moderno e contemporaneo” (I 2013, nr.1). Nel numero in questione, a cura di Simone Guidi e Antonio Lucci, si affronta la trattazione dei “punti limite” del discorso antropologico della modernità, con l’intento di mettere in luce come ogni “teoria della natura umana” finisca per guardare oltre l’umano. Infatti, definendo la grammatica interna e la logica costitutiva propria a quella “combinazione di forze comunemente conosciuta come uomo”, si coglierebbe anche il suo punto di alienazione, il momento in cui il “dominio dell’umano” viene meno. In merito si potrebbe quasi parlare di una “controstoria” filosofica dell’antropologia moderna, volta a mostrare i limiti e i paradossi messi in piedi dalla, tentata, costruzione/individuazione di ciò che è proprio all’uomo.
Una storia che, terminando con il concetto di “post-umano”, appare infine inerpicarsi sul sentiero della soluzione propria al dualismo tra “Natura” e “Spirito”, secondo un pensiero rivolto a cancellare l’ “illusorietà” di un umano che viene non solo “detronizzato” ma, più propriamente, dissolto nella sua appartenenza biologico/evolutiva (si vedano gli ultimi due saggi dedicati al tema del “post-umano”). Le tappe indicate per l’individuazione di tale percorso sono sostanzialmente quattro : 1) Il dibattito seicentesco attorno alle posizioni cartesiane che farà della fisiologia -e della interconnessa medicina- un motore fondamentale del discorso sull’uomo finendo così per rimettere in questione il rapporto tra uomo/macchina e uomo/animale (saggi di Delphine Kolesnik-Antoine, Nunzio Allocca e Paolo Lombardi); 2) la nascita, in diretta polemica con il precedente sapere medico-fisiologico, dell’antropologia pragmatica kantiana e i suoi sviluppi critici (saggi di Riccardo Martinelli, Vallori Rasini e Mariapaola Fimiani); 3) La discussione delle tesi di Darwin (il contributo di Marco Mazzeo) 4) Un’analisi critica del “postumanesimo” e del “postumano” (articoli di Fabio Polidori e di Giovanni Leghissa).
A queste tappe si aggiungono due interessanti articoli “ponte”: uno di Franck Tinland sull’antropomorfismo animale e sull’animalità umana tra il 17° e il 18° secolo e l’altro di Maria Teresa Pansera sulla riflessione di Arnold Gehlen relativa alle radici dell’etica. Sarebbe, per evidenti ragioni di spazio, impossibile in questa sede discutere nel merito i contenuti di ogni singolo articolo mentre, anche alla luce dell’intento dei curatori, sembra opportuno spendere qualche parola sulla linea complessiva sviluppatasi in questo numero. Infatti la mappa disegnata dalle tappe sovra-elencate evita di segnalare alcuni “scogli” teorici che invece potrebbero essere interessanti, in via contrastiva, per esaminare il contenuto del numero. Si tratta di un’operazione legittima da parte dei curatori – non si può parlare di tutto e si devono fare delle scelte argomentative – su cui, tuttavia, ci si soffermerà al fine di fornire brevemente, si spera, un qualche contributo critico alla discussione. Infatti spesso le assenze, come aveva ben compreso Miles Davis, sono più significative delle presenze. Innanzitutto discutendo del dominio dell’umano appare interessante notare come non si sia affrontato tutto il discorso sulla “degenerazione” dell’umano, che, si badi, non coincide esattamente con quello del passaggio dall’umanità all’animalità e viceversa. Infatti i confini dell’umano possono essere, all’interno della storia del pensiero, anche dei confini “interni”, ovvero connessi ad un mutamento peggiorativo dell’uomo che viene a definirsi come inferiore e in via di allontanamento – etimologicamente ciò che si allontana dal suo genere – rispetto a un modello originale proprio allo stesso. Un uomo di “serie B”, quindi, a tratti più vicino all’animale che all’uomo di “serie A” ma pur sempre dotato di qualche elemento di umanità, “degenerata” per l’appunto.
A riguardo un recente volume di Mauro Simonazzi – Degenerazionismo. Psichiatria, Eugenetica e Biopolitica, Mondadori, 2013 – mette ben in luce la storia di questa corrente di pensiero evidenziandone criticamente il legame con la filosofia, l’antropologia, la psichiatria, la biologia, la criminologia e la politica. Si tratta di un’assenza interessante nell’economia del numero in questione perché – al di là di ogni sacrosanta stigmatizzazione di tale prospettiva teorica nei confronti dell’umano – sposta l’accento dell’analisi critica dal discorso sulla degenerazione/rigenerazione (ancora molto seguito da autori come Foucault in chiave genealogica) a quello sulla problematicità di una distinzione esterna tra “uomo” e “non uomo” (animale, macchina, ecc.) che sembra perdere, sciogliere, ogni confine mettendo in crisi lo stesso rapporto esterno tra i due. Infatti non vi è esterno senza interno : se un contenuto esclusivamente proprio all’umano viene messo in questione, salta anche il discorso sull’animale e sulla macchina e si entra, simultaneamente, in un universo concettuale che deve fare in conti con il tema del “postanimale” e della “postmacchina”.
Arrivando al tema del “postumano” si sfumano, dunque, i confini tra questi ambiti (umano, animale, macchina, ecc.) con l’apertura di uno scenario problematico che, pur restando agambenianamente “aperto” a diverse soluzioni, rappresenta un’autentica sfida filosofica nella misura in cui nella rete di interazioni tra uomo e non uomo si perdono i termini di riferimento, i nodi stessi della rete, destinati (?) a svanire nel flusso delle interazioni tra gli stessi. Un’altra interessante assenza è quella della prospettiva volta a indicare nel tema dell’alienazione e dell’estraneazione – con le loro molteplici e a volte contraddittorie sfaccettature – le possibilità di trasformazione, di realizzazione e di “divenir altro” dell’umano. In tal senso l’utilizzo di questi concetti – praticato in maniera distinta, ma non disgiunta, da una serie di autori quali Rousseau, Hegel, Feuerbach, Marx, Fromm, Lukacs, Morin, Jaeggi, ecc. – permette di evidenziare come il “dominio dell’umano” venga definito e ridefinito a contatto con la società. Infatti, come ha spiegato anche di recente Axel Honneth, ciò che emerge tramite questo approccio è una “determinazione dell’umano” che, indipendentemente dal suo connotarsi come “essenzialistica” o meno, presuppone il ruolo centrale della socialità, del quadro relazionale in cui – a seconda degli indirizzi teorici – si aliena, si riconquista o si crea la propria umanità.
Anche in questo caso si ha a che fare con una frontiera “interna” dell’umano – la società, i rapporti sociali – che, tuttavia può produrre un autentica “Entfremdung” : un farsi “straniero” dell’uomo a se stesso che lo porta a comportarsi e a sentirsi come un non-uomo (si pensi alla pagina dei “Manoscritti” di Marx in cui “ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale”). Inoltre molti di questi autori – es. lo stesso Marx, Morin, ecc. – non si limitano a concentrarsi su questo fondamentale legame dialettico dell’“umano” con la società, ma pongono in relazione con la stessa natura biologica e fisica dell’uomo mettendo in luce come il discorso sull’ “umano” sia incomprensibile qualora si dissoci l’aspetto culturale/sociale da quello naturale/biologico. Lo stesso emergere di un giudizio etico – aspetto proprio al solo Homo sapiens sapiens, con buona pace di John Gray – sarebbe stato, infatti, impossibile senza la relazione tra società, individualità e specie (Edgar Morin).
L’assenza di questa prospettiva è, quindi, importante in quanto fa vedere come l’accento posto nel numero in questione sia di tipo differente : incentrato non tanto sulla valutazione delle possibilità e dei rischi trasformativi che la società – ovvero l’uomo stesso tramite la sua relazionalità e la sua volontà – mette in moto sull’ “umano”, quanto sulla genesi e sui nodi teorici di un importante indirizzo transdisciplinare, che avendo radicalmente problematizzato e poi abbandonato il riferimento “umanistico” si trova ancora in alto mare – come si intuisce dalla conclusione dell’articolo di Giovanni Leghissa – nell’elaborazione “di una cornice filosofica adeguata per dare un senso ad uno scenario non più solo umano che comprende uomini, animali di altre specie e artefatti” (pag. 193).
Proprio per questo, a modesto parere di chi scrive, la mappa pregevolmente proposta da “Azimuth” ci mostra un tragitto – una delle possibili rotte inerenti al “dominio dell’umano” – su cui appare attualmente difficile scegliere di viaggiare, non fosse che per la (momentanea?) assenza di una precisa destinazione. Il che non toglie che si tratti di un “work in progress” che su un punto sembra mostrare un preciso orientamento, sia pur “critico”: rimettere in discussione non tanto “l’umanesimo” o un’“emergenza” capace di caratterizzare “ontologicamente” l’uomo, quanto l’esistenza stessa di un “post-umano” il cui più grande e paradossale cruccio sembra proprio essere quell’ “umano” senza il quale esso stesso non si sostanzierebbe. Ciò detto non ci si può esimere dal sottolineare come questo primo numero della rivista in questione lungi dal chiudere la discussione sul “dominio dell’umano” ne abbia finemente messo in luce alcuni punti critici contribuendo, conseguentemente, ad alimentarla e a sostenerla. Si tratta, infatti, di un merito “filosofico” da porre in evidenza, soprattutto nei confronti di chi si propone di aprire la strada ad una “new and antilinear form of progress” in un tempo caratterizzato da una refrattarietà endemica al confronto, in specie su tematiche così delicate. Non resta, quindi, che leggere il prossimo numero di “Azimuth” per vedere come quest’istanza sarà perseguita in futuro.