Le forze in campo a Denver, nella notte del primo dibattito televisivo in vista delle elezioni americane del 6 novembre, non erano due soltanto. In difesa della realtà dei fatti, contro la retorica del candidato repubblicano, Mitt Romney e contro quella dell’attuale Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, testate come la Cnn e siti come Politifact.com o Factcheck.org avevano schierato le loro squadre di fact checkers.
I fact checkers sono i controllori dei fatti, una declinazione antica del giornalismo rispolverata durante la corsa alla Casa Bianca di quattro anni fa, dopo che la crisi del settore dell’editoria e i conseguenti tagli alle redazioni sembravano averla mandata in pensione definitivamente. Nati negli anni venti del Novecento, in contemporanea con la nascita dei grandi settimanali americani – come Time o New Yorker – i fact checkers hanno svolto per molti anni un importantissimo lavoro di retroscena, verificando le notizie di ogni articolo prima che finisse in stampa. Dai dati numerici ai particolari, talvolta perfino irrilevanti, i fact checkers si preoccupavano di ripercorrere al contrario la strada compiuta dal giornalista, ritornando dalla carta alla realtà per garantire al lettore un’informazione corretta nella forma e nel contenuto – e per evitare alla testata spiacevoli figuracce.
Tant’è che, quando si iniziò a considerare i fact checkers delle figure superflue all’interno delle redazioni e si passò il compito di verifica all’autore stesso, il cambiamento non passò inosservato. Nel maggio 1997, Newsweek fu costretto a ritirare in fretta e furia centinaia di migliaia di copie dell’edizione speciale intitolata Your Child, all’interno del quale si trovava un articolo che sosteneva che si potessero cibare i bambini fino a cinque mesi con tocchetti di carota cruda e fette biscottate.
Poi arrivò l’intuizione di un corrispondente da Washington dell’allora St. Petersburgh Times (oggi Tampa Bay Times). Nel 2007, in preda a una crisi d’identità professionale, Bill Adair si presentò ai vertici della testata per chiedere di seguire a modo suo la campagna elettorale per la Casa Bianca. Nessuna presenza ai comizi, nessuna intervista, nessun “lui dice questo, l’altro dice quello”. Quello che Bill Adair voleva fare era ritornare alle origini del giornalismo e verificare i fatti: non quelli riportati dal suo quotidiano, ma quelli sbandierati dai candidati per fare impressione sugli elettori. Così Politifact.com – il sito nato dall’idea di Adair – ha contribuito a una rinascita e a una rivisitazione del fact checking che, da un’operazione di pignoleria da dietro le quinte dei giornali, si è trasformato in nuova forma di giornalismo di inchiesta.
Da allora il fact checking ha messo radici sempre più forti online, traendo da Internet la sua linfa vitale. Non solo infatti la Rete si è imposta come luogo deputato a una controinformazione rispetto a quella spesso raccontata sui giornali – di carta o digitali – ma, nella sua veste di archivio ha permesso di velocizzare la pratica lenta e scrupolosa della verifica, dalla ricerca al confronto dei dati. Senza la Rete, ad esempio, non sarebbe stato possibile un fact checking, pressoché in diretta, come quello svolto da diversi siti di informazione, durante il dibattito tra Barack Obama e Mitt Romney, lo scorso 3 ottobre.
Il New York Times ha dedicato una ventina di redattori alla verifica fattuale “aggressiva” – come l’ha definita Margaret Sullivan, ombudsman della testata – e in tempo reale, che ha fatto largo uso di grafici e di dati controllati anticipatamente per accelerare il lavoro. L’hanno presentato come “il fact checking più ambizioso che abbiamo mai fatto” e così deve essere stato, con 30 post pubblicati in un live blog di due ore e mezzo. La Cnn ha coperto il dibattito alternandolo agli interventi di esperti e analisti che hanno riscontrato in diretta tv i numeri citati dai candidati. Anche Politifact ha fatto un live fact checking del dibattito di Denver, aprendo all’interazione con il pubblico che ha potuto suggerire temi e dichiarazioni da controllare, via email e Twitter, attraverso l’hashtag #PolitiFactThis.
All’indomani dell’incontro, la portavoce della campagna elettorale di Obama Jen Psaki si è lasciata scappare la battuta: “Fact checkers are having a good day today”. E in effetti, di lavoro ne hanno avuto abbastanza. Factcheck.org, una delle prime piattaforme a trasportare su Internet la verifica fattuale dell’informazione ha scritto sul sito: “Esagerazioni e false dichiarazioni sono volate da tutte le parti durante il primo dibattito tra il Presidente Obama e il suo avversario, il repubblicano Mitt Romney”. E il suo verdetto sulla sincerità dei candidati, ha ribaltato quello dei sondaggi. Il lavoro dei fact checkers ha messo in luce il prevalere generale della retorica sulla realtà dei fatti, permettendo anche di chiarire chi e come aveva tentato di colpire l’avversario sotto la cintura – pensando che l’arbitro non l’avrebbe visto.
“Romney ha diverse volte dimostrato una tendenza all’esagerazione”, scrive Factcheck.org che prosegue con un’analisi attenta delle parole usate dal candidato repubblicano per fare colpo sull’elettorato. Un esempio per tutti: “Ha detto che, con la nuova legge, ‘fino a’ 20 milioni potrebbero perdere l’assicurazione sanitaria citando uno studio del Congressional Budget Office che in realtà stima il numero verosimile di coloro che potrebbero perdere la copertura pagata dal datore di lavoro tra i 3 e i 5 milioni.”
Quasi rivendicando la differenza tra giornalismo equidistante e oggettivo e con la convinzione che riportare – consapevolmente o meno – una bugia è automaticamente schierarsi dalla parte di chi quella bugia l’ha pronunciata, i fact checker scesi in campo durante il primo dibattito tra i candidati alla Casa Bianca si sono messi nel mezzo tra i due uomini politici e il dato reale. Eppure è un magazine come Time – che per primo istituì la figura del controllore dei fatti nel 1923 – a mostrare una certa forma di scetticismo nei confronti della trasposizione politica del fact checking. Non solo infatti, giudicare un candidato più ingannevole dell’altro può comportare una sorta di automatico o implicito endorsement per il personaggio apparentemente più sincero. Il rischio principale è quello di eliminare le sfumature rappresentate dalle tematiche, di dare alle bugie lo stesso peso, limitando il risultato finale a una media aritmetica, dove una balla sul beniamino della tv per bambini Big Bird pesa quanto una sull’aborto.
Ad ogni modo, è difficile dubitare che il fact checking non possa che migliorare il dibattito politico.
In Italia, in vista delle amministrative della scorsa primavera, a Genova, un gruppo di studenti universitari ha dato vita al Politicometro. Sulla falsariga di Politifact, il Politicometro è nato in periodo di campagna elettorale per scrostare il discorso politico dalle menzogne e riportarlo pulito ai cittadini. Lo ha fatto inizialmente a livello locale, mescolando al lavoro di scavo l’appetibilità visiva di un termometro che cataloga i verdetti da “vero” a “balla colossale”. Pur non tralasciando la verifica delle dichiarazioni dei politici locali, la squadra del Politicometro ha iniziato a controllare le parole di deputati e senatori. Adesso l’ambizione è quella di fare le pulci ai candidati delle elezioni del 2013. Chissà se i politici saranno pronti.