Europa e Medio Oriente
Politica dello struzzo e declino strategico

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 9/2014 di Mondoperaio.

 

Poco più di tre anni fa un’ondata di movimenti insurrezionali ha attraversato parte del mondo arabo, riuscendo a rovesciare i regimi di quattro paesi – in successione, Tunisia, Egitto, Libia e Yemen – ed a scuotere fortemente le basi di un altro regime dittatoriale, quello siriano. È stato inopinatamente il popolo a sciogliere l’irrisolto dilemma tra stabilità e democrazia che aveva fatto spesso chiudere gli occhi all’Occidente sulle gravi violazioni dei diritti umani da parte dei governi arabi e sulla mancanza di libertà politiche, privilegiando la stabilità, cioé gli affari e il quieto vivere. L’occidente, e soprattutto la Ue, incapaci di incoraggiare, con un impiego più intelligente del sostegno allo sviluppo, l’emergere in quei paesi dello Stato di diritto (in particolare il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge), non hanno capito che la mancanza di forze sociali e gruppi di interesse organizzati, se si fa eccezione dei movimenti islamisti, non avrebbe mai potuto permettere alle modeste formazioni partitiche esistenti di dar vita in tempi brevi ad un nuovo ordine politico-costituzionale. Senza contrappesi nella società – che si forgiano nel tempo e con i graduali progressi di ordine socio-politico in larga parte dipendenti dai diversi contesti storici – era impossibile che si potesse instaurare, quale sbocco delle sommosse popolari, un modello di democrazia conforme alle sollecitazioni o aspettative europee e americane. Era quindi normale che, sebbene fossero stati prevalentemente gli strati sociali più liberali a animarle, a trarne i frutti politici avrebbero finito con l’essere gli islamisti, i soli in grado di mobilitare in tempi rapidi le coscienze, grazie alla fitta rete delle moschee e al linguaggio, spesso artatamente politico, degli Imam, per la grande maggioranza delle popolazioni diseredate più familiare e vicino ai problemi del quotidiano.

Fatto è che Europa e Stati Uniti, presto delusi dalla svolta islamista, hanno proposto ben poco e realizzato male quello che sarebbe stato funzionale per facilitare una transizione verso lo Stato di diritto, che appariva forse l’opzione più praticabile, preferendo misurare o addirittura prefigurare gli sviluppi in quei travagliati paesi sulla base di modelli di democrazia estranei alle loro tradizioni (anche se va riconosciuto che lo Stato di diritto presuppone per la sua sostenibilità forme di democrazia, quali l’alternanza e libere elezioni). Non si è voluto accettare che modernizzazione non vuol dire necessariamente occidentalizzazione: l’affermazione dei diritti di cittadinanza e il rispetto della dignità della persona a prescindere da credo, sesso e razza non comportano necessariamente la subitanea abolizione della religione di Stato (Israele docet) o riforme sulla base esclusiva del diritto positivo.

L’occidente, insomma, sentitosi (o fingendo di sentirsi) tradito nelle sue ambiziose aspettative di conversione subitanea dei paesi islamici in democrazie liberali, ha voltato le spalle a popoli che avevano pagato un alto tributo di sangue per una vita più decente e l’avvento di regimi meno oppressivi e più aperti al soddisfacimento dei bisogni fondamentali delle classi più povere. Il risultato è stato di favorire, salvo in parte la Tunisia, un pasticcio istituzionale, con lotte talvolta sotterranee talvolta dichiarate tra i difensori del vecchio sistema (il «paese profondo») e i nuovi conservatori islamisti, senza por mano alle riforme sulla sfera dei diritti e delle condizioni sociali che la popolazione che era scesa in piazza sperava di ottenere.

È stato quindi inevitabile il ricorso alle misure di ordine pubblico e il «salvifico» ritorno a regimi forti sostenuti dalle Forze Armate; o peggio, come nel caso della Libia e in parte dello Yemen, lasciati preda della lotta settaria tra milizie di tribù diverse, in cerca del potere senza scorgere, almeno per ora, un discernibile orizzonte di consenso socio-politico. Non va peraltro sottovalutato il possibile effetto sulla popolazione delle mancate riforme in grado di dare contenuto concreto ad una migliore giustizia sociale e a ridurre l’enorme fossato tra la classi più agiate e quelle che vivono ai margini della sussistenza. Sono infatti in molti a osservare che il carico di rabbia e di ribellione è ancora presente nella popolazione e potrebbe trovare nuove espressioni di rivolta contro uno stato di cose che lasci inalterate le insopportabili ineguaglianze nel godimento dei diritti di cittadinanza o nelle condizioni di vita. C’è ora da attendersi che di fronte all’involuzione della regione, che rischia di diffondere la violenza e la forza delle armi come arbitre e protagoniste dei futuri assetti di potere di molti Stati, l’occidente apprenda la lezione e limiti i danni – anche per se stesso – di una politica internazionale del «doppio standard», troppo spesso incoerente e contraddittoria (come il diverso atteggiamento assunto nel caso della Libia e della Siria, o l’acquiescienza alla mancata soluzione della questione palestinese), dividendo i paesi della regione in buoni e cattivi, come avvenuto in passato, secondo parametri discutibili e contraddittori, ovvero secondo inopportune gerarchie tra credi religiosi.

Un tempo gli Stati Uniti rimproveravano all’Europa di non saper assumersi le proprie responsabilità, di scaricare sugli altri i propri problemi, trattenendo per sé i benefici di una progressiva liberalizzazione dei commerci e dei movimenti di capitale, in un quadro di sicurezza alla cui formazione gli europei erano molto spesso recalcitranti a partecipare: in pratica le potenze del vecchio continente erano accusate di non essere risks takers. La critica in parecchi casi era corretta: stigmatizzava ricorrenti egoismi nazionali e la tentazione sempre in agguato della beggar my neighbor policy che ancora oggi, sia pure sotto mentite spoglie, molti Stati, compresi quelli membri dell’Ue, perseguono. Un atteggiamento che, come oggi si vede chiaramente, ha impedito la definizione in seno all’Europa di una vera politica estera e di sicurezza comune, per non voler parlare della difesa, ancora fortunatamente in mano alla Nato.

Di fatto anche nella piega drammatica che hanno preso gli sconvolgimenti nell’area l’Europa continua, con la sua politica dello struzzo, a non «produrre» sicurezza (alla faccia della forte soft security funzionale al rafforzamento della sicurezza politica che con eccessiva generosità le viene accreditata), preferendo far pagare il prezzo del disordine internazionale agli Stati più esposti geograficamente alla valanga di flussi, drammaticamente crescenti, di coloro che fuggono dalle distruzioni della guerra, e talvolta – come nel caso dello «Stato islamico» e di Boko Haram – a veri e propri genocidi. Vediamo più da vicino qualche dato sul nuovo «pianeta» dei rifugiati e sfollati. Rivelando, il 20 giugno scorso, la cifra di 51,2 milioni di persone in fuga dai loro domicili per causa di distruzioni o persecuzioni, conflitti o violenze generalizzate, l’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati ha voluto mettere in allarme l’opinione pubblica internazionale, e di conseguenza i governi, sull’ampiezza di una crisi umanitaria che tocca sempre più la sicurezza degli Stati europei. La soglia di 50 milioni non era mai stata superata dal 1989, data della creazione dell’Agenzia, che ora funziona come un vero e proprio barometro del flagello umanitario, inquietante costante dei tempi che viviamo.

Rifletta dunque l’Europa, che non fa molto per correggere questo stato di cose che riguarda in primo luogo il Mediterraneo, ove sono morti dall’inizio del 1989 migranti che cercavano di raggiungere le coste europee. Sempre secondo le cifre fornite dall’Alto Commissariato dell’Onu, sono 1.600 i morti negli ultimi tre mesi, rispetto alle 1.600 vittime nei tre anni precedenti. Una situazione divenuta drammatica che richiederebbe, commenta l’Agenzia, una azione comune dell’Europa. Va qui aggiunto che per ammissione generale l’Italia è la più colpita in questo frangente storico, e Lampedusa è divenuta nei media internazionali sinonimo o meglio simbolo di tragedia umana. In particolare, il settimanale The Economist , in un recente servizio, definiva come le più terrificanti le morti che avvengono nel Mediterraneo nonostante l’operazione Mare Nostrum; e notava correttamente, anzi, come dall’introduzione da parte italiana dell’iniziativa umanitaria fossero notevolmente aumentati gli sbarchi (70 mila circa contro gli 8 mila nel primo semestre del 2013), con poco o nullo sostegno europeo. Oggi, invero, ci sono finalmente segnali concreti di un maggiore impegno dell’Ue nella sorveglianza delle coste e nelle operazioni di soccorso in mare: Frontex Plus dovrebbe rilevare in forma progressiva i compiti di Mare Nostrum. E tuttavia sarebbe un grave errore limitarsi a curare i sintomi anzicché le cause (i toni di vittoria in questi casi sono da evitare, perché potrebbero essere fuorvianti rispetto alla ricerca delle misure capaci di incidere sulle cause dei flussi).

Sul fronte dell’azione politica, in realtà, l’Europa, sorda alla logica della solidarietà, continua a muoversi in ordine sparso ed arranca con soluzioni tampone, con la Germania pronta ad azzannare i frutti della mondializzazione ma restia a lasciarsi coinvolgere in schemi di intervento che possono implicare anche lo strumento militare (che oggi anche il Vaticano ammette nei casi di cieca violenza sulle popolazioni inermi). E ciò al contrario della Francia e della Gran Bretagna, più sensibili ad una Unione europea capace di svolgere un suo ruolo ben discernibile nella scena internazionale. È chiaro che un’Europa così dimessa lascia il campo ad altri (Stati Uniti e Russia) per svolgere politiche in qualche caso più «di potenza» che non attente ai principi di giustizia internazionale. Politiche la cui inadeguatezza, va detto a chiare note, alimenta – insieme agli errori di gestione delle crisi, di cui si dirà più avanti – il ricorso al terrorismo e alla rottura violenta dell’ordine costituito (al Qaeda si è data sin dall’inizio il compito del «Cavaliere bianco» vendicatore dell’Islam umiliato dalla «spada» dell’occidente, piu’ esattamente americana).

Una resipiscenza dell’Ue è fondamentale e urgente, anche per dare credibilità al suo Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, oggi relegato a una posizione marginale e frustrante. Chi, nella stampa italiana, ha fatto l’esempio di Xavier Solana, precedessore di Lady Ashton, per indicare al contrario l’influenza che può esercitare nel ruolo la personalità e la competenza del prescelto sbaglia di grosso: poiché Solana era solo un opportunista vanaglorioso, che vendeva il debole al forte per la sua immagine, dando al primo mance, cioè aiuti effimeri, in cambio di illusioni, cioè danni permanenti; e nel contempo annuendo alle ragioni dei potenti da cui otteneva di essere subito ricevuto e complimentato (Abu Mazen sarebbe al riguardo un buon testimone se potesse parlare liberamente e senza calcoli di circostanza per ottenere qualcosa in più dal successore). La scelta della candidata italiana, l’attuale Ministro degli Esteri, Mogherini sembra in effetti premiare la linea pragmatico-realista della Lady Ashton, di cui si perderà presto il ricordo, piuttosto che quella decisamente sopra le righe di Solana.

Un modo per correggere tale situazione sarebbe di restituire ai governi nazionali i poteri erosi nel tempo dai tecnocrati che hanno saputo ritagliarsi competenze nella esecuzione dei nuovi Trattati, su cui i Parlamenti nazionali niente possono in sede di ratifica, essendo questa un atto considerato dovuto. Ancora nessuno ha indagato seriamente sui problemi creati in Italia dalla legge europea. Nella procedura gioca un forte ruolo l’esecutivo, e per esso la Pubblica amministrazione: quella italiana è apparsa meno in grado di altre di effettuare previe analisi di impatto dei progetti di Direttive che poi, appunto, divengono con passaggi quasi automatici leggi europee (siamo davvero sicuri di aver compreso il vero valore aggiunto di disporre di una forte lobby a Bruxelles e nel Parlamento europeo?). Del problema potrebbe occuparsi la nostra Corte Costituzionale, come ha fatto quella tedesca in materia di bilancio e di trasferimento di risorse nazionali (va detto che il nostro paese è contribuente netto dell’Ue, e il nostro Tesoro, a seguito del menzionato inadeguato esame del «previo impatto», è costretto a trasferire ogni anno dai 3 ai 5 miliardi di euro al bilancio Ue, una cifra cospicua negli attuali periodi di magra). Affrontando in maniera più coraggiosa le eccezioni di costituzionalità potrebbero essere riveduti i parametri della disciplina di bilancio che così come sono stati formulati sfuggono alla sovranità dei Parlamenti nazionali.

Altra misura urgente, che spetterebbe invece più ai governi di avviare col sostegno dei rispettivi Parlamenti, sarebbe l’approvazione da parte del Consiglio europeo di una decisione, da sottoporre al Parlamento europeo per la ratifica, in forza della quale vengano scorporate talune ben determinate spese per la sicurezza nazionale dal conteggio del limite del 3 % al deficit di bilancio, e in prospettiva per il pareggio di bilancio. In questo modo si darebbero indirettamente maggiori prospettive alla politica di sicurezza e difesa comune (di impatto oggi irrelevante sugli accadimenti mondiali), che potrebbe contare su di una maggiore adesione degli Stati membri a operazioni militari destinate a meglio tutelare la sicurezza internazionale. In pratica, come avviene nella Nato, si manterrebbe il carattere collettivo delle azioni Pesc con graduazioni delle posizioni nel Comando e controllo a seconda della consistenza dei contributi in termini di contingenti militari (solo in una siffatta ipotesi Mrs. Pesc, se dotata del dovuto prestigio e capacità, che vengono in gran parte da esperienze di successo, avrebbe peso).

Oggi sia il nostro Presidente del Consiglio che il Capo dello Stato francese ed il Presidente della Bce insistono nel precisare che le loro richieste di sostenere la crescita rientrano nelle flessibilità già previste dai Regolamenti. Ma ciò potrebbe semmai essere il risultato finale, mentre apparirebbe più consono alzare le richieste per liberare risorse non solo per la crescita ma anche per la sicurezza internazionale, che incide sempre di più sullo sviluppo mondiale, sugli interessi nazionali (caso Libia e Iran per l’Italia), e sulle garanzie per una efficace ed equa globalizzazione. Una intesa in questa direzione dell’Italia con Francia e Gran Bretagna potrebbe valere a rimuovere la prevedibile obiezione della Germania (recenti segnali lascerebbero presagire una qualche riconsiderazione da parte di Berlino della attuale abulia), grande «consumatrice» di sicurezza, di cui si avvale e beneficia moltissimo, come è dimostrato dal suo elevato surplus della bilancia dei pagamenti (il quale permette alla industria manufatturiera tedesca di compensare la relativamente bassa domanda interna) : sarebbe ben più difficile alla Germania conquistare i mercati in periodi di forti tensioni e e di conflitti aperti in campo internazionale. Una tale iniziativa riequilibrierebbe all’interno del processo decisionale il rapporto tra i governi nazionali e i tecnocrati (il cui potere, si è detto, è aumentato a dismisura negli ultimi anni), restituendo in tal modo all’Ue quel carattere politico-istituzionale, oltre che di libero mercato, che era l’obiettivo perseguito con successo dall’Italia al Vertice europeo di Milano del giugno 1985. In quella occasione, grazie soprattutto all’azione condotta da Craxi e Andreotti con il concorso di Jacques Delors, allora Presidente dell’Esecutivo di Bruxelles, venne approvato il passaggio all’Europa politica, poi formalizzato con l’Atto Unico varato nella Conferenza di Lussemburgo dell’anno dopo.

Non fu facile giungere alla approvazione, presa a maggioranza, dell’avvio del processo di unificazione politica; vi si opponeva con forza Margaret Thatcher, sostenuta in maniera aperta e ostentata da Danimarca e Grecia. Ma anche altri paesi, pur senza prendere la parola, puntavano in cuor loro sul rinvio della questione. Tra questi Francia e Germania: non perché fossero contrari a varcare la frontiera del Mercato Unico. ma, dichiaratamente, per farlo con il consenso generale dato il carattere straordinario dell’atto. Ciò tuttavia era vero solo in parte; in realtà Kohl e Mitterrand mal digerivano l’intromissione dell’Italia in questioni normalmente lasciate al traino della locomotiva franco-tedesca. Ma Craxi, cosciente di assumersi forti rischi, voleva affermare (come fece in altre circostanze) i diritti di un paese profondamente «dentro» il Mediterraneo, ed esposto ai venti di crisi e di conflitti che da esso spiravano e spirano tuttora (anche come piattaforma di transito), che egli voleva con lungimiranza sottrarre alla influenza della contrapposizione Est-Ovest e ricondurre alla sfera geo-politica dell’Europa (e dell’Italia ovviamente).

Ogni tentativo di regolamento pacifico dei conflitti nella regione e del contagio trasmesso dalle bande e milizie dell’estremismo islamico deve tener conto dell’analisi storica degli ultimi 20 anni e della condizione in cui si trovano oggi i potenziali o effettivi protagonisti. Alcune verità vanno prese in conto. La prima, di carattere generale, è il declino strategico dell’occidente, che oggi non appare più in grado di dettare l’agenda sulla rimozione o contenimento delle minacce e sul monitoraggio delle decisioni che venissero assunte per la pratica realizzazione delle intese. Gli Stati Uniti restano indubbiamente la potenza mondiale in grado di attuare, in tempi rapidi, interventi militari: ma con il forte rischio di non raggiungere gli obiettivi prefissati, ovvero di creare effetti perversi che alla lunga si ritorcono contro gli interessi dell’occidente. Lo si è visto di recente nel caso della Siria, quando Obama ha tergiversato sul suo impegno a colpire militarmente il regime siriano nonostante questi avesse valicato le linee rosse fissate dallo stesso Obama sull’uso delle armi chimiche : fu Putin, per ironia, a levarlo di impaccio con una mossa da poker, ottenendo da Bashar l’impegno al trasferimento controllato del dispositivo chimico (sui cui riscontri nessuno si affanna). In passato, devono essere ricordati gli errori degli Stati Uniti nel non aver associato nella giusta misura Pakistan e Iran nella lotta per liberare l’Afghanistan dall’oppressione dei talebani. e l’improvvida de-baathification dell’Iraq da parte di «governatori» incompetenti.

Washington è perfettamente cosciente dell’indisponibilità di Putin (come oggi evidenzia la crisi in Ucraina) a dare copertura onusiana a operazioni di iniziativa dell’occidente che divergano da interessi strategici di Mosca; ed è difficile senza la disponibilità di Mosca ritentare la soluzione multilaterale per il processo di pace, ipotesi che comunque resta ancora impraticabile per Israele, grazie alla soggezione degli americani. È indubbio che le incertezze sull’uso della deterrenza americana indeboliscono la forza della diplomazia e del dialogo; gli Stati Uniti d’altra parte non possono esporsi a ulteriori insuccessi come quello del Segretario di Stato John Kerry nel suo strenuo e un po’ naif tentativo di avviare un dialogo di pace tra Netanyhau e Abu Mazen, fatto fallire, per ammissione dello stesso Capo della diplomazia americana, dall’intransigenza di Gerusalemme. Per Obama non è un buon momento: difficile mettere insieme gli attori per una Conferenza di pace mediorientale; e va preso atto inoltre che sono riprese nel mondo le lotte ideologiche che i benpensanti pensavano ormai sepolte con la caduta del «Muro di Berlino. Le rivendicazioni della Russia di Putin sui russofoni sono un inquietante campanello di allarme, unitamente alla crescita della Cina e alla sfida aperta dell’integralismo islamico.

Oggi è dubbio e financo inopportuno parlare dei valori di mercato e democrazia, logo dell’Occidente, come perno dello sviluppo mondiale. L’iniziativa di creare una coalizione per combattere lo Stato islamico appare al momento soprattutto una mossa per ridare lustro all’Amministrazione americana. La Nato è di per sé un organismo poco adatto per coinvolgere paesi che sono fuori dalla solidarietà atlantica, e l’aspro confronto con la Russia è oggi un problema assai più strategico per l’occidente. Ma al di là delle formali adesioni, nulla potrà impedire intese ad hoc e a geometria variabile, chiudendo un occhio sulle credenziali dei compagni di viaggio. Sono note le posizioni del Presidente Hollande su Bashar, che «non può essere un partner nella lotta contro il terrorismo», e di influenti personaggi delle Amministrazioni americana e britannica secondo i quali «Bashar non è parte della soluzione ma del problema». Ma occorreva evidentemente conferire una maggiore solennità all’obiettivo di fronte ai massacri contro il genere umano che accadono in alcuni dei teatri di guerra nel medioriente (ed anche a seguito della profonda emozione suscitata dalla decapitazione del giornalista americano James Foney). Per questo il Presidente americano ha voluto metterci la faccia affermando il suo «impegno a estirpare il cancro dello Stato Islamico» (Kerry aveva indicato più riduttivamente un impegno a impedire «il contagio» dello Stato islamico).

E tuttavia non si può restare inerti difronte ai massacri contro il genere umano che accadono in alcuni dei teatri di guerra nel Medio Oriente. L’azione più urgente e perentoria va diretta verso lo «Stato Islamico», su cui ancora una volta, ma stavolta con applauso, il Presidente americano ha messo la faccia affermando il suo «impegno a estirpare il cancro» (comprensibilmente anche a seguito della profonda emozione suscitata dalla decapitazione del giornalista americano James Foley). Al momento l’intervento – a parte l’invio di consiglieri militari – prevede bombardamenti aerei nei due versanti del «Califfato»: quello iracheno, che ha fatto registrare buoni successi, tra l’altro «arrestando» (per usare le parole di Papa Francesco) la marcia delle orde di Abou Bakr El Baghdadi. L’operazione prevista nel versante siriano si sta realizzando con la cooperazione di Damasco, che ha solo posto la condizione che il piano di attacchi aerei sia coordinato con il suo governo. La Siria, è vero, incassa un importante avallo che l’aiuterà a riguadagnare autorità nei riguardi dell’opposizione armata, i ribelli moderati marginalizzati dalle milizie dello Stato islamico. È verosimile che l’offensiva dei barbari di Al Baghdadi venga stoppata risolutamente, ma non in tempi brevi, con la conseguenza che l’attuale territorio dello Stato Islamico continuerà ad accogliere e addestrare terroristi che potranno poi infiltrarsi nei paesi limitrofi, con nuove emergenze umanitarie. In compenso c’ è da augurarsi che la ribellione dei sunniti iracheni – che hanno ingrossato le file dei aentrino nell’ordine dopo il passo indietro di quest’ultimo e la migliore predisposizione del successore, il moderato Haider Al Abadi, a stabilire un rapporto più equilibrato con la minoranza sunnita.

In qualche modo la strategia messa in piedi da Washington appare, sul piano pratico, di carattere globale, con l’assenso tacito dell’Iran al cambio di governo di Bagdad e l’impegno di Al Abadi – che gode dell’appoggio del grande Ajatollah Al Sistani – a correggere la sconsiderata de-baathification iniziata disinvoltamente dagli americani nella disastrosa occupazione del 2003; e con l’assenso della Siria, di cui si è detto più sopra, ed ovviamente della Russia, che vede rialzare la testa del suo protetto Bashar. Ma appare al momento poco probabile che si vada nel futuro prevedibile a qualcosa di più formale e di più strutturato. Del resto la cooperazione di Damasco consente una operazione che, al di là della retorica, fa comodo a tutti, e che mira a togliere di mezzo un gruppo sanguinario da tutti odiato e temuto.

Difficile concludere che si stia voltando pagina e che il peggio sia dietro le spalle, anzi: la pretesa che comincia a insinuarsi di un Kurdistan non più regione autonoma ma Stato sovrano appare assai gravida di rischi, potendo risvegliare focolai di irredentismo in una Turchia che con l’elezione a Presidente della Repubblica di Erdogan potrebbe flettere i muscoli. Nel suo discorso di insediamento Erdogan, parlando in terza persona («con l’elezione del presidente la Turchia rinasce dalle sue ceneri»), ha echeggiato immagini di grandezza e reso un omaggio quasi irriverente a Mustafa Kemal Ataturk davanti al suo mausoleo. E tuttavia sullo sfondo l’interrogativo più gravido di rischi resta l’irrisolta questione palestinese. Ricordo come fosse ieri la frase del defunto sovrano saudita Fahd Al Saul durante un colloquio con Craxi, nel novembre del 1984 a Riad: «Il tempo non lavora per Israele; forse ci vorranno 50 anni, ma verrà il momento in cui per Israele il problema palestinese diverrà ingestibile».

Di anni da allora ne son passati circa 30 e qualche segnale già appare: tre battaglie vinte non hanno permesso a Israele di vincere la guerra; cresce il disagio e la disapprovazione di larga parte dell’opinione pubblica mondiale verso il metodo della «punizione collettiva» di pessima memoria; i ripetuti giudizi severi, che erano delle condanne, del Segretario Generale dell’Onu; e lo stesso commento dell’Ufficio del portavoce del Dipartimento di Stato, che ha definito «scandaloso» l’attacco alla scuola gestita dall’Onu ove sono periti decine di bambini, mostra un fossato tra Casa Bianca e Congresso. I massacri ormai perpetrati a ripetizione (il 90% civili con prevalenza di donne, anziani e bambini) da Tsahal sono diventati odiosi e insopportabili, cosi come le continue violazioni di Tsaal del diritto internazionale hanno passato il segno. Quanto mai opportuna dunque l’apertura di una Commissione d’inchiesta dell’Onu. Purtroppo continuano ad esserci crimini moralmente condannabili, che rendono iniqua e inaccettabile per la coscienza internazionale la definizione di «guerra giusta» usata da taluno. Strano, poi, il silenzio dei nostri uomini di dottrina che non hanno spiegato fino a che punto un paese occupante può invocare l’autodifesa o il diritto di difendersi. Ma anche sul piano strettamente militare, Tsahal presenta un bilancio non brillante, con la perdita di 64 soldati, quattro volte il totale delle tre precedenti battaglie «vinte». Dalla premonizione di Re Fahd sono passati 30 anni, superando il punto di boa; il tempo corre ed è forse il momento di ripensare all’approccio dell’Europa, troppo schiacciato su quello americano, falsamente creativo nell’abituale fraseggio aulico della diplomazia, ma fondamentalmente vuoto e remissivo nei riguardi di Gerusalemme: come l’enfatica dichiarazione fatta ad Annapolis dall’ex Presidente George W. Bush sui «due Stati», uno dei quali nel frattempo dimezzato dai ricorrenti insediamenti degli israeliani, che sono ormai gli ultimi coloni nella regione e nel mondo.

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