Un sussulto repubblicano, un fremito democratico, un’iniezione tardiva di prudenza e saggezza. Si sono sprecate, con l’enfasi tipicamente francese, le definizioni del risultato – storico e incredibile – delle elezioni anticipate in Francia. In soli sette giorni, fra il primo e il secondo turno, la maggioranza politica è passata dall’estrema destra all’estrema sinistra e la maggioranza dei francesi, di qualsiasi tendenza e colore, ha sbarrato la strada al Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen e Jordan Bardella, passati nello stesso soffio di tempo dall’euforia allo sconforto. Gli osservatori francesi e stranieri, a loro volta, hanno prima cercato di decifrare le cause di una deriva autoritaria, populista, xenofoba e subito dopo, dalla sera del 7 luglio, a raccontare un’eccezionale mobilitazione di popolo che celebrava se stesso, fra canti e bandiere dai toni rivoluzionari. Poi dicono che è la patria di Cartesio. Grazie alla mobilitazione eccezionale degli elettori, al senso di responsabilità dei partiti, alla consapevolezza del salto nel buio che avrebbe comportato (per il Paese e per l’Europa) un governo guidato dal Rassemblement National, la Francia ha dunque aperto il paracadute sull’orlo del baratro.
La risposta dei francesi rivaluta in una certa misura anche l’azzardo del presidente Emmanuel Macron, criticatissimo per avere deciso di indire elezioni anticipate, correndo appunto il rischio di consegnare il governo del Paese all’estrema destra. È stato, a giochi fatti, un rischio calcolato. Il presidente aveva perso la sua maggioranza già alle legislative del 2022. Continuare la legislatura con un governo di minoranza, paralizzato dai veti e contestato dalla piazza, avrebbe soltanto fatto crescere la rabbia dei francesi e il consenso dell’estrema destra. In pratica, consegnato a Marine Le Pen le chiavi dell’Eliseo nel 2027.
“Se avessi lasciato andare le cose senza sciogliere l’Assemblea non riesco a immaginare che cosa potrebbe succedere. Il presidente deve agire nell’interesse della nazione, prima che preoccuparsi della sorte della sua maggioranza”. Sono le parole di Jacques Chirac quando decise di indire elezioni anticipate nel 1997, consegnando peraltro anche allora la Francia alle sinistre e il governo al socialista Lionel Jospin.
Di sicuro, erano questi i pensieri di Macron, quando ha maturato la sua decisione. Molti osservatori l’hanno considerata impulsiva, sull’onda della sconfitta alle europee. In realtà maturata da tempo per salvare il salvabile. Scommessa vinta? La Francia ha davanti a sé un biennio complicato, una crisi probabilmente punteggiata da disordini e dal rischio di uno shock economico, considerando un debito pubblico che supera i 3mila miliardi, la procedura europea di infrazione e il declassamento delle agenzie di rating.
Il quadro politico e sociale del Paese resta drammaticamente complicato, con forti rischi di instabilità. La “paura mobilitatrice” ha frenato l’estrema destra, ma ha consegnato la maggioranza relativa a un Fronte delle sinistre eterogeneo. In pratica, si profila un parlamento dominato da due blocchi contrapposti (il Fronte delle sinistre unite e il Rassemblement National), con un centro (la ex maggioranza del presidente Macron) fortemente indebolito. Il rischio è l’ingovernabilità, salvo un’attitudine al compromesso che non appartiene alla tradizione francese. Tanto più che il Fronte delle sinistre contiene ambiguità ideologiche sull’economia e la collocazione internazionale della Francia e il Rassemblement National mantiene una proposta illiberale, anti europea, sostanzialmente xenofoba, contrapposta al modello di società francese cementato nella Quinta Repubblica.
Macron puntava evidentemente a sbarrare la strada a Marine Le Pen, decisa a farcela in quello che sarebbe il terzo tentativo per la conquista dell’Eliseo. Nei prossimi due anni e mezzo può ancora succedere di tutto, tenendo anche conto che gran parte dell’establishment, del padronato, dell’apparato statale, le sinistre unite e quel che resta in vari ambiti della Francia europeista tremano alla sola idea che sia Marine Le Pen a rappresentare il Paese in Europa e nel mondo.
Macron può vantare il fatto di avere sconfitto la Le Pen tre volte. Due alla sfida per l’Eliseo nel 2017 e nel 2022 e una terza in queste elezioni anticipate. Colpi micidiali che metterebbero a tappeto chiunque. Certo è che nel Rassemblement National si è aperta subito la resa dei conti. E sotto processo c’è il giovane delfino, Jordan Bardella, 28 anni, brillante e abile comunicatore che tuttavia negli ultimi giorni ha commesso errori di casting (mettendo nelle liste un numero impressionante di impresentabili) e di comunicazione. Milioni di tifosi che hanno applaudito la loro Nazionale al campionato europeo non si chiedono quali siano i veri francesi, viste le origini africane per la maggior parte (e per alcuni spagnole) dei giocatori. Come ha detto a pochi giorni dal voto il simbolo della squadra, Kylian Mbappé, “dobbiamo identificarci con i valori della tolleranza, del rispetto, della diversità”.
Anche se non ha il doppio passaporto, lo stesso Jordan Bardella dovrebbe ad esempio spiegare le proprie origini italiane e la presenza, nell’albero genealogico, di un bisnonno algerino. Centinaia di professionisti, intellettuali, artisti, personalità pubbliche si sono sentiti feriti e hanno espresso un profondo senso d’ingiustizia. È del tutto evidente che la deriva ideologica avrebbe colpito soprattutto centinaia di migliaia di francesi nati in Marocco, Algeria, Libano ed ex colonie dell’Africa subsahariana oppure nati in Francia da genitori stranieri, oppure che hanno contratto matrimonio con cittadini francesi, tutti comunque francesi a tutti gli effetti. Alcuni sono anche leali servitori dello Stato che non vorrebbero sentirsi “ospiti a casa loro”. Ma andando nel dettaglio, il problema potrebbe riguardare in linea di principio migliaia di italiani, tedeschi, americani con doppio passaporto e – perché no – non pochi cittadini ebrei. Un’assurdità, che proprio Bardella ha poi cercato di giustificare facendo notare la possibilità che una centrale nucleare possa essere gestita da un cittadino franco-russo.
Adesso si apre una fase d’incertezza inedita, che molti osservatori paragonano all’Italia degli ultimi decenni, rivalutando peraltro la nostra capacità di trovare soluzioni fuori dagli schemi tradizionali che sono saltati o sono stati travolti dalla frammentazione delle forze politiche. Si parla anche di “governo tecnico”, sostenuto da una coalizione più ampia possibile (che escluda estrema destra ed estrema sinistra) mentre molti commentatori si chiedono chi potrebbe essere il “Super Mario” francese, ovvero un Monti o un Draghi che timoni la nave fuori dalla tempesta. Ma si guarda anche alla Germania, dove non da oggi forze idealmente contrapposte si sono unite per assicurare la governabilità. Una coalizione “semaforo” (con socialisti, gollisti, verdi e “macroniani”) o una maggioranza “Ursula”, secondo lo schema che ha portato alla rielezione di Von der Leyen.
Ma il Fronte unito delle sinistre, con la componente del radicale Jean Luc Melènchon maggioritaria al suo interno, pretende di più. Sempre che rimanga “unito”.
Per la Francia, un compromesso di governo sarebbe un’enorme novità. Tutto, nelle sue istituzioni, sembra remare contro la formazione di governi di coalizione: la sua Costituzione, il sistema elettorale maggioritario a due turni, le sue tradizioni, il suo gusto gallico e smodato per il conflitto, la sua debole cultura del compromesso. Eppure, i risultati delle elezioni del 7 luglio costringeranno i partiti politici francesi a riunirsi. Lo esigono gli interessi del Paese e l’opinione pubblica, che non accetterà a lungo lo stallo.
Come sostiene il politologo Jean Dominique Giuliani: “Una coalizione, per formare o sostenere un governo, è l’inizio del superamento, l’inizio della saggezza e talvolta la garanzia dell’efficacia. Di fronte alla complessità dei problemi pubblici, non esistono più certezze perentorie, sfoghi ideologici o singole verità. Per risolverli dobbiamo unire le analisi, discutere le soluzioni e condividere i punti di forza. Accettando di mettere da parte i propri interessi personali e di parte e accettando un programma legislativo minimo nell’interesse del Paese, lungi dal cadere in discredito, i politici francesi si unirebbero a una prassi europea pressoché unanime che rispetta i cittadini e le regole democratiche quando è trasparente e presunta”.
Se questo è il quadro politico scaturito dal voto, occorre anche decifrare più a fondo la dimensione sociale che lo ha determinato. In Francia vive la più ampia componente musulmana, circa sei milioni di francesi. Se la frattura sociale si è aggravata e ha portato acqua al bacino di voti dell’estrema destra, è anche vero che le periferie, i francesi di origine straniera e gli immigrati non avrebbero gradito un governo scaturito dalla propaganda xenofoba e dagli slogan populisti in difesa della preferenza nazionale. D’altra parte, il Rassemblement National è un partito ormai radicato negli strati popolari e fra i giovani, raccoglie consensi nella Francia profonda e arrabbiata, è arrivato in testa in tutta la Francia a eccezione di Parigi. L’estrema destra resta una potente ipoteca negativa sulla stabilità e sulla coesione del Paese. La strategia per i prossimi mesi è chiaramente proiettata alla conquista dell’Eliseo, ma forse per Marine Le Pen la strada è sbarrata per sempre. I proclami dell’estrema destra mescolano propaganda e demagogia su questioni complesse che andrebbero peraltro tenute ben distinte. Una cosa è infatti una politica restrittiva nei confronti dell’immigrazione (cui è stata favorevole anche la maggioranza di governo), un’altra è la promozione di politiche che finirebbero per discriminare cittadini di diversa origine, ovvero per mettere in discussione un principio di universalità dei diritti e dei doveri che è al fondamento della società francese.
Se è vero che la maggioranza ha sempre ragione in democrazia, non sempre la ragione ottiene la maggioranza degli elettori. Questo vecchio detto si applica perfettamente alla Francia di oggi. Fra errori di strategia e di casting, Macron in questi anni ha sconvolto per due volte il panorama politico francese, prima creando un nuovo centro e poi lasciando che evaporasse a favore delle estreme. Se il Fronte della sinistra contiene non poche ambiguità ideologiche sull’economia e sulla collocazione internazionale della Francia, il Rassemblement National, nonostante l’apparente “melonizzazione” dei suoi dirigenti, resta una forza illiberale, con una pesante componente xenofoba e anti europea, oltre a qualche imbarazzante “Russian connection”.
Questo articolo è stato in origine pubblicato, in forma ridotta, sul Corriere della Sera il 7 luglio 2024.
Immagine di copertina: il presidente del partito di estrema destra francese Rassemblement National, Jordan Bardella, dopo i risultati del secondo round delle elezioni legislative, il 7 luglio 2024. Foto di Dimitar Dilkoff/Afp.