«È stato un insulto al mondo intero, non c’è altro modo di definirlo». La voce di Cengiz Aktar arriva calma ma ferma. Funzionario Onu di lungo corso, oggi docente di studi turchi e asiatici all’Università di Atene, Aktar ha indicato all’Europa il pericolo della deriva autoritaria del suo Paese da ben prima che il vero volto di Erdogan fosse chiaro al mondo. Qualcosa che evidentemente ancora non è, protesta oggi Aktar, con negli occhi le immagini della “re-inaugurazione” di Santa Sofia – per secoli basilica e poi, nell’ultimo, museo laico – come moschea.
Professor Aktar, a chi è diretto esattamente l’insulto di cui parla?
A ciascuno di noi: a quei turchi che credono nei valori cosmopoliti, alla Repubblica Turca stessa, che nasce laica, e a due secoli di occidentalizzazione del nostro Paese. Ma anche al mondo non musulmano: dai 300 milioni di ortodossi i cui cuori sono oggi comprensibilmente a pezzi, ai cattolici, protestanti e tutti gli altri. Quest’iniziativa infligge un colpo durissimo all’immagine e al prestigio della Turchia, già in caduta libera dal 2013. Ma non è altro che la conferma di una deriva complessiva verso il totalitarismo di un Paese che sta finendo di invertire una tendenza modernizzatrice lunga duecento anni.
Si aspettava il “colpaccio” di Santa Sofia?
Certo, tutti sapevamo che sarebbe successo. Avevo commesso solo un piccolo errore, prevedendo che il governo l’avrebbe riaperta nel giorno della riconquista ottomana di Costantinopoli, il 29 maggio. Ma la modalità scelta è stata almeno altrettanto simbolica. Il 24 luglio, data poi prescelta, segna l’anniversario della firma del Trattato di Losanna, quello che ha fondato la Repubblica. All’inaugurazione della moschea, Erdogan ha recitato una sura del Corano – qualcosa che non succede in nessun altro Paese al mondo. E così ha fatto il capo degli affari religiosi del Paese, uomo potentissimo nella gerarchia del potere erdoganiano, che ne ha recitata una dedicata alla conquista – come se la Turchia stessa riconquistando Santa Sofia. E lo ho fatto reggendo tra le mani una spada!
Un cocktail tra dimensione religiosa e militare esplosivo.
Già, e mai visto prima in Turchia. L’ultima volta che è successo qualcosa del genere è stato quando Abu Bakr Al Baghdadi si è auto-proclamato Califfo e leader dell’Isis. Ma la fame di potere di questo regime è evidente anche altrove. Il governo sta sfidando ogni regola internazionale nel Mar Egeo, e perfino nel Mediterraneo, come abbiamo visto col cosiddetto memorandum of understanding tra Tripoli ed Ankara.
Sembra che Erdogan voglia testare ad un livello sempre ulteriore i limiti dell’assertività turca, perfino a costo di avventure militari o alti rischi diplomatici. Fin dove è disposto a spingersi, e perché lo fa?
La Turchia è ormai un Paese irredentista, bellicoso. Se prima della trasformazione in nome dell’Islam politico lo slogan era “Pace all’interno, pace all’esterno”, oggi è l’esatto opposto: “Guerra all’interno, guerra all’esterno”. La Turchia è oggi in guerra in Siria, in Iraq, in Libia, e dentro i suoi stessi confini con i curdi; e i prossimi sulla lista, dai segnali che arrivano, sono Grecia e Cipro. Santa Sofia rientra in questo quadro complessivo di una Turchia islamica aggressiva. Erdogan vede se stesso come uno dei più importanti leader mondiali, e così pure il suo entourage. Di fatto, è diventato oggi il leader della Fratellanza Musulmana, una sorta di Califfo dell’Islam sunnita della peggior specie. A questa missione lavora insieme all’Emiro del Qatar, Tamim Al-Thani, ma in opposizione a tutti gli altri Paesi islamici/arabi e all’Iran. Gli unici Paesi della regione che lo sostengono parzialmente sono l’Azerbaijan, il Pakistan e la Somalia, più il governo di Tripoli. Fine. Non è un caso che nessun altro Paese islamico abbia inviato emissari di alto rango all’inaugurazione di Santa Sofia. In tal senso, per lo meno, è stato un flop.
E sul piano interno? Ha davvero portato consenso ad un governo alle prese con la continua instabilità finanziaria e la pandemia?
È stato calcolato che alla preghiera dello scorso venerdì abbiano partecipato circa 350mila persone. Per una città come Istanbul che conta 16 milioni di abitanti, non è nulla. Francamente, direi che l’80% dei turchi non ha la minima idea di che cosa sia Santa Sofia. È tutta retorica, e non credo che convertire un museo in una moschea inciderà particolarmente sulla popolarità di Erdogan. Quel che mi preoccupa semmai è che l’intero micro-cosmo politico turco fosse all’inaugurazione, e chi non c’era – come i rappresentanti dei curdi o dell’opposizione – si è lamentato non della riconversione, ma di non essere stato invitato.
Ciò che ha dichiarato fra gli altri il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, che quando fu eletto un anno fa molti videro come un potenziale competitor di Erdogan. Altri negli scorsi mesi hanno guardato con interesse alle iniziative politiche di due ex pesi massimi dell’AKP come gli ex ministri degli Esteri Ahmet Davutoglu o Ali Babacan…
Come dicevo, l’intero establishment politico turco è felice dell’apertura, nessuno ha osato pronunciare una parola contro di essa. È un’opposizione questa? Imamoglu non rappresenta nulla, e non ha alcuna chance. Quanto a Davutoglu e Babacan, sono come dei moscerini in confronto a Erdogan: sono stati sulla sua stessa barca per tanto tempo che può schiacciarli quando vuole.
Sembra non avere più alcuna speranza in un cambiamento politico in Turchia.
L’unico cambiamento potrà venire dal collasso economico o dalla disfatta in un’avventura militare. Queste sono le uniche eventualità che potrebbero portare al crollo del regime. Peccato che l’Occidente, e l’Europa in particolare, non l’abbia ancora capito. Siete incerti su come rapportarvi alla Turchia, e credete che provando a calmare periodicamente Erdogan lo convincerete a trovare soluzioni ai problemi. Purtroppo questo è un sogno irrealizzabile. Più gli europei giocano la carta dell’appeasement, più Erdogan si fa beffe di loro, ed è così ormai da 17 anni. In questo modo gli europei non fanno che prolungare la vita del suo regime, continuando a vendere armi al regime e ad arretrare non appena Erdogan li minaccia. Tutto ciò è estremamente pericoloso e controproducente, perché invia il segnale sbagliato a tutti quei turchi che sperano in una Turchia diversa.
Cosa dovrebbe fare quindi l’Ue secondo lei: rompere ogni relazione con la Turchia?
Certo. La democrazia non ha strumenti per far fronte a regimi autoritari. È solo uno spreco di tempo e denaro, che finisce per rafforzare il regime stesso. Senza parlare della dimensione etica di tale appeasement con un Paese in cui lo Stato di diritto non esiste più, come ogni rapporto internazionale certifica. Ma quest’atteggiamento finirà per mettere l’Europa stessa nei guai anche in altri termini più concreti. Attizzando la Guerra in Siria, grazie all’asilo dato a centinaia di combattenti jihadisti, la Turchia continua a creare rifugiati da usare come una minaccia nei confronti dell’Ue. Inoltre il governo sta ormai apertamente esportando jihadisti in Libia, senza che nessuno sia in grado di dire “Ora basta”. Come può l’Europa, e l’Italia in particolare, accettare che migliaia di combattenti irregolari siano trasportati a Tripoli e Misurata, di fronte alla Sicilia? Gli europei continuano a sperare che la Turchia prima o poi si comporterà bene. Ma i Paesi totalitari non si trasformano mai in democratici. Collassano, e poi qualcosa di nuovo viene costruito sulle loro ceneri.
Nonostante il suo “ritiro” dagli affari internazionali, ci dovrebbe però essere almeno un altro attore interessato a mantenere la stabilità nel Mediterraneo: gli Usa.
La politica estera degli Usa oggi è guidata sul terreno da bravi ambasciatori, che non ricevono però pià alcuna istruzione da Washington. È un vero disastro, perché così l’America non è più vista come un attore credibile nella regione. Quanto alla Turchia, gli Usa sono così interessati a che resti dentro la Nato da essere pronti a perdonare a Erdogan qualsiasi cosa. Senza accorgersi che così facendo rischiano di perdere un altro alleato almeno altrettanto importante: l’Egitto.
Se diventerà presidente, Joe Biden sarà in grado di invertire questa “rimozione” della politica estera?
È possibile, ma Biden deve ancora dimostrare tutto: è chiaro che non ha ancora disegnato un approccio a tutto tondo di politica estera. Ma al momento è impegnato a predisporre la sua potenziale Amministrazione, e credo che usciranno fuori diversi nomi di peso. Se dovesse essere rieletto Trump, invece, sarebbe una catastrofe di dimensioni mondiali.