Come scrive Francesco Remotti, «l’identità è un fatto di decisioni». Chi siano i noi e chi gli altri dipende da scelte politiche a livello macro e decisioni personali a livello micro. La cittadinanza è un tassello fondamentale della nostra identità tanto come individui quanto come membri di un gruppo.
La presenza e la stabilizzazione delle comunità straniere nel nostro paese ha dato nuovi contenuti ad antiche questioni di teoria politica e giuridica, prime tra tutte quelle relative al rapporto tra comunità e individuo, quindi tra identità, appartenenza e diritti. Molto spesso si rileva una commistione tra politiche legate alla gestione del fenomeno migratorio e politiche che disciplinano la cittadinanza: le leggi sulla cittadinanza finiscono infatti per essere utilizzate come uno strumento atto a regolare e, in certi casi, a «contenere» il rapporto tra il paese di accoglienza/origine e le comunità di immigrati/emigranti. Le caratteristiche dei più recenti fenomeni migratori, ponendo interrogativi nuovi sul legame tra godimento di determinati diritti sociali e politici e appartenenza a una comunità, impongono di fatto un’attenta riflessione anche sull’idea di cittadinanza.
I popoli hanno sempre cercato di identificarsi e raccontarsi individuando ciò che li accomuna e ciò che li distingue dagli altri. La cittadinanza descrive e fissa la condizione di quanti fanno parte di una determinata comunità statuale che talora si fa coincidere con quella nazionale, nella misura in cui reclama la condivisione di una serie di elementi su cui si costruisce e alimenta il senso civico di un paese: la conoscenza della lingua, la consapevolezza di una storia comune, la condivisione di un nucleo di valori fondamentali. Nel moderno Stato nazionale la cittadinanza è definita principalmente in termini giuridici, come un insieme di diritti e doveri. Tutti coloro ai quali è riconosciuto lo status di cittadino hanno una base di diritti e doveri condivisi e sono considerati, a pieno titolo, membri della comunità politica. Cittadinanza esprime dunque il nesso tra il godimento di un determinato stato giuridico e l’appartenenza a una specifica comunità. E in tal senso, è anche il sentimento di appartenenza a una comunità a rappresentare un fondamento dell’idea di cittadinanza.
La normativa attuale
Da quanto appena esposto, risulta evidente che una legge che abbia per oggetto la cittadinanza è di fatto uno specchio della cultura politica di un paese: definisce il modo in cui lo stesso «sceglie» i propri cittadini e si relaziona con essi. Proprio per questo, tale legge è il frutto di un determinato contesto storico, della realtà sociale contingente, dei timori, delle speranze e delle aspettative che animano una comunità nazionale. La normativa in vigore in Italia in materia di cittadinanza è quella definita dalla legge 91 del 1992. Oltre a essere un testo che dimostra tutti i venti anni che lo separano dalla realtà odierna, la 91/1992 ha il limite di configurarsi fin dalla sua approvazione come una norma proiettata sul passato: un tributo all’Italia paese di emigrazione anziché nuova meta di immigrazione.
È caratterizzata da una impostazione «conservatrice», ancora interessata esclusivamente a rendere possibile per gli emigranti italiani all’estero il mantenimento della cittadinanza. A conferma di un siffatto approccio si consideri che la legge faceva parte del cosiddetto «pacchetto emigrazione» che il Governo aveva presentato in occasione della prima Conferenza sull’emigrazione italiana nel 1978. Peraltro, come evidenziato da Zincone e Caponio, mentre a livello europeo, nelle politiche in materia di cittadinanza si registrava all’epoca una certa convergenza verso provvedimenti più liberali, l’Italia riforma la propria legge in controtendenza.
Questo carattere di favore nei confronti degli emigranti italiani e dei loro discendenti, definito da Giovanna Zincone «familismo legale», faceva dell’acquisizione per discendenza (ius sanguinis) e di quella per matrimonio (ius connubii) «gli assi portanti» della normativa sulla cittadinanza italiana. In base alla legge 91/1992, infatti, la cittadinanza italiana si configura come una «questione di sangue»: è cittadino per nascita il figlio di cittadino. E particolarmente agevole era anche, fino alla modifica apportata dalla recente legge 94/2009, l’acquisizione della cittadinanza nel caso di matrimonio con cittadina/o: bastavano 6 mesi di residenza. In seguito alla modifica del 2009, il termine è stato portato a 2 anni, in conformità peraltro con quanto previsto dalla maggior parte delle normative europee in materia.
Per contro, diventare italiani è particolarmente arduo per gli stranieri. Il tempo di residenza richiesto dalla legge italiana è sensibilmente superiore a quello richiesto dagli altri paesi europei: 10 anni (4 nel caso di cittadino comunitario) e previa dimostrazione della disponibilità di un reddito adeguato. A ciò si aggiunga che il ricorso allo ius soli (acquisizione della cittadinanza per nascita sul territorio) è possibile solo alla maggiore età: quanti nascono in Italia, da genitori stranieri, pur vivendo nel nostro paese, frequentando le nostre scuole e parlando la nostra lingua, rimangono «non italiani» fino al compimento dei 18 anni, quando hanno un anno di tempo per presentare istanza per il riconoscimento della cittadinanza. Tantomeno sono previste in generale agevolazioni per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori stranieri non nati ma cresciuti in Italia.
Una tale impostazione normativa, anche alla luce del profondo calo demografico del nostro paese, non può che finire per plasmare una comunità politica condannata all’immobilismo e di fatto incapace di rinnovarsi.
Prospettive di riforma
Della necessità di riformare la legge italiana sulla cittadinanza si discute in realtà fin dalla legislatura immediatamente successiva a quella (la X) in cui è stata varata la 91/1992. Tuttavia, i lavori parlamentari in materia giunsero a un buon punto di definizione solo nelle legislature XIV (2001-2006, secondo e terzo Governo Berlusconi) e XV (2006-2008, secondo Governo Prodi): sono infatti le uniche due legislature in cui si arrivò all’elaborazione di un testo unificato da parte della Commissione referente. Nella XV legislatura, precedente a quella in corso, al momento della caduta del Governo Prodi, la Commissione aveva appena approvato il testo unificato elaborato dal relatore, On. Bressa (Pd).
Il testo rappresentava una profonda revisione della normativa sulla cittadinanza nel nostro paese e ci avvicinava a quanto previsto dagli ordinamenti degli altri paesi europei sia con riferimento alla disciplina delle naturalizzazioni sia sul fronte dell’acquisizione della cittadinanza per i minori. Tra i principali elementi di novità vi erano infatti: la possibilità per gli stranieri non comunitari di fare domanda di cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza sottoponendosi a un test di verifica della loro integrazione linguistico-civica; l’introduzione dello ius soli alla nascita per quanti nascessero in Italia da genitori stranieri stabilmente residenti; una condizione privilegiata di accesso alla cittadinanza per i minori stranieri che avessero frequentato le scuole nel nostro paese.
Il cambio di governo ha determinato un significativo ridimensionamento nell’approccio in materia di riforma della cittadinanza. Anche l’attuale legislatura ha visto l’inizio di un dibattito sul tema: l’iter parlamentare, cominciato presso la I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, ha portato all’approvazione del testo Bertolini, dal nome del relatore, On. Isabella Bertolini (Pdl). Tale testo presenta caratteristiche fortemente dissimili da quelle del testo Bressa della passata legislatura. Interesse del testo Bertolini sembrerebbe infatti quello di rendere più selettivo il processo di acquisizione della cittadinanza italiana attraverso l’introduzione di un «percorso di cittadinanza».
Questo percorso prevede che il richiedente sia in possesso della carta di soggiorno, abbia frequentato un corso di un anno, volto all’approfondimento della conoscenza della storia e della cultura italiana ed europea, dell’educazione civica e dei principi della Costituzione italiana, dia prova di un effettivo grado di integrazione sociale e di rispettare le leggi dello Stato così come gli obblighi fiscali. L’aggiunta di simili requisiti di integrazione non è bilanciata da alcuna riduzione degli anni di residenza necessari per fare domanda di naturalizzazione: il procedimento amministrativo relativo al percorso di cittadinanza non si può concludere prima del compimento del decimo anno di residenza legale nel territorio della Repubblica.
Nessuna agevolazione è inoltre prevista dal testo Bertolini con riferimento alla condizione dei minori stranieri e del loro accesso alla cittadinanza italiana. In tal senso rimane invariato il ricorso al principio dello ius soli solo alla maggiore età con l’aggiunta, peraltro, dell’obbligo di dimostrare che il minore «abbia frequentato con profitto scuole riconosciute dallo Stato italiano almeno fino all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione» (art. 1). Il testo Bertolini, oltre a non porsi in continuità con il lavoro compiuto nella legislatura precedente e confluito nel testo Bressa, neanche recepisce le molte proposte innovative di riforma della cittadinanza avanzate e discusse nella stessa I Commissione nei mesi che hanno preceduto l’approvazione del testo Bertolini. Tra queste vale la pena ricordare la proposta Sarubbi-Granata, espressione, nel momento in cui è stata presentata, di un accordo bipartisan tra Pd (On. Sarubbi) e Pdl (On. Granata, oggi nel Fli) e sottoscritta da circa 50 deputati.
La proposta Sarubbi-Granata riprende molti dei provvedimenti già contenuti nel testo Bressa, riportando in alcuni casi ulteriori facilitazioni. Sul fronte delle naturalizzazioni, dimezza da 10 a 5 gli anni necessari perché lo straniero possa fare domanda, previa dimostrazione della conoscenza linguistica, «della vita civile dell’Italia» e della nostra Costituzione. Peraltro non è necessario che lo stesso sia residente da cinque anni, basta la dimostrazione di un soggiorno legale. Con riferimento ai minori nati nel nostro paese da genitori stranieri, prevede la possibilità di acquisizione della cittadinanza al momento della nascita se almeno uno dei genitori è stabilmente presente nel paese: deve essere residente in Italia al momento della nascita del figlio e legalmente soggiornante da almeno cinque anni. Il ricorso al principio dello ius soli integrato da una condizione di residenza/soggiorno stabile nel paese da parte del genitore è utilizzato anche in altri paesi europei quali ad esempio Germania, Inghilterra e Portogallo.
Peraltro la Sarubbi-Granata, sulla scia anche in questo caso del testo Bressa della precedente legislatura, introdurrebbe nella normativa italiana il cosiddetto principio del doppio ius soli: colui che nasce nel paese da genitori stranieri è cittadino dalla nascita se almeno uno dei genitori è nato a sua volta nel paese. Tale principio, utilizzato dalla legge francese e da quella spagnola, viene, nella Sarubbi-Granata , integrato con la dimostrazione di residenza legale da almeno un anno da parte del genitore. Con riferimento invece al minore che non sia nato in Italia ma vi sia cresciuto, l’acquisizione della cittadinanza italiana è agevolata se il minore ha completato un corso di istruzione nel nostro paese.
Il testo Bertolini viene discusso presso l’Assemblea della Camera il giorno 22 dicembre 2009. Dopo solo due sedute, il dibattito è stato sospeso in seguito alla richiesta da parte dell’on. Bruno (Presidente della I Commissione, Pdl) di fare ritornare il provvedimento in Commissione «al fine di essere approfondito» soprattutto negli aspetti relativi ai minori che sono riconosciuti quale «punto nodale» del provvedimento. Da allora la riforma sulla cittadinanza non è stata ancora ricalendarizzata in Commissione.
Tuttavia, il dibattito pubblico in materia e in particolare proprio sui minori, ha trovato nuova linfa negli interventi del Presidente Napolitano, che negli ultimi mesi si è espresso più volte a favore di una necessaria riflessione sulle modalità e i tempi per il riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori stranieri, e nella presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare da parte di una ventina di organizzazioni della società civile, tra cui anche associazioni e reti di giovani stranieri. La proposta popolare, lanciata con la campagna, «L’Italia sono anch’io», prevede l’adozione dello ius soli alla nascita con un requisito di integrazione minimo (almeno un genitore deve essere legalmente soggiornante da un anno) e del doppio ius soli, nella sua forma pura, senza cioè l’aggiunta di alcuna ulteriore condizione. Parimenti riconosce una procedura di acquisizione della cittadinanza facilitata per i minori stranieri entrati in Italia entro il decimo anno di età e per quelli che hanno frequentato un corso di istruzione nelle nostre scuole.
Al momento, il riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori stranieri rappresenta dunque la principale questione sul tappeto in materia. Il nostro paese si trova di fatto a dover scegliere quale prospettiva di vita futura dare al numero sempre crescente di giovani adulti nati in Italia da genitori stranieri. La categoria «seconde generazioni» rimanda a un insieme vasto ed eterogeneo di casi: un continuum di condizioni che parte dai bambini nati e cresciuti nella società ricevente e arriva ai ragazzi che si ricongiungono ai genitori dopo aver vissuto la propria infanzia nel paese di origine.
La Fondazione Agnelli, che sulla questione lavora da molti anni, la chiama «generazione 20%» in quanto 20% è il tasso di incremento annuo dei nati in Italia da genitori entrambi stranieri, 20% è la quota dei minori sul totale degli immigrati, 20% è la percentuale dei figli di stranieri sul totale dei loro coetanei nelle grandi città italiane. Nei prossimi anni questi giovani arriveranno in forze alla maturità, al lavoro, alla vita attiva diventando protagonisti del futuro economico, sociale (e anche demografico) del nostro paese. È proprio il grado di inserimento di tali soggetti a costituire non solo un passaggio fondamentale per misurare il successo o l’insuccesso delle politiche migratorie, ma anche, come fa notare il sociologo Maurizio Ambrosini, «una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione delle società riceventi».
Quando il Parlamento tornerà ad affrontare e discutere la riforma della legge sulla cittadinanza, si troverà di fatto a tracciare i caratteri della società italiana del futuro, nei termini di ridefinizione dei «limiti» della comunità nazionale e di influenza sul senso di identità sociale e individuale. Una nuova politica di cittadinanza non deve riguardare solo coloro che sono giunti nel nostro paese ma anche tutti noi perché dietro questa vive un progetto condiviso sulla società di domani attraverso la definizione di un rinnovato patto di natura politica e civica.