Partito democratico e Sinistra ecologia e libertà, le prime due formazioni politiche che hanno presentato le liste elettorali, hanno fatto una scelta piuttosto netta a favore della democrazia paritaria, di una strategia, cioè, che renda il Parlamento specchio fedele di un Paese popolato da due sessi. Sedici donne su 38 capilista e 40 per cento di presenze femminili nelle liste per il Pd. Qualche decimale in più per Sel: 50 per cento di capilista e 46 per cento nelle liste.
Naturalmente, dato che il sistema a «chiusura lampo» (un uomo che si alterna a una donna, giù giù fino alla fine dell’elenco) non è stato rispettato in maniera notarile, non è detto che la quota delle elette corrisponderà esattamente a quella delle chiamate, soprattutto per la formazione più piccola e più soggetta agli umori imprevisti dell’elettorato. Ma tant’è: siamo di fronte a un’ottima volontà, mentre in queste ore le altre formazioni stanno per chiudere le loro partite.
C’è da augurarsi che lo spirito di emulazione abbia la meglio ovunque e la scelta di un nuovo equilibrio fra i sessi diventi mentalità comune. Delle «parlamentarie» del Movimento Cinque stelle già sappiamo: ottima affermazione di giovani e giovanissime, 17 in cima alla lista su 31. Berlusconi giura che nel Pdl le elette saranno il 40 per cento. Monti, nell’Agenda, fa un’affermazione di principio molto impegnativa: «Le donne oggi vogliono, devono e possono contare di più». Tuttavia non prevede nessun vincolo pratico per definire la percentuale di candidature. Come in molte formazioni che devono comporre anime diverse (tipicamente «Rivoluzione Civile» di Antonio Ingroia) spinte antagoniste contenderanno fra loro fino all’ultimo minuto.
Non c’è dubbio, infatti, che le primarie abbiano misurato la temperatura, di una parte almeno dell’elettorato, e l’abbiano fatta rilevare anche ai più refrattari nei gruppi dirigenti. Esprimere una seconda preferenza, da destinarsi a una donna se la prima era andata a un uomo, non era un obbligo, ma uno strumento. L’hanno usato praticamente tutti, elettori ed elettrici. E forse molti hanno votato una donna e basta. A Bologna – un esempio fra i tanti possibili – nella lista delle primarie del Pd c’erano otto uomini e sei donne. I più votati sono stati esattamente alla pari, quattro uomini e quattro donne: la base ha spostato il baricentro.
I movimenti della società civile hanno fatto da moltiplicatore di un sentimento diffuso nell’opinione pubblica fino a costruire un melting pot inedito: femministe con i giusti quarti di nobiltà a lungo refrattarie all’impegno istituzionale, intellettuali e professioniste, giovani ambiziose che spesso si sono fatte le ossa nelle autonomie locali, donne rianimate al gusto della politica dopo la nascita di Se non ora quando.
Questo movimento è stato più una scintilla che una sigla. Dopo il successo strepitoso della manifestazione del 13 febbraio 2011, uno dei fattori determinanti della caduta del governo Berlusconi, avrebbe avuto le forze per competere con il vecchio establishment alla maniera di Grillo o di Ingroia, o anche per promuovere direttamente candidature femminili nelle varie liste. Ha scelto altrimenti: di non candidare nessuna e di promuovere tutte, attraverso due campagne di comunicazione. Una, affidata alle grandi reti televisive, che già guarda al futuro: «Senza le donne non si governa». L’altra – «Le parole per dirlo» – che raccoglie dalla base centinaia di voci e visi che dettano le loro priorità per l’Italia che ci attende.
Più donne nel prossimo Parlamento, di sicuro. Meno notabili e forse più ingenue della politica e ancor più di quella politicante. Unite su qualcosa? E’ presto per dirlo. Ma la spinta che le incoraggia a rappresentare italiane e italiani implicitamente chiede loro non poco. Famiglie meno sole nella cura, più moralità nella politica, più lavoro per i giovani, sostegno alla maternità come pane e sale di un Paese che invecchia, diritti e rispetto per le coppie gay, più verità spirituale e meno furbizie nel rapporto con la Chiesa. La luna? Forse, ma anche sulla luna si può prima o poi poggiare un piede.
Questo articolo è uscito La Stampa l’11 gennaio 2013