Nell’immaginario non meno che nell’economia, il primato americano è depresso dalla recessione e insidiato dalle tigri orientali che magari ti risparmiano la pelle in caso di naufragio solitario su una zattera nell’oceano, ma una volta sulla terraferma ti volgono le spalle e se ne vanno per la loro strada (giungla, mercato), come in Vita di Pi di Ang Lee. Insomma è crisi, si sa. Tuttavia Hollywood a suo modo “infuria contro il morire della luce” per dirla con Dylan Thomas, il poeta gallese che piace tanto a Bob Dylan. Sebbene non sia capace di preconizzare costumi e consumi come accadde negli aurei rooseveltiani anni Trenta/Quaranta o nei meditabondi eppur ribelli Settanta del ‘900, il cinema USA non appare rassegnato. Anzi, vagheggia una via d’uscita dal crepuscolo a stelle e a strisce. In che modo? Rivolge ossessivamente lo sguardo all’indietro e cerca tracce di futuro nelle ombre e nei buchi neri della storia: una sorta di analisi terapeutica per mitigare l’onnipotenza perduta.
E’ arrivato anche in Italia Zero Dark Thirty, preceduto dalle polemiche sulla legittimità della tortura nella lotta al terrorismo, che ha fruttato la copertina di “Time” alla sua regista, la spericolata Kathryn Bigelow di Strange Days e The Hurt Locker. Tema: la lunga caccia a Osama bin Laden e il blitz dei Navy Seals che fu fatale al nemico pubblico numero 1, in Pakistan il 2 maggio 2011, quasi dieci anni dopo l’attentato alle Twin Towers di New York. Un suggello tragico, l’11 settembre, alla fine del “secolo americano”, nonché un preludio simbolico della Nuova Grande Crisi alle porte.
Intanto è nelle nostre sale un dittico di film che con modi e stili assai diversi fra loro rivisitano l’800 americano: Lincoln di Steven Spielberg e Django Unchained di Quentin Tarantino. Se si vuole, negli ultimi lustri, lo sguardo retrospettivo è un esorcismo del languore di idee e valori che negli USA contempla finanche il caso di un’intera filmografia, le regie di Clint Eastwood dell’ultimo ventennio, a mo’ di corpus mosaicato: reificazione e nullificazione degli eventi e dei miti americani in guerra e in pace, in film quali Gli spietati, Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima, Mistyc River, Million Dollar Baby, Gran Torino, J. Edgar, nella lentezza quasi guardinga delle inquadrature e nell’afflato classico delle storie, l’America ritorna ogni volta alla matrice biblica di una terra promessa e, come dire?, non mantenuta.
Vibra il medesimo respiro solenne, non privo di maniera, nel Lincoln di Spielberg, cui Daniel Day-Lewis presta movenze e voce con spirito mimetico un po’ affannato dal doppiaggio italiano. Qui il richiamo al senso del tragico è esplicito e in filigrana si palesano l’enigma e il sangue del “Destino manifesto”, la teoria espansionistica che non mancò di echeggiare nel patriottismo di Lincoln, nonostante la sua opposizione alla guerra contro il Messico di meta ‘800. Il film di Spielberg, pluricandidato agli Oscar, è incardinato sulla tenzone congressuale del presidente repubblicano – patriarca per destino nominale (Abramo, nomen omen) – in favore dell’abolizione costituzionale della schiavitù, mentre si consuma la guerra civile americana ed è prossima la sconfitta degli Stati secessionisti del Sud. Il tredicesimo emendamento della Carta fu approvato nel gennaio 1865, poco prima della fine della carneficina.
In Italia, molti stanno ponendo l’accento sul “machiavellismo” del Lincoln spielbergiano, il quale si procura il pugno di voti necessari senza badare troppo, o affatto, ai metodi usati: promesse di un seggio futuro, corruttella demandata a loschi emissari a dispetto dell’alta statura morale del Nostro, minacce più o meno velate. “Il fine giustifica i mezzi” di messer Niccolò sarebbe insomma il “messaggio” ultimo del film. Sul “Corriere della Sera” Pierluigi Battista annota che nel cruciale passaggio anti-schiavista a valere fu un “metodo Scilipoti” ante litteram. E sul “Foglio” Lanfranco Pace rincara la dose, difendendo le ragioni dei cosiddetti “impresentabili” come Cosentino anche nel nome di Lincoln: “La politica è stata sempre e sotto ogni cielo affare per bestie da soma, per uomini col pelo sullo stomaco e pelle da rinoceronte: per avamposti alle frontiere tra legale e illegale, per spalatori di merda. Diventa buona e grande se si accompagna alla lungimiranza, se si vede lontano e ci si prefiggono ambiziosi obiettivi”.
Le interpretazioni nel segno di Machiavelli sono avallate dal regista e dal suo sceneggiatore, il drammaturgo “impegnato” Tony Kusher, che oltretutto per la promozione europea di Lincoln hanno disdegnato le tipiche conferenze stampa con i giornalisti cinematografici, preferendo concedersi a colloqui più ragionati con firme di tre/quattro importati testate per ogni Paese.
Ma in Lincoln vige una dimensione tragica, appunto, che nell’Italia assuefatta al grottesco della politica era difficile balzasse sugli scudi e infatti non c’è. E’ la noia del potere che per non prevalere ha bisogno di metanoia, di un radicale, biblico mutamento nel modo di pensare e sentire il mondo. E’ il disincanto del protagonista almeno pari alla sua asseverazione di un principio libertario. E’ il tormento del comando sia alla Casa Bianca sia nella perlustrazione pietosa dei campi di battaglia disseminati di cadaveri o degli ospedali di guerra. La sprezzatura è lo stigma del carisma lincolniano sullo schermo: la prosa forbita e l’intercalare oggi desueto (il “nevvero?” caro a Vittorio Foa), il passo lento, l’occhio diagnostico, i sogni tormentati dal senso di colpa, la sopportazione della crisi coniugale e del lutto di un figlio, l’operarsi affinché un altro rampollo indossi la divisa blu degli Unionisti senza però rischiare la vita. Ancora, fanno testo il laconico onore delle armi, privo dello scintillio delle sciabole, reso allo sconfitto generale Robert Edward Lee, e il patto fraterno del presidente con l’altro generale, lo yankee Ulysses Simpson Grant, che gli sarebbe succeduto quattro anni dopo e per due mandati. Infine, nel film, colpisce la serena rassegnazione di Lincoln al futuro che incede: in calesse con la moglie parla di Gerusalemme poco prima del colpo di pistola che in un teatro di Washington l’avrebbe ucciso. A sparargli fu un attore virginiano: una vendetta sudista e “spettacolare”, non caso omessa da Spielberg, sul realismo di un uomo che s’è avvalso di un azzardo, ma al servizio della politica e della sua autonomia dal mercato (lo schiavismo sorreggeva l’economia di interi Stati). Ben altro da una combine del genere dei presunti “responsabili”.
Per non parlare del personaggio di Thaddeus Stevens, interpretato con accenni luciferini e umanissimi da Tommy Lee Jones con parrucchino che non fa rimpiangere Lionel Barrymore (fu Stevens sullo schermo nel 1942). E’ il deputato repubblicano fieramente anti-razzista che limita il suo egualitarismo pur di far passare il tredicesimo emendamento: il riformismo necessario di un radicale, che festeggia a casa leggendo il testo appena approvato alla governante mulatta, sotto le coperte. Con un politico del genere, a voler assecondare il giochino di attualizzare, l’ultimo governo Prodi non sarebbe mai caduto.
“Il bello è brutto e il brutto è bello”, risuona in Macbeth, una delle somme tragedie del potere, e Daniel Day-Lewis, figlio della Royal Shakespeare Company, restituisce perfettamente il prisma delle molte immagini, interrogazioni, lacerazioni, visioni di Lincoln, esso sì machiavellico a dispetto dell’aggettivo usurpato lungo i secoli dal Realpolitiker di turno. Il cuore del film di Spielberg è il dilemma della complessità e dei suoi nodi gordiani, ovvero, semplicemente, l’“esperienza della modernità” (Marshall Berman). L’ambivalenza di Lincoln serba lampi scespiriani, non certo “berlusconiani”, quasi un sinonimo antropologico di “italiani”, ormai, sinistra inclusa.
Non sempre fummo così. Dal dopoguerra fino ai primi anni Settanta, l’Italia è capace di elaborare modelli culturali e visioni del mondo che, nonostante il limite della lingua parlata soltanto da noi, giocano un ruolo extra moenia, influenzando élites intellettuali e artisti in mezzo mondo, ancora oggi pronti a dichiararsi in debito verso Roma città aperta, Ladri di biciclette o la serie di «Django». Quentin Tarantino non è l’unico a ricordarsi degli spaghetti western e di un protagonista originale come il Django di Franco Nero (regia di Sergio Corbucci, 1965), l’attore che adesso si presta a una fugace apparizione autoironica in Django Unchained. Basti pensare a Sukiyaki Western Django di Takashi Miike, omaggio giapponese del 2007 ai western all’italiana. Quei film dietro la patina parodistica spesso riservano una consapevolezza radicale dei meccanismi del racconto e un’implicita ribellione al predominio USA, conditi talora da venature politiche sinistrorse che oggi si è inclini a enfatizzare, ma che non andrebbero ignorate.
Django Unchained ha fatto furore al botteghino ed è sua volta candidato a cinque Oscar: è lungo, pirotecnico, sanguinolento, assai ironico con tocchi demenziali alla Mel Brooks. Il film si basa sul rovesciamento del paradigma che affibbia al pistolero bianco l’eroismo senza macchia e senza paura. Qui infatti Django è uno schiavo nero, liberato da un ex dentista e cacciatore di taglie tedesco affinché lo aiuti a rintracciare tre fratelli del Profondo Sud sulla cui testa pende il classico annuncio di ricompensa per chi li assicurerà alla giustizia Dead or Alive. La strana coppia formata dal Nero e dal Crucco (Jamie Foxx e Christoph Waltz) diventa presto una formidabile “ditta” deputata alla “rottamazione” dei padroni e dei negrieri, parafrasando il lessico commerciale di Bersani e Renzi che invece sembra abbiano rinunciato l’uno all’altro, quién sabe.
Le tre ore del film culminano in una sparatoria tragica e fumettistica, il cui movente – anche qui come in Lincoln – è l’ineluttabilità di una scelta. Quando le cose paiono mettersi per il meglio e la moglie di Django finalmente sarebbe sottratta alla schiavitù in virtù dell’accordo con il diabolico proprietario terriero interpretato da Leonardo Di Caprio, il tedesco rifiuta di stringergli la mano. Ma quegli insiste con affettazione sudista mista a minaccia. E allora, pum pum pum. Ambientato alla vigilia della guerra civile americana – siamo nel 1858 -, Django Unchained non è tra i film stilisticamente più interessanti di Tarantino. Il suo tipico gioco dei piani temporali che da Pulp Fiction ai due Kill Bill convivono all’insegna di una beffarda anarchia narrativa, stavolta si risolve nel ricorso frequente e tradizionale al flash back: il passato ritorna. Sotto forma di promessa, minaccia, convezione, citazione, questo ritorno è il marchio “post-moderno” del regista, il quale si ritaglia un’apparizione sacrificale nella trama e si avvale in colonna sonora delle note di Ennio Morricone, Luis Bacalov e del «Trinità» di Franco Micalizzi. Nondimeno, ha forse qualcosa da ricordare all’Italia d’oggi orfana di se stessa.
Del resto, è nelle nostre sale anche il film d’animazione Frankenweenie di Tim Burton, favola gotica in stop motion di un ragazzino che riesce a riportare in vita l’amato cagnetto Sparky emulando un esperimento galvanico su una rana, visto a scuola. Una scossa elettrica al passato per ravvivare il presente: azione degna di Benjamin Franklin, elettrologo e politico, tra i Padri fondatori che stilarono la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione. C’era una volta in America, a volte ritorna.