La disuguaglianza nei redditi e nelle ricchezze è oramai un’emergenza. Lo è perché nel corso degli ultimi due decenni , comunque, misurata, essa è cresciuta in quasi tutti i paesi avanzati e perché, al di là della sua altezza, la disuguaglianza ha, oggi, aspetti che appaiono ben poco accettabili e giustificabili. Il problema, infatti, riguarda non soltanto la distanza tra “ricchi” e “poveri” ma anche le caratteristiche di questi due aggregati: chi sono i “ricchi” e i “poveri” e, soprattutto, come sono diventati (o restati ) tali.
In questo contesto, non sorprende che, circa un mese fa (precisamente il 13 ottobre) l’Economist abbia dedicato un gran numero di pagine alla disuguaglianza sostenendo, tra l’altro, che essa “ha raggiunto uno stadio nel quale essa è inefficiente e negativa per la crescita” – un’affermazione, questa, di non poco conto, se si considera che l’Economist certamente aderisce all’idea, piuttosto diffusa, secondo cui almeno un po’ di disuguaglianza è necessaria per la crescita. Né sorprende il gran numero di contributi sul tema pubblicati di recente, tra i quali si possono ricordare due importanti studi dell’OCSE, nell’ultimo dei quali (Divided we stand. Why inequality keeps rising del 2011 ) si legge che la disuguaglianza rappresenta oramai, in molti paesi, un serio rischio per la coesione sociale.
Per stabilire cosa si possa fare per contrastare la disuguaglianza e per contenerne gli aspetti meno accettabili è indispensabile cercare di capire come e dove essa si formi. Sfortunatamente si tratta di un compito non semplice, ma eluderlo equivale a correre il rischio di proporre “ricette” di efficacia dubbia se non proprio perversa. Ed è molto dubbia l’efficacia della ricetta che raccomanda la crescita come soluzione (che, secondo l’interpretazione di Antonio Polito su “La Lettura” del Corriere della Sera del 4 novembre, sarebbe quella più coerente con l’analisi dell’Economist) così come è assai dubbio che complessive – diversamente da quanto sostiene Roger Abravanel sul Corriere della Sera del 10 novembre – dosi accresciute di competizione sul mercato del lavoro, indipendentemente dalla loro più generale desiderabilità, possano ridurre le disuguaglianze economiche.
Proviamo, molto sommariamente, a acquisire qualche elemento utile per capire dove e come si forma la disuguaglianza, partendo qualche semplice dato. In Italia la disuguaglianza dei redditi disponibili misurata con l’indice di Gini, che è l’indicaatore più diffuso, all’inizio della crisi, era pari a circa il 34%. Si tratta di un valore molto elevato, uno dei più elevati tra i paesi avanzati. Se escludessimo l’azione redistributiva dello Stato, che si realizza attraverso le tasse e i trasferimenti, risaliremmo ai redditi che si formano nei mercati. Naturalmente, la disuguaglianza calcolata su questi redditi è più alta; in Italia essa raggiunge il 53% in termini dell’indice di Gini, che è il valore più alto in assoluto tra i paesi avanzati. Al di là di questo, conta il fatto che la disuguaglianza nei redditi di mercato è notevolmente aumentata, nel corso degli ultimi due decenni; e questo è avvenuto non soltanto in Italia, ma nella quasi totalità dei paesi occidentali.
I mercati, quindi, hanno prodotto molta più disuguaglianza rispetto al passato e gli Stati, con la redistribuzione, spesso hanno fatto in modo che la disuguaglianza nei redditi disponibili crescesse meno di quella di mercato. In realtà, l’efficacia redistributiva nel nostro Stato è piuttosto debole: molti altri paesi dell’Europa Continentale e Settentrionale (come l’Austria, il Belgio, la Finlandia e anche la Germania e la Francia) hanno fatto meglio.
Il problema della riduzione delle disuguaglianze si pone, quindi, in questi termini: o si riducono le disuguaglianze di mercato o si accresce l’efficacia redistributiva dello Stato o si fanno entrambe le cose. Questa è, naturalmente, soltanto una prima approssimazione. Per fare l’una o l’altra di queste cose occorre un approfondimento che ci indirizzi nella ricerca di soluzioni concrete.
A rendere alte le disuguaglianze nei redditi di mercato – e, soprattutto, a farle crescere negli anni precedenti la crisi – ha certamente contribuito l’innalzamento dei rendimenti sul capitale, in particolare sul capitale finanziario. Ciò è avvenuto perché i capitali sono distribuiti in modo molto diseguale (ben più diseguale dei redditi); pertanto, se aumenta il tasso di rendimento su di essi inevitabilmente aumenta anche la disuguaglianza nei redditi. Per contenere questa disuguaglianza le alternative non sono molte: correggere ex post la distribuzione con l’intervento dello Stato sui redditi; contenere i tassi di rendimento dei capitali; ridurre la disuguaglianza nella distribuzione dei capitali, che richiede un intervento dello Stato sui patrimoni. Se nessuna di queste soluzioni è considerata praticabile, la disuguaglianza che si produce nei mercati dei capitali non potrà essere ridotta.
Consideriamo ora i redditi da lavoro.
Tra il 1980 e il 2008 la disuguaglianza tra salariati è notevolmente aumentata, in quasi tutti i paesi avanzati (le uniche eccezioni sembrano essere la Francia e il Giappone). Se guardiamo al mondo del lavoro nel suo complesso (includendo, quindi, anche il lavoro autonomo) l’aggravamento della disuguaglianza è, in generale, maggiore. Un significativo contributo a questo peggioramento lo hanno dato i cosiddetti working rich cioè coloro che derivano redditi elevatissimi dal proprio lavoro. Infatti, se si osserva la composizione dellì1% più ricco della popolazione, si nota che in molti paesi essa è significativamente cambiata, a vantaggio di coloro che derivano il proprio reddito non dal capitale ma dal lavoro. Si tratta, principalmente, dei top manager delle grandi imprese private (e qualche volta anche di superburocrati pubblici) e delle cosiddette superstar dello spettacolo e dello sport.
La causa principale delle disuguaglianze nei redditi da lavoro viene individuata nel capitale umano, che di norma è misurato con il titolo di studio conseguito o con gli anni dedicati alla propria formazione. E’ indubbio che la disuguauglianza salariale dipenda da questa variabile. Tuttavia un’analisi più approfondita rivela che solo una parte molto piccola della disuguaglianza nei salari è dovuta al capitale umano. Infatti, in tutti i paesi, e quindi anche nel nostro, è elevatissima la disuguaglianza tra lavoratori dotati dello stesso capitale umano (questo è il risultato che emerge da un mio lavoro con Michele Raitano presentato all’ultima riunione scientifica della Società Italiana degli Economisti).
Sembrerebbe quindi che altri fattori, oltre al capitale umano, operino nei mercati come causa di disuguaglianza. Quali essi siano non è facile dire. Ma vi è quasi certamente un’influenza del tipo di contratto, del settore nel quale si opera (uno studio riferito agli Stati Uniti mostra, ad esempio, che le retribuzioni nel settore della finanza sono sensibilmente più elevate, a parità di caratteristiche dei lavoratori), di altre abilità non facilmente identificabili e, per vie complesse, del background familiare. Le disuguaglianze a parità di capitale umano sono, fino a prova contraria, difficilmente accettabili e sembrano anche in contrasto con un’ idea minimale di merito.
Rispetto al ruolo delle istituzioni del mercato del lavoro, appare sufficiemente accertato che quando esse sono più favorevoli alla difesa dei lavoratori, le disuguaglianze sono minori. In generale, come risulta anche dallo studio dell’OCSE citato in precedenza, sono fattori di aggravamento della disuguaglanza: la perdita di potere contrattuale da parte dei sindacati, la diminuzione dei costi di licenziamento, la riduzione degli strumenti a protezione dell’occupazione e l’abbassamento del livello e della durata dei sussidi di disoccupazione. Ma i maggiori effetti sembra averli il salario minimo: quanto più esso è basso tanto maggiore, e in modo significativo, è la disuguaglianza salariale.
Tutto ciò porta nella direzione opposta rispetto a quella secondo cui la maggiore competizione nel mercato del lavoro ridurrebbe le disuguaglianze. E’ probabile che chi, come Abravanel, sostiene quella tesi pensi soltanto alle distanze tra i lavoratori “protettI” e gli altri. Queste distanze forse si ridurrebbero, ma ciò probabilemnte avverrebbe con un abbassamento dei salari medi dei lavoratori interessati e la conseguenza sarebbe un allontanamento dai redditi pù alti e, quindi, un peggioramento della disuguaglianza sull’intera distribuzione, che dovrebbe essere quella che più conta.
La concorrenza, per quanto di per sé desiderabile, non costituisce necessariamente una misura idonea a ridurre le disuguaglianze. Al contrario, essa potrebbe aggravarle. Questo sembra valere anche con riferimento alla concorrenza sul mercato dei prodotti: uno studio recente (di Michele Raitano e Francesco Vona, presentato anch’esso alla riunione scientifica della Società degli Economisti di quest’anno) dimostra che, in Italia, nei settori nei quali è aumentato il grado di concorrenza (come rilevato dai comuni indicatori) la disuguaglianza nelle retribuzioni dei lavoratori è aumentata, penalizzando gli operai a vantaggio degli impiegati. Tutto ciò può essere giustificato e accettabile per i più diversi motivi, ma va nella direzione opposta rispetto a quella richiesta per considerare la concorrenza, di per sé, un correttivo alla disuguaglianza.
Queste considerazioni permettono anche di escludere che la crescita economica possa automaticamente ridurre le disuguaglianze. D’altro canto questo è quanto emerge dall’analisi della letteratura specializzata (che non trova prove di una sistematica influenza positiva della crescita sulla disuguaglianza) e forse anche dall’osservazione di alcuni semplici fatti: negli Stati Uniti prima della crisi la crescita economica è stata sostenuta e la disuguaglianza è cresciuta e, in quello stesso paese, nel 2010 il 93% dell’aumento di reddito verificatosi nel paese è andato all’1% più ricco. La crescita ha aumentato e non diminuito le disuguaglianze. Questo non vuol dire che la crescita non possa essere accoppiata a disuguaglianze decrescenti; ma perché ciò avvenga occorrono interventi ulteriori e mirati. La crescita non ha effetti automatici e certi.
Per identificare questi altri interventi, vale la pena di riflettere brevemente su quanto si è detto a proposito della disuguaglianza nei redditi da lavoro. Se, come si è visto, il mercato non remunera il capitale umano in modo uniforme, eguagliare le dotazioni di capitale umano (principalmente con una rinnovata politica della scuola) può essere utile (anche per altri motivi) ma avrebbe, di per sé, un effetto piuttosto limitato sulle disuguaglianze. Inoltre, la tendenza alla variabilità delle retribuzioni, anche a parità di capitale umano, appare tanto maggiore quanto più concorrenziali sono i mercati e quanto meno “protettive” sono le istituzioni sul mercato del lavoro.
Se conoscessimo esattamente cosa viene remunerato sul mercato del lavoro quali sono le dotazioni individuali che esso apprezza (e purtroppo non lo sappiamo bene, anche perché ci si è concentrati quasi esclusivamente sul capitale umano) potremmo pensare di ridurre le disuguaglianze nei redditi operando sulla distribuzione di queste dotazioni. Il compito dello Stato potrebbe essere questo e riguardare, quindi, l’insieme di queste dotazioni e non soltanto quelle di capitale umano. Ma non sappiamo esattamente quali siano queste dotazioni e, soprattutto, non sappiamo se lo Stato possa davvero redistribuire tutto ciò che conta nella valutazione che il mercato dà del lavoratore.
Dunque, seguendo lo schema già applicato al mercato dei capitali, le tre forze della disuguaglianza dei redditi sembrano essere: la disuguaglianza nelle dotazioni, il funzionamento del mercato come “erogatore di premi” e la debolezza dell’azione redistributiva dello Stato, che dipende anche ma non solo dal sistema fiscale.
In breve, per ridurre le disuguaglianze occorrerebbe correggere la distribuzione delle dotazioni che il mercato “premia”, modificare il funzionamento dei mercati o redistribuire reddito attraverso l’azione dello Stato.
Se non si vuole praticare questa ultima soluzione (vecchio arnese della sinistra, secondo molti) occorre puntare sulle altre due, nella consapevolezza che si possono incontrare molte difficoltà e che non vi sono soluzioni alternative, facili e semplici. Ma vi sono buone ragioni per pensare – e così concludo – che la strada maestra consista nel cercar di agire, con la giusta misura e per quanto possibile, su ciascuna di queste tre forze della disuguaglianza.
Se il capitale umano è misurato rapportandolo al grado d’istruzione appare evidente che non può essere un parametro efficace se si pensa all’eterogeneità della qualità dell’istruzione nel nostro paese. Il capitale umano è più complesso ed include la capacità di autodeterminazione e la disponibilità alla fiducia negli altri : datore di lavoro ( chiunque esso sia ) e lavoratore ( a qualunque categoria appartenga ) devono condividere un minimo di cultura del lavoro , il legame con il territorio e alcuni obiettivi comuni senza la mediazione di terzi.
Condivido a pieno l`analisi. Rimando brevemente ad un testo italiano per chi volesse approfondire il tema. «Disuguaglianze diverse» a cura di Daniele Checchi