Il 2011 sarà ricordato come l’anno in cui l’Italia ha scoperto Twitter, il social network dell’uccellino azzurro. In 140 battute racchiudere un’informazione, ma anche un pensiero o un’opinione, una facezia o una chiamata alla militanza politica. Ecco la sfida che ormai quasi tre milioni di italiani hanno raccolto, numero che raddoppia la cifra stimata sul finire del 2010 e, sebbene ancora lontano dai 21 milioni di Facebook, dice che i twittatori non sono più un’élite. L’arrivo su Twitter di star dello spettacolo (da Fiorello a Jovanotti) e di grandi giornalisti (tutti i direttori dei grandi quotidiani italiani sono presenti e attivi), sta sparigliando le carte ancora una volta nel mondo dell’informazione nostrano. Abbiamo chiamato a ragionare su questo cambiamento un sociologo, un deputato, un’attivista, un giornalista e un esperto di comunicazione politica, ovvero alcuni tra i twittatori italiani che più di altri hanno capito, accettato e valorizzato le regole del nuovo gioco della comunicazione.
Giovanni Boccia Artieri: Siamo di fronte alla trasformazione della sfera pubblica come l’abbiamo intesa tradizionalmente. Questo passaggio non è stato capito fino in fondo né dai media né dalla politica. La sfera pubblica non è più creata da media centralizzati, oggi nascono piuttosto diverse sfere pubbliche connesse tra loro. I blog e i social network, tra cui Twitter, hanno il potere di far emergere alcuni temi interessanti dei quali ora anche media e politica si accorgono. Ma cosa fanno i vecchi intermediari dell’informazione? Si parla di «disintermediazione».
Alessandro Lanni: Quali sono gli effetti della «disintermediazione» sull’opinione pubblica?
Boccia Artieri: La disintermediazione può essere presa in considerazione fino a quando la cultura digitale coinvolge un’élite. Nel momento in cui viene coinvolta la massa, sia su Facebook che su Twitter, gli intermediari rinascono. E allora diventa interessante capire, per esempio, la funzione che assumeranno i personaggi pubblici presenti nella rete durante la prossima campagna politica. In vista dei referendum Fabio Volo su Facebook ha scritto «Che figo votare, lo farei tutti i giorni» provocando uno straordinario numero sia di like che di commenti. Oggi tanti personaggi pubblici come Fiorello, Jovanotti e altri sono presenti nella rete. Gerry Scotti, per esempio, usa una strategia molto conversazionale su Twitter, dove è arrivato da un paio di mesi. Insomma, proprio i personaggi che sembrano avere una funzione di disintermediazione sono, in realtà, star pubbliche che, grazie al loro elevato numero di follower, riproducono la comunicazione di massa all’interno dei social network. Se analizzassimo le evoluzioni di Twitter nell’ultimo anno vedremmo che oggi i centri di diffusione delle informazioni sono più concentrati, perché ci sono molti più follower che riproducono e commentano contenuti prodotti da pochi, mentre un anno fa c’erano molti più contenuti prodotti da tanti che si occupavano anche della selezione. Un anno fa, secondo i parametri di Twitter, avere trecento follower significava confrontarsi con tutte persone che conoscevano bene la rete ed erano abituate a selezionare, mentre oggi, con settemila follower, ci si concentra piuttosto sulle dinamiche relazionali interne.
Lanni: Andrea Sarubbi è deputato e giornalista. E, dalla Camera, ha svolto in modo inedito questo secondo compito. Ora, Sarubbi, assumendo uno sguardo «strabico» quale il suo, quali sono le conseguenze evidenti di questa trasformazione nella politica?
Andrea Sarubbi: Twittando dall’interno del Parlamento ho «ucciso» agenzie di stampa e televisione. Lavorare «da dentro» favorisce una rivoluzione, perché rende evidente che le inquadrature concentrate solo sul parlante e non sul contesto sono poco veritiere: alla Camera anche le presenze e le assenze durante i discorsi dei diversi politici costituiscono un messaggio. Facciamo un esempio: la scena in cui Maroni chiede a Calderoli dove sia Bossi e la risposta del secondo fa intuire che Bossi sta facendo un pisolino. Questa è una notizia che nessuna agenzia di stampa racconterà mai. La possibilità di avere notizie di prima mano rappresenta una rivoluzione nel mondo dell’informazione. A livello qualitativo, quindi, il cambiamento c’è stato. Ciò che è andata facendo Marina Petrillo per Radio Popolare su piazza Tahrir, come quello che fa Claudia Vago sulle rivoluzioni dal basso, rappresentano stangate all’informazione tradizionale. Che, comunque, continua a poter contare su spalle larghe e poltrone comode e quindi non si smuove, ma che forse dovrebbe vergognarsi. Infatti se il Tg1 non comunica neanche un quarto di quello che queste giornaliste twittano, è palese che quel telegiornale non può essere più considerato la maggiore fonte di informazione del paese.
Lanni: E i politici stanno comprendendo questa trasformazione?
Sarubbi: Il politico si chiede se usare questo strumento per essere rilanciato dai media nazionali, visto che le classiche agenzie sono sommerse da comunicati stampa. Casini (che su questa piattaforma è @pierferdinando) grazie a Twitter per esempio risolve il problema della comunicazione giornaliera pubblicando solo due righe. Ma il politico, usando Twitter, sa che si rivolgerà a un’utenza sicuramente ridotta rispetto ai media tradizionali. Io mentre parlo ho 6-7000 utenti, quando ero in onda la domenica su Rai1, invece, mi seguivano in media tre milioni di persone che sentivano qualsiasi cosa dicessi. Twitter apre un nuovo mondo alla politica tradizionale nata con le fiere e i comizi e proprio per questo la politica deve accettare le nuove regole del gioco: mentre in televisione la comunicazione è univoca, nella rete c’è l’obbligo della bidirezionalità altrimenti la si usa solo come un ripetitore personale e questo porta il pubblico ad annoiarsi. Questo finirà per succedere anche a Nichi Vendola se si ostina a non rispondere ai suoi follower (adesso il leader di Sel ha iniziato a interagire, ndr). Allo stesso modo i politici che pubblicano su Twitter solo i comunicati stampa commettono un errore. Io credo che se dedico un determinato tempo all’autopromozione devo dedicarne almeno il triplo al contatto diretto, perché lì si è davvero in contatto con le persone che fino a poco tempo fa vedevano solo in tv i personaggi famosi e che oggi, grazie a questi mezzi, possono «toccare con mano».
Lanni: Claudia Vago, provenendo da un’esperienza professionale diversa, ha fatto nascere il suo percorso in rete dal basso, ottenendo un riconoscimento pubblico ormai nazionale. In rete la sovrapposizione tra attivismo politico, militanza e informazione – che tradizionalmente nel mondo dell’informazione sono ben separati – è lecita? E questo deve essere considerato un limite?
Claudia Vago: Si tratta di una questione molto delicata su cui spesso mi interrogo. Raccontare le rivoluzioni fa sì che questi due aspetti coincidano. Durante la rivoluzione in Tunisia una delle maggiori fonti di informazione su quello che stava accadendo era proprio Twitter, usato dalle persone che vivevano in quel momento ciò che accadeva nelle piazze raccontando in diretta le azioni della polizia. È proprio per questo che si sovrappongono le figure dell’attivista e di colui che fa informazione. Questo fenomeno potrebbe diventare un limite, ma credo che ci sia ancora molto da «inventare».
Lanni: Le manifestazioni del 15 ottobre scorso sono state discriminanti per il concetto di militanza. Alcuni articoli pubblicati nei giorni successivi hanno messo in discussione l’idea stessa della grande manifestazione di piazza. Cosa ne pensate?
Vago: Il 15 ottobre ha rappresentato uno spartiacque per il nostro paese, dove molti vivevano come bendati e immersi in un sogno. Credo che gli organizzatori della manifestazione del 15 ottobre in Italia non ne abbiano colto a pieno lo spirito mondiale respirato, invece, negli altri paesi. In Italia erano presenti sindacati e partiti, mentre all’estero la manifestazione è partita dal basso, dai cittadini, i famosi «indignati» – anche se non credo questa definizione abbia molto senso. Per questo, credo, quel giorno ci siamo accorti che il mondo, mentre noi eravamo fermi, stava andando in un’altra direzione.
Lanni: Le prossime manifestazioni, quindi, saranno fatte in rete?
Vago: No. Credo che l’attivismo in rete rappresenti una fetta importante dell’attivismo ma non credo sia l’alternativa. L’occupazione di Wall Street, per esempio, è nata da un post sul blog di Adbusters a luglio, quindi si può dire che sia nato prima l’hashtag che il progetto, ma ciò non toglie che se si fossero limitati a parlarne in rete, Zuccotti Park non sarebbe stato mai occupato. La rete è importante perché aiuta le persone a sentirsi più vicine, a coordinarsi, a sentirsi meno sole nell’elaborare strategie utili a raggiungere obiettivi comuni, ma da sola non basta. Non so se l’era delle manifestazioni di piazza sia finita, sicuramente non si dovrebbe mai distruggere una piazza come è successo a Roma, ma credo che, pur non essendo l’unico obiettivo, le grandi manifestazioni a cui partecipano molte persone, forti del fatto di essere in tante, servano ancora. La politica, però, non si fa in piazza e purtroppo neanche in rete.
Lanni: Il flusso continuo su Twitter può essere filtrato anche attraverso uno strumento come l’hashtag, il cancelletto (#), che da categoria per argomenti sta assumendo anche nuovi usi, alcuni molto interessanti. Saranno gli hashtag a dettare l’agenda politica del futuro prossimo?
Dino Amenduni: Nel caso della comunicazione politica su Twitter gli hashtag migliori non sono partiti dai comitati elettorali bensì da contributi spontanei degli utenti che probabilmente non immaginavano le conseguenze di queste idee creative. Nello stesso tempo bisogna sottolineare che gli hashtag che hanno funzionato meglio sono stati quelli in cui il ruolo del politico è risultato marginale. Durante il recente cambio di governo si sono verificate alcune eccezioni legate al mondo del giornalismo, dove sono stati i giornali on line a lanciare gli hashtag per raccontare quello stava accadendo e ad aggregare gli aggiornamenti sotto un unico filo conduttore. Nella comunicazione politica, il cancelletto è uno strumento dialettico, di opposizione, più distruttivo che costruttivo. A questo proposito penso che Nichi Vendola debba iniziare davvero, come sottolineava Sarubbi, a rispondere agli utenti sfruttando il vantaggio competitivo iniziale che ha avuto in questo settore. Non basta più il lavoro dei tecnici, ormai, ma servono il tempo, la spontaneità e l’esposizione diretta del politico coinvolto. Non serve solo essere presente nei nuovi media ma bisogna seguire anche le regole e gli stili propri di questi strumenti.
Lanni: Fiorello ha usato un hashtag – #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend – per il titolo della sua ultima trasmissione, quella di maggior successo della stagione televisiva. Questo può trasformare in negativo le caratteristiche positive che riconosciamo a Twitter? Si stava meglio quando stavamo in pochi?
Filippo Sensi: La contaminazione dei linguaggi e dei mezzi deve sempre essere considerata in maniera positiva anche se a volte gli obiettivi dei diversi player coinvolti possono essere meno trasparenti di quello che appaiono. Un esempio positivo è il # posto davanti al titolo del documentario, trasmesso da Sky, sui giorni della caduta del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti (il titolo era #308, il numero di parlamentari che ha votato il documento che ha sancito di fatto la fine dell’esperienza di governo del Cavaliere, ndr); e credo che si possa dire lo stesso per il programma di Fiorello trasmesso dalla Rai. Si tratta di un vero gioco linguistico flessibile, malleabile e come ogni gioco linguistico ha regole e lessico, insieme con un lato virale di condivisione. In questo «pluriverso» la relazione qualità-quantità è biunivoca. Sicuramente la qualità cambia la quantità, e quindi il fatto che su Twitter ogni giorno entrino milioni di utenti cambia la qualità, la rilevanza e la risonanza del dibattito che si affronta, ma è vero anche che la qualità di chi entra nel gioco violando le regole del «galateo di Twitter» cambia la quantità e i volumi della partecipazione. Guardando il fenomeno in maniera ottimistica si può vedere l’opportunità fornita da questi strumenti senza dimenticare che esiste, come sempre, un rovescio della medaglia. Le cose in rete subiscono una trasformazione di qualità, cambiano di segno e quindi spesso anche i soliti «vecchi strumenti» di informazione e giornalismo in rete funzionano meglio. Eviterei, proprio per questo, di alimentare una contrapposizione tra una rete di dilettanti che sono in realtà tutt’altro che allo sbaraglio contro una casta di giornalisti intorpidita e impacchettata, visto che, a loro volta, anche i giornalisti si sono dimostrati in gamba e lo dimostra la presenza dei direttori dei giornali attivi e propositivi in rete.
Lanni: Sembra però che l’uso principale che la carta stampata fa di questi mezzi sia autoreferenziale. L’ingresso in rete dei grandi player (star televisive o altro) potrebbe trasformarli in meri strumenti di marketing, al servizio di meccanismi verticali, quasi televisivi, piuttosto che orizzontali, e al servizio della vendita del marchio personale, programma televisivo, libro, idea?
Vago: Credo che Twitter sia un news network più che un social network. Infatti lo sbarco di vip che lo usa per chiacchierare non lo usa per quello che è, Twitter è uno strumento di altro tipo, che si presta alla diffusione di notizie, siano articoli di giornali che breaking news. La socializzazione su Twitter è molto più difficile che su altre piattaforme e quello che conta sono i contenuti più che chi emette il messaggio.
Boccia Artieri: Sono parzialmente d’accordo con Claudia. I vip che entrano in Twitter utilizzano un linguaggio da «bimbominkia» simile a quello usato dagli adolescenti che piegano il mezzo a una dinamica conversazionale e che twittano in pubblico messaggi privati come se si trovassero in chat. Al di là di questi fenomeni mainstreem come l’essere retwittato da Fiorello che sembra quasi di toccare la Sindone, ciò che cambia è però la consapevolezza delle persone che si sentono meno oggetto di comunicazione e più soggetto attivo della stessa. La cultura che si è sviluppata nella rete porta a una bidirezionalità e giocarla in maniera finta funziona poco. Questo vale anche per la costruzione di un hashtag: costruirlo dall’alto può funzionare per un evento, ma quelli che hanno più successo sono quelli che nascono in maniera casuale dal basso e che vengono ripresi da qualche personaggio importante.
Lanni: Qualche settimana fa, l’utente @palazzochigi – poi rivelatosi un falso e fatto chiudere dalla polizia postale – ha creato scompiglio tra i frequentatori italiani di Twitter. C’è chi difendeva la possibilità di creare identità fittizie on line e chi denunciava i rischi di false identità, soprattutto se pubbliche.
Amenduni: Non mi è chiaro cosa spinge, ancora oggi, a prendere in considerazione solo uffici stampa tradizionali, lasciando in secondo piano il web. In realtà la commistione dei mezzi di comunicazione tradizionale e quelli appartenenti al web 2.0 è già avvenuta e l’opinione pubblica oggi è frutto di questa osmosi. Non è chiaro perché Palazzo Chigi non debba avere un profilo su Twitter, a differenza di Downing Street che lo ha, a prescindere dall’età media dei membri del governo. Dal punto di vista dei rischi credo che grazie al web in realtà siano state evitate crisi comunicative forti. Internet per i politici e i loro staff deve essere una sentinella che pur ponendo maggiori difficoltà nella gestione regala molti vantaggi legati al tempo di azione e reazione alle mosse degli avversari. Gestendo al meglio le dinamiche comunicative on line i rischi possono essere trasformati in opportunità, sfida principale della comunicazione politica.
Sarubbi: Io sono rimasto impressionato per la sua trasparenza dall’esempio del nuovo ministro degli Esteri Giulio Terzi che, tra i suoi primi atti, è entrato su Twitter (@giulioterzi è il suo account) fornendo agli utenti alcune notizie importanti in maniera semplice. Questo va considerato come un aiuto alla politica e non come un danno a Twitter. L’hashtag #opencamera – per parlare delle cronache della Camera – è nato da un’idea, in particolare in un messaggio privato, tra me e Claudia Vago che ha aperto una strada a una serie di persone che si sono rese conto dell’interesse suscitato e vogliono entrare a farci parte. In linea di massima quindi non bisogna parlare di rischi ma di opportunità. Se Terzi, quindi, si impegna in questo canale non può che far bene alla politica e non danneggia neanche Twitter, così come non lo danneggia Fiorello, visto che anche su Twitter si può smettere di seguire una persona molto facilmente. Bisogna pensare che non si tratta di una gara tra persone, e che Twitter è fatto per molti. Io non tornerei al tempo in cui si era in pochi, preferisco condividere il più possibile e avere ottomila persone che mi seguono anche se questo può portare a commettere alcuni errori, e io ne ho fatti alcuni che mi hanno insegnato molto. Ho sbagliato e sono stato corretto. Meglio avere una politica che sbaglia in rete piuttosto che una politica imboscata che fa aumentare la diffidenza verso la casta. Proprio per questo auspico che Palazzo Chigi e tutti i ministeri entrino in rete con un vero profilo, ci credo poco vista la poca predisposizione degli attuali ministri, ma da qui a vent’anni spero che questo accada, o magari anche tra dieci o cinque.
Boccia Artieri: Dall’esperienza di @palazzochigi è nata l’opportunità di sviluppare una cultura digitale. Fa parte del dibattito democratico anche chi tende a difendere i fake che sono una modalità di sviluppare quell’attivismo politico che è attorno al gioco del linguaggio delle parole. Credo quindi che tutto questo sia solo positivo, non sarei preoccupato del fatto che entrano in rete alcune star. Il Pdl, che sta preparando una strategia per entrare in rete durante la campagna elettorale, si troverà davanti una cultura pubblica più preparata del passato e non potrà seguire le proprie regole non tenendo in considerazione quelle specifiche del mezzo.
Vago: Pensiamo alla Moratti e a quello che ha combinato durante la campagna elettorale della scorsa primavera.
Sensi: A proposito dei fake, nella campagna elettorale americana, entrando e uscendo dai social network, grande parte dello sforzo comunicativo delle campagne – pensiamo alle primarie dei Repubblicani – è fatto con siti internet a tema, diversi dai siti ufficiali – posso andare a vedere cosa pensa Mitt Romney o Rick Perry sui siti ufficiali – sia che nascano dal basso sia che siano registrati e che abbiano una forza comunicativa basata su una determinata opinione. I fenomeni in America sono molto complicati da seguire, vista la quantità di associazioni, movimenti e lobby esistenti e la massiccia presenza sulla rete. In più le campagne frammentano sempre di più la loro offerta di comunicazione politica, quindi, a riprova della falsificazione in rete, il fake è diventato uno strumento di marketing elettorale, più che una burla.
Boccia Artieri: I fake possono anche essere segno di attivismo politico e di cittadinanza.
Vago: Anche su questo l’Italia è arrivata tardi. Esiste un account fake di Angela Merkel fatto molto bene, mentre nel nostro paese non sono diffusi vista la difficoltà di fare satira sulla nostra politica. Fare la parodia di Berlusconi è impossibile essendo lui parodia di se stesso.
Sensi: Un episodio carino riguarda il sindaco di New York Michael Bloomberg sul quale giravano voci che provasse spesso a parlare spagnolo per i latinos della città. Questo ha provocato l’uscita di un fake chiamato Elboombito che in poco tempo ha raccolto milioni di fan e che posta tweet strepitosi in spenglish – misto di spagnolo e inglese – diventando un vero caso mediatico. È uno dei tanti casi di avatar doppi che iniziano ad arrivare anche da noi e che presto saranno strumento di spin.
Vago: Bisogna partire dal presupposto che le persone che si esprimono sui social network fanno parte della vita reale, per cui se esiste il populismo nella società esisterà anche nella rete. Solo la politica, con risposte vere, può sconfiggere il populismo. La funzione della rete è solo quella di amplificare ciò che viene detto.
Boccia Artieri: I contenuti in rete sono permanenti, ricercabili e duplicabili. Questo fa sì che di volta in volta riemergano dopo un periodo di oblio grazie a nuovi tag, a nuove ricerche ecc. Per questo è necessaria una cultura digitale per vedere il contesto e il periodo nel quale quei determinati contenuti sono stati prodotti. Noi ragioniamo sempre nei termini di una sfera pubblica pensata da Habermas che fa riferimento a una società che non è più la stessa di cinquant’anni fa. Se prima la sfera pubblica era il luogo di rappresentazione dell’opinione pubblica fatto da mediatori professionisti, adesso ci sono una serie di temi per i quali le persone possono rappresentarsi da sole.
Sensi: Sul populismo faccio solo due esempi. Primo: le cosiddette «tecnocrazie» hanno rianimato contenuti complottardi in rete, video, post, nei quali si rievocano i peggiori contenuti populisti di sempre. Come per i Protocolli dei Savi di Sion 2.0, bisogna monitorare e non sottovalutare il fenomeno che può avere una forza virale. Per fare un esempio, l’intervento contro la plutocrazia, la Trilateral e Bildenberg di Nigel Farage, deputato europeo, che ha fatto il giro della rete come non sarebbe mai potuto capitare fino a qualche anno fa. E, secondo esempio, al contrario il lavoro straordinario di Andy Carvin, giornalista della radio pubblica Usa, che ha utilizzato il retweet come forma di fact checking, di verifica giornalistica della notizia e per smontare la propaganda dei regimi del Nord Africa. Condividere un tweet per dimostrare se è vero o falso.
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