Sprazzi di verde tedesco, di rosso spagnolo, di rosa slovacco. Nella lettura di una nutrita schiera di analisti e policy-makers stessi, le elezioni europee appena alle spalle – di cui in queste ore i leaders traggono le “conclusioni” istituzionali – possono essere prese con un sospiro di sollievo. Fatti i conti d’insieme, l’avanzata dei nazional-populisti è stata tutto sommato contenuta dalla “reazione” di milioni di valorosi cittadini europei che hanno steso i loro corpi in difesa della sacra democrazia europea, rivolgendosi ora ai “vecchi” socialisti o popolari, ora ai Verdi o ai liberali.
Ma davvero è possibile sbarazzarsi tanto facilmente della questione e credere che la ‘nuttata sia passata senza eccessivi scossoni? La risposta è no ovviamente, e non tanto per quanto concerne semplicemente la futura governance dell’Unione, ma per lo stato di forma della democrazia. Stretta tra il martello pneumatico di Trump e l’ormai evidentemente “invidiabile” concorrenza del modello cinese, la democrazia liberale attraversa una fase di grave crisi. Disprezzata, osteggiata, nella maggior parte dei casi semplicemente accettata con distratta sufficienza. Troppo poco per resistere sul lungo periodo.
Se la situazione è sotto gli occhi di tutti, le analisi sulle ragioni di tale crollo della capacità della democrazia di tenere uniti i cittadini divergono. A cavallo tra l’autunno del 2018 e la primavera del 2019, prima con la promozione del ciclo dedicato al Trend Illiberale e poi con la conferenza internazionale di Venezia Sources of Democracy, Reset ha coinvolto un parterre di studiosi di primo piano su scala mondiale per interrogarsi su tale tendenza e provare a comprendere come ridare linfa a questo vecchio, ma storicamente preziosissimo, sistema di governo. Ecco, per sommi capi, le principali prospettive nelle quali il fenomeno viene inquadrato.
La perdita della bussola etica
Scagliarsi ognuno con maggior foga contro il populismo, bollarlo come ideologia anti-democratica, proto-fascista etc. serve a ben poco – sostiene il politologo d’orientamento conservatore Patrick Deneen in un intervento non a caso provocatoriamente intitolato In praise of populism. Se si vuole davvero “salvare” la democrazia, viceversa, la verve populista va compresa ed accettata come un’espressione del tutto legittima della rivolta popolare contro il modello di società forgiato negli ultimi decenni dalle élite liberali.
A forza di costruire una società sempre più aperta, sempre più libera e libertaria – dal punto di vista delle politiche dell’immigrazione, dei costumi, della famiglia, della bioetica etc. – esse hanno finito per “disidratarla”, dice in sostanza Deneen, privandola di quel livello minimo di tensione morale che fonda un principio di comunità, e dunque di reale partecipazione democratica. La soluzione? Una revisione di fondo di tale approccio libertario, e una ricostruzione delle fondamenta etiche della società.
La perdita della bussola politica
Vicina per certi versi, anche se più prettamente politica, è l’analisi di una studiosa come l’israeliana Yael Tamir. Anche per lei, sul banco degli imputati è in primis lo svuotamento di senso collettivo delle moderne società democratiche. Se non diamo ai cittadini una ragione di fondo per stare insieme, chiede Tamir, come stupirsi dell’iper-frammentazione e del ritorno sulla scena di parole d’ordine di odio ed esclusione?
Alla domanda di identità e di riconoscimento collettivo, sostiene la studiosa, va data risposta riscoprendo l’idea di nazione: scevra da ogni afflato bellico, essa può e deve fornire il collante capace di tenere insieme le nostre società e fondare così un’idea concreta di partecipazione politica e sociale. Anche a costo, evidentemente, di depotenziare il valore di strutture sovra-nazionali come l’Unione Europea.
Anche il sociologo italiano Mauro Magatti riconosce il nodo fondamentale della crisi della liberal-democrazia nello sfaldamento del legame sociale che tiene insieme i cittadini, ma indica valori ben diversi quali nuovi collanti: quelli di sostenibilità e di contribuzione. In sostanza, sostiene Magatti, per sfuggire alla “malattia” del particolarismo è indispensabile trovare un nuovo equilibrio nei rapporti tra società civile, istituzioni e dimensione digitale imperniato su un fruttuoso scambio sociale tra interessi economici e sociali.
Per il politologo della Columbia University Mark Lilla, infine, la colpa primaria delle élite liberali (ma meglio sarebbe dire liberal in senso americano) negli ultimi decenni è stata quella di abdicare sostanzialmente alla propria funzione di motore dei cambiamenti economico-sociali, quelli che più incidono sulla vita reale delle persone, per concentrarsi invece sulle battaglie identitarie: il riconoscimento dei matrimoni gay, l’allargamento della sfera dei diritti di singole minoranze, la neutralità di genere nel linguaggio, etc. Al di là del giudizio di merito, battaglie che hanno fatto perdere di vista gli obiettivi politici d’insieme, piuttosto che di frammenti, della collettività.
Il dilemma della complessità
La democrazia è in pericolo? Fino a un certo punto, osserva il filosofo norvegese Jon Elster: ciò di cui dovremmo davvero preoccuparci è che la democrazia è essa stessa il pericolo. In che senso? Perché come già osservato da Alexis de Tocqueville essa stessa tende delle trappole velenose sulla strada del buon governo. Il rischio di premiare interpreti del tutto inadeguati delle pulsioni popolari, sino all’instaurazione di vere e proprie tirannie della maggioranza, ma anche – in un più ampio orizzonte – quello di impedire la presa di decisioni davvero lungimiranti per la collettività.
Il problema, già individuato agli albori dell’epoca liberale, appare oggi in tutta la sua evidenza dal confronto “spietato” con sistemi politici alternativi come quello cinese. Le sfide più pressanti per la società – dalla gestione dei flussi migratori e demografici alla lotta al cambiamento climatico, sino alla governance dei cambiamenti tecnologici – necessitano tutte come evidente di un approccio di lungo periodo. Ma la democrazia, a maggior ragione nell’éra dell’istante dettata dalla rivoluzione digitale, appare in grande difficoltà a garantire l’adozione di tale prospettiva. Quale politico democratico è in grado di astrarsi totalmente dall’interesse proprio e del partito a prolungare la propria permanenza al potere per privilegiare se non l’utopistico “bene comune” una genuina visione di lungo periodo?
È in questa debolezza di fondo che mette il dito Daniel A. Bell, studioso, e ora vicino osservatore, del modello cinese. Siamo davvero convinti che il valore primario da ricercare nel sistema politico, chiede in sostanza Bell, sia il rispetto delle regole del gioco piuttosto che la garanzia di risultati soddisfacenti per la società? Questione provocatoria, naturalmente, per un orecchio occidentale – ma non di poco conto di fronte al risorgere della sfida populista, che riecheggia in fondo lo stesso interrogativo quando accusa le élites liberali “illuminate” dell’ultimo trentennio di aver fallito nel portare concreti avanzamenti economico-sociali a larghe fette di popolazione.
Di fronte al prorompere della crescita cinese, d’altra parte, lo stesso Amartya Sen, da acerrimo sostenitore delle virtù della democrazia anche in termini di output socio-economici, ha dovuto riconoscere in anni recenti che sistemi politici autoritari possono portare al raggiungimento di risultati più soddisfacenti di quelli democratici sul campo di grandi sfide sociali (fame, alfabetizzazione, salute pubblica etc.).
Un paradosso che si lega certo al dilemma del short-termism connaturato ai cicli elettorali, ma anche ad un altro tipo di sfasamento tra necessità di policy ed esigenze di fondo della democrazia rappresentativa: la distanza tecnica tra decisori ed elettori. Specie in determinate materie, la complessità delle politiche da implementare diviene essa stessa un ostacolo di fronte all’esigenza di rendere costantemente conto dell’operato pubblico a cittadini scarsamente preparati e/o informati. Ecco perché la democrazia rischia di rimanere davvero in trappola. Può un investimento ingente nell’educazione e nella cultura bastare ad evitarla?
(Foto – Patrick Hertzog / AFP)
Mi ritrovo un po’ in tutte le idee espresse nel forum (e ben sintetizzate dall’articolo), ma in particolar modo in quelle di Mark Lilla. Temo però che la mancata “funzione di motore dei cambiamenti economico-sociali”, che avrebbe dovuto svolgere la classe dirigente occidentale (tutta, al di là delle sigle politiche, di stampo fondamentalmente liberale) sia dipesa non solo da una “distrazione” connessa alle “battaglie identitarie” di minoranze, ma anche da una fondamentale incapacità di leggere, in fenomeni come la globalizzazione dei mercati finanziari, quei fattori distorcenti che portavano alla concentrazione di ricchezze e potere in ristrette élite, al depauperamento del ceto medio e all’avanzare del gap tra minoranza più ricca e il resto della popolazione. Mi riferisco a questioni come il riacquisto di azioni proprie, le estrazioni di valore realizzate col sistema dei brevetti, la progressiva svalutazione del settore pubblico e dei sistemi di welfare (in nome, molto spesso, di riduzioni del debito e “spending review”), ecc. Suggerisco al riguardo l’illuminante saggio di Mariana Mazzucato “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale” edito da Laterza a novembre 2018.