L’Italia? Un Paese che rischia molto se i suoi imprenditori non rischiano più. Sembra un gioco di parole, invece è una realtà preoccupante. Non tanto per la crisi contingente che sta attraversando, quanto per la ripresa futura. Infatti, servirebbe se non proprio un potenziamento, almeno un rinnovamento della sua capacità produttiva. Il suo sistema industriale sta invecchiando, sta diventando obsoleto, inadeguato, come conseguenza del fatto che da 8 anni le imprese medie e quelle grandi hanno tirato il freno a mano.
«Investono poco, meno dell’autofinanziamento generato dalla gestione interna, quindi non hanno più necessità di fare grossi ammortamenti e i margini economici danno utili apparenti ancora interessanti, che vengono distribuiti tutti tra gli azionisti.
Quel po’ di autofinanziamento che resta nelle casse viene impiegato per ridurre i debiti. Va da sé che in queste condizioni l’occupazione non può che diminuire. Un Paese con una classe simile e capitani di tal fatta non può che essere inevitabilmente destinato al declino».
Analisi impietosa. Giudizi severi. Parole come pietre. A pronunciarle è il professor Riccardo Gallo, docente di Economia industriale all’Università La Sapienza di Roma, che negli ultimi sei mesi ha condotto un’accurata analisi sullo stato delle grandi e medie imprese industriali, sia pubbliche sia private, negli anni che vanno dal 2000 al 2009. Ovvero su quella catena di 2025 società censite dall’Ufficio studi di Mediobanca, scoprendo che invece di scommettere sul proprio rilancio stanno portando i soldi fuori dalle imprese. Paradossale o… vero?
Spiega il docente dell’università romana: «Le imprese italiane stanno sì bene finanziariamente, ma hanno anche posto le premesse per un forte declino». Oppure non saranno pronte ad affrontare la ripresa produttiva quando si presenterà l’occasione. E soprattutto non hanno la modernità tecnologica e organizzativa necessaria a sostenerla.
Facciamo un passo indietro e torniamo al punto di partenza. L’analisi sullo stato delle aziende in base ai dati Mediobanca. E si scopre che l’aggregato delle 1.790 società industriali censite nel decennio scorso ha cumulato un flusso di cassa netto positivo pari a 41.518 milioni di euro, poiché il flusso delle entrate ha registrato 169.552 milioni e quello delle uscite è stato di 128.034 milioni. Ed è proprio questo dato che, secondo il professore – nonostante il segno “più” davanti – è definibile come sintomatico del «declino» e di un processo di lenta ma inevitabile «deindustrializzazione». Dall’analisi dei dati Mediobanca è infatti emerso «un forte calo dell’incidenza percentuale del valore aggiunto sul valore della produzione», un’incidenza scesa dal 22,3% dell’anno 2000 al 18,4 del 2009 (-3,9%) «e si sta pericolosamente avvicinando al 15-16%», specie nel settore della distribuzione al dettaglio «che per definizione ha un grado di industrializzazione tra i più bassi». Ma a cosa è dovuto o a cosa corrisponde questo “dimagrimento del sistema industriale”? Quali le cause?
Neppure il professor Gallo lo sa indicare con precisione. È difficile stabilirlo, spiega. Potrebbe essere la conseguenza di una strategia voluta al fine di abbandonare il modello della produzione di massa e attuarne uno di produzione più snella, oppure potrebbe essere persino la conseguenza «di una vera e propria ritirata che comporta il consumo di input sempre più pregiati e, a parità di valore di mercato dell’output, una contrazione del valore aggiunto» si legge nella relazione dell’Osservatorio sulle politiche industriali e la regolamentazione firmata dal professor Gallo e che porta questo inequivocabile titolo, che suona già di per sé come un chiaro atto d’accusa: «Rinuncia alla crescita del sistema produttivo italiano».
Tutto ciò, però, ha una conseguenza assolutamente coerente con il quadro di “deindustrializzazione” fin qui accennato, che si ripercuote nell’allungamento della vita utile del patrimonio tecnico, «che nell’aggregato delle società industriali è salita mediamente dai 15 anni del 2001 ai 24 del 2009. E questo invecchiamento «deriva da una insufficienza degli investimenti di sostituzione dei mezzi di produzione» si può leggere.
Insomma, se la struttura finanziaria delle società industriali italiane «è mediamente più che buona», conseguenza anche del flusso di cassa netto positivo, tuttavia «hanno rinunciato a fare investimenti congrui a scapito della modernità della struttura produttivo e della ricchezza del ciclo industriale». Un po’ a causa delle tasse pagate (91.715 milioni su un reddito cumulato di 247.640 milioni nel corso del decennio, pari a un 44% dell’imponibile) ma anche, e molto, a causa dei dividenti che gli industriali si sono dati o hanno preteso dalle proprie aziende, che nel decennio considerato sono stati di 155.885 milioni a fronte di utili che sono stati 155.925 milioni. Praticamente tutti.
«In altri termini – annota la relazione del prof. Gallo – gli azionisti delle società italiane nell’ultimo decennio hanno chiesto agli amministratori di distribuire loro il 99,97% degli utili conseguiti». Chiaro che non resta nulla per gli investimenti, né per il capitale industriale (macchinari) tantomeno per quello umano e sociale (lavoro, formazione, stipendi).
Di questo passo il declino è inevitabile. L’invecchiamento della struttura produttiva pure. «È come mungere una mucca vecchia – commenta l professor Gallo – dopo un po’ la mucca muore e il latte finisce». Questo il destino delle nostre aziende? Un riscontro del declino lo si ha incrociando anche i dati e le statistiche dell’Abi sulla domanda di prestiti e linee di credito da parte delle imprese, analisi che conferma come il credito venga per lo più utilizzato per la ristrutturazione del debito, quindi vada per il finanziamento di scorte e capitale circolante e quasi per nulla a investimenti fissi, per niente a fusioni e acquisizioni e alla ristrutturazione degli assetti societari.
Conclude il professor Gallo: «Verrebbe da pensare che se non si ri-aumenta il grado di utilizzo degli impianti, non sia giusto pretendere il varo di nuovi investimenti. In realtà, invece, poiché come abbiamo visto gli impianti vengono lasciati invecchiare, anche i loro prodotti sono al di là del ciclo di vita ed è certo che, se si va avanti senza neanche investimenti in innovazione, la domanda di mercato si sposterà su prodotti nuovi concorrenti e l’utilizzo dei vecchi impianti non ri-aumenterà mai più». Per l’Italia, tra debito pubblico, crisi internazionale, il rischio proveniente dai mancati investimenti industriali è quello che preoccupa di più perché rischia – quando sarà – di mancare l’aggancio con la ripresa. Come dire? Tanto profitto per nulla.