La nozione di ideologia possiede in Marx un duplice valore semantico, in analogia con l’ambivalenza che connota la nozione marxiana di natura. Ciò ne fa un concetto paradigmatico che supera i confini del suo pensiero e che indica piuttosto la struttura generale del termine e quello che si può definire il suo valore semantico polivalente. È opportuno, nell’affrontare la questione dell’ideologia a partire da Marx, essere consapevoli del fatto che il tempo delle apologie filoideologiche o delle condanne antiideologiche, ossia il tempo in cui sull’ideologia si conducevano delle battaglie esse stesse ideologiche, di nuovo in specie in riferimento a Marx e al marxismo italiano rappresentato da Antonio Gramsci, è definitivamente tramontato.
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Possiamo ora vedere ed apprezzare nel loro valore conoscitivo i due lati della nozione di ideologia nella loro connessione reciproca e nel loro intreccio non districabile. La prima osservazione che facciamo riguarda la circostanza che, esattamente per questo motivo, per la connessione di due aspetti che si implicano e al tempo stesso si escludono a vicenda, la nozione di ideologia è intrinsecamente paradossale. Abbiamo imparato che i paradossi dei concetti esprimono paradossi della realtà e sono dunque non soltanto insolubili, ma che essi, rispettati nella loro costituzione ontologica prima che linguistico-concettuale sono veri e reali ed attendono di essere non dissolti ma piuttosto compresi e, se così si può dire, filosoficamente vissuti. Anche per questo motivo, l’ideologia è un concetto paradigmaticamente paradossale, la cui verità attende di essere riconosciuta.
Il punto essenziale da cogliere e da riconoscere è che l’ideologia edifica una concezione del mondo, ossia ritiene di scoprire e di fondare una verità del mondo e in questo stesso atto essa produce un effetto di copertura della comprensione scientifica del mondo stesso, o di quella che viene considerata tale dal critico dell’ideologia. La sua verità si scopre così non soltanto presunta, ma coincidente con l’occultamento di quella che si considera essere la verità o la realtà non ideologica di una teoria o di una esperienza o di un segmento di realtà. La polemica costantemente condotta da Sigmund Freud contro le presunte verità di fede delle religioni positive è basata su questo schema critico: via la illusione ideologia e spazio al suo posto, come conseguenza di una operazione di pulizia , alla verità dell’osservazione e della scienza.
Da un lato l’ideologia (proprio il caso dell’Ideologia tedesca di Marx ed Engels è esemplare) viene denunciata e demistificata come prodotto specifico di un tempo storico, di una cultura e di una lingua di cui si nega ogni possibile universalizzabilità, ogni valore veritativo, ogni funzione conoscitiva. Se ne scopre infatti la funzione di copertura e di nascondimento più o meno consapevolmente manipolato del reale storico conoscibile per via scientifica. Nei termini del “materialismo” che Marx sempre si autoattribuì e che in forme diverse, in corrispondenza della diversa realtà cui la mistificazione ideologica si contrapponeva, fu anche di Sigmund Freud che tuttavia non ebbe bisogno dell’operazione riflessiva tipicamente filosofica dell’autoattribuzione, essa richiede e sollecita ormai un atteggiamento di ‘responsabilità’ verso la ricerca della verità non ideologica che si realizza per il tramite di un’operazione di apertura e di disvelamento forzato e anche doloroso rispetto alla rottura di ciò cui si resta affezionati in conseguenza della funzione consolatoria o apologetica o giustificatoria che costituisce la motivazione iniziale da cui sgorga ogni costruzione ideologica. Le si chiede anzitutto di renderci più facile, meno o del tutto non problematico l’affrontamento conoscitivo del reale, l’appagamento illusorio del desiderio che le cose stiano in un certo modo, di quel desiderio che costituisce il motore stesso dell’edificazione delle care illusioni.
Leopardi stesso, altro materialista, lo sapeva bene. Il reale mistificato ideologicamente merita e sollecita l’atteggiamento di “sospetto” al tempo stesso scientifico ed etico che Paul Ricoeur ha riconosciuto ai due principali grandi maestri, oltre a Nietzsche, della sospettosità ‘salvifica’ e redentrice dalla schiavitù del falso, Marx e Freud, coloro che per primi hanno posto le base dell’interpretazione del reale inibita dalla nebbia ideologica, grazie alla quale la verità emerge dalla interpretazione e come interpretazione vera.
I maestri del sospetto nei confronti della falsificazione ideologica, tuttavia, compiono esattamente l’operazione che consente di scoprire, insieme alla verità, la paradossalità dell’ideologia, l’intreccio inestricabile di se stessa e della scientificità, il rinvio inarrestabile tra questi due poli che ci conduce al riconoscimento del fatto che dal paradosso dell’ideologia propriamente non si esce. Il sospetto antiideologico, infatti, consente di revocarne, ma al tempo stesso, e, incoerentemente, di problematizzarne la reale illusorietà, ossia quella illusorietà che non si risolve in pura parvenza, nei fantasmi di una fantasia priva di controllo. La sospettosità antiideologica si trova in mano alla fine della propria operazione che essa considera del tutto distruttiva dell’illusione e del tutto a vantaggio dell’ottenimento di una trasparente verità, un risultato diverso da quello che riteneva o sperava di ottenere.
L’effetto di consolazione non si raggiunge, l’angoscia di fronte alla domanda “che cosa giace dietro il falso ideologico?” non trova una risposta tranquillizzante, la ricerca della verità e della realtà cui si agogna si rivela impotente. Proprio la sospettosità antiideologica, proprio il giudice inflessibile che ritiene di conoscere il modo di separare verità e falsità, realtà e irrealtà, infatti, scopre (forse meglio, noi scopriamo per lui che resta invece cieco di fronte al senso stesso del suo risultato di discriminazione compiuto a vantaggio della verità) che l’ideologia e la sua trama di presunte falsificazioni esiste come una componente non eliminabile del reale che essa è accusata di coprire. Scopre cioè niente di meno del fatto che il reale si rivela comunque intessuto e attraversato da interpretazioni, comunque ‘filtrato’, comunque sottoposto ad una qualche assegnazione di senso – essendo anzitutto questa assegnazione di senso ciò che la stessa critica dell’ideologia compie. Si tratta di una operazione che distrugge la sua illusoria convinzione che dietro le illusioni rifulga il “reale”. Questa operazione non può essa rinnegata dalla critica dell’ideologia poiché essa costituisce la sua unica ragion d’essere. Ma purtroppo, si è detto, non la conduce là dove aveva desiderato o sperato di giungere. Il paradosso dell’ideologia e della critica rivolta ad essa torna ad ergersi come ostacolo non sormontabile.
Comincia ad insinuarsi il dubbio che convenga se non abbandonare rivedere profondamente la strategia della crociata antiideologia, che i suoi strumenti di attacco vadano rivisti e soprattutto che venga ripensato il senso, che sembrava ovvio e tranquillizzante del suo progetto di purificazione e di pulizia. Sullo sfondo si affaccia, a far valere le proprie potenti ragioni, l’immagine kantiana della parvenza necessaria, e quindi non evitabile, non confutabile, che intesse le pagine di quella “dialettica trascendentale” in cui l’errore, appunto nella forma di una parvenza non dissolvibile, entra a strutturare la fisionomia complessiva della verità e indica i limiti della sua conoscibilità empirica.
Questo passaggio ci conduce direttamente, per vie interne, e non tramite accostamenti estrinseci di un lato al lato opposto della questione dell’ideologia, appunto all’interno della regione dove domina l’altro valore dell’ideologia. Si scopre infatti (al di là delle conseguenze distruttive della pretesa metafisica della ragione pura esibite nella dialettica trascendentale kantiana, la cui indagine complicherebbe troppo il nostro percorso di analisi in questa sede) quello che si è già visto: che non esiste realtà che (rimenando tale e non esaurendosi nella sua interpretazione) non sia interpretata, ossia inquadrata in una cornice di presupposti che possiamo continuare a definire ideologici, ma che posseggono almeno l’aspetto ideale di ciò che interviene comunque prima e dentro ogni operazione di costruzione teorica perché è già là, è il materiale stesso con cui conduciamo la nostra inane ricerca di qualcosa di purificato dall’ideologia, di una base reale del sapere, della scienza e della teoria che nulla di soggettivo, di arbitrario, di fantastico intervenga a turbare.
Martin Heidegger ha ben visto questo punto quando ha parlato di “fatticità” del mondo. Prima di lui era stato Edmund Husserl, nel saggio del 1911 La filosofia come scienza rigorosa, a distinguere bensì tra le visioni del mondo e il relativismo degli storicismi da un lato, e appunto la rigorosità della scienza. Ma lo aveva fatto per preparare, evitando condanne alla legittimità dell’ideologia, e ammettendone anzi i diritti non scientifici, per preparare l’operazione condotta molti anni più tardi nella Crisi delle scienze europee, la proposta di quella novità rivoluzionaria costituita dal “mondo-della-vita” e dalla sua specifica scientificità, che costituisce, dopo Husserl, e senza che si possa dire che Husserl stesso abbia avuto di mira consapevolmente la riformulazione fenomenologica della questione dell’ideologia, la cornice entro la quale non si può, oggi, non tornare a pensarla.
Si rifletta, per tornare ancora un momento a Marx, alla circostanza riguardante la natura indissolubile del nodo che nel suo pensiero (la “critica dell’economia politica”, lo si rammenti sempre: ossia la critica di una scienza cui si attribuisce implicitamente una tendenza ideologica, coprente, difensiva, di parte, ossia di classe) del nodo, si diceva sopra, che connette la scienza come sistema positivo di categorie della conoscenza, alla critica scientifica, ossia alla pretesa della scienza economica di spacciare per verità atteggiamenti teorici e pratici di carattere “apologetico” e di respingere ogni forma di verifica critica, di epistemicità non condizionata, non funzionale alla conferma dell’esistente sistema economico. Abbiamo in questo caso sotto i nostri occhi, e rappresentato da Marx stesso che lo accompagna con una evidente tonalità emotiva di condanna etica, oltre che inaccettabilità teorica, l’immagine della necessità (positivamente presente e riconosciuta e utilizzata come arma critica) che la teoria si configuri comunque come un intreccio strutturale, e positivo, non emendabile, di scientificità epistemica postasi alla ricerca della verità e in lotta contro la mistificazione o l’errore, da un lato, e di pre-giudizio, etico, politico ma anche scientifico sul mondo, dall’altro lato.
Un pre-giudizio, che in quanto venga riconosciuto come componente essenziale del mondo-della-vita teorizzato da Husserl, si colloca a fondamento di ogni atto teoretico e conoscitivo che sappia sottrarsi alle false pretese dell’oggettivismo, anche di quello che connota le teorie scientifiche positive e del naturalismo. Nel caso di Husserl, la distinzione è essenziale, come ben si capisce, non si condanna la volontà della scienza di sottrarsi al condizionamento storico, come in Marx, ma l’occultamento della funzione della soggettività costituente. Se è vero che ogni teoresi, ogni conoscenza affonda le sue radici nel pregiudizio precategoriale del mondo-della-vita, se ne ricavano due conseguenze rilevanti. La prima è che la scienza del mondo-della-vita che nel linguaggio marxiano appare ‘contaminata’ negativamente dall’ideologia mira alla costruzione di un di più, non di un di meno di scientificità e di una scientificità diversa. La seconda impone di riconoscere che, ferma restando la validità scientifica e la funzione pratica di costruzione di una opposizione al capitalismo della marxiana critica dell’economia politica, è la natura stessa del paradosso dell’ideologia che impone, per essere affrontato come deve essere per ragioni teorfetiche, di fuoriuscire dai confini del pensiero di Marx e del marxismo. Denunciare le “contraddizioni” della teoria marxiana dell’ideologia (che non riesce ad indicare né il luogo ideale, né la ragione plausibile del proprio presunto sottrarsi al suo stesso destino ideologico) non basta.
La ineliminabile idealità precategoriale del sapere epistemico (ripetiamo: il suo essere strutturalmente condizionato e anzi costituito dall’elemento negativo, dall’erroneità che i critici dell’ideologia si affannano ad espungere, senza peraltro chiedersi, come accade a Marx che aveva invece la piena consapevolezza della natura pratico-rivoluzionaria della sua scienza, se sia affettivamente una presunta ‘oggettività’ della scienza che essi perseguono, o una diversa e diversamente funzionale scienza-ideologia) si collega con il lato del paradosso dell’ideologia che si vorrebbe poter isolare nella sua criticità radicale, nella sua ricerca di purezza.
Il paradigma paradossale della nozione di ideologia liberata dalla gabbia della problematica marxista, assolutamente insufficiente rispetto alla radicalità e spregiudicatezza della ricerca orientata in senso fenomenologico, che sarebbe opportuno riconoscere espistemicamente necessario, trova il suo senso entro l’orizzonte della scienza husserliana del mondo-della-vita in cui, come è noto la rivalutazione della doxa si fonda su una radicale riformulazione del senso della doxa stessa e della sua distinzione dall’episteme. Si apre così, di fronte al campo problematico costituito dal tema dell’ideologia e della sua critica non il compito impossibile di separare l’inseparabile e di attingere la purezza ‘oggettiva’ del sapere, ma di vivere il paradosso per cui l’ideologia , ‘tradotta’ in “scienza del mondo della vita”, doxa ed episteme insieme, è una doxa epistemica. In quanto tale, essa è in grado di agire nel mondo e mutarlo, come voleva Marx, dall’interno dell’universo della verità filosofica e non contro quest’ultima. In quanto tale, le appartiene al tempo stesso una funzione di chiusura che è al tempo stesso funzione di apertura fenomenologica rivolta ad un sapere liberato del proprio atteggiamento oggettivistico e riconnesso alla dimensione della soggettività costituente.
La sua funzione di chiusura della scienza fenomenologica alla scienza positiva-oggettiva è funzionale alla edificazione di un’altra scienza, di un altro modo di essere della scientificità. Si ripresenta legittimo il dubbio, all’interno di tale contesto, se non sia conveniente l’abbandono del termine e della problematica stessa dell’ideologia, nel cui valore semantico si è stratificato ormai il senso di un rapporto tra la scienza e la visione del mondo che resta sostanzialmente estraneo alla doxa epistemica della fenomenologia husserliana, ed intraducibile in quest’ultima. Ma anche a voler prescindere dalla prospettiva di ricerca appena delineata, resta fermo il punto su cui si è richiamata l’attenzione. L’ideologia subisce l’imputazione di essere una antiscienza e di rovesciare la realtà, e di essere quindi falsa e generatrice di falsità.
Nulla entro tale orizzonte (in linea generale quello del marxismo e di un materialismo rimasto preda della rozzezza che riteneva di avere esorcizzato) viene detto, né potrebbe venire detto sul senso che si attribuisce alle nozioni di verità, di falsità, di scienza, di realtà. L’opzione materialistica e realistica sono troppo importanti, fatalmente rilevanti in tutti i campi del sapere per non esigere la difesa e l’appoggio di solidi sostegni teorici, di argomentazioni comunque fondative. Il discorso critico antiideologico resta quindi letteralmente sospeso sulla assenza di fondamenti. Semplicemente, la scienza le si contrappone come la verità del volto di una statua recuperata nella sua autentica fisionomia dalle deformazioni impostele dalla sua lunga immersione nelle profondità marine. Tuttavia, lo si è detto più volte, nel rovesciamento dell’ideologia nella (presunta) scienza, l’ideologia non scompare.
La pretesa di oggettività della scienza che correggerebbe l’ideologia è essa stessa ‘falsa’ nel senso che il termine possiede per la critica dell’ideologia che lo usa. Si apre qui la prospettiva di una dislocazione nuova della polarità scienza-ideologia accompagnata da una radicale ridefinizione della scienza. La via è indicata dalla “scienza del mondo della vita”, praticabile quando si sia ormai fuori dalla gabbia della concettualità marxiana e marxista. Qui, forse, potrebbe riproporsi su basi nuove lo stesso problema specifico di ciò che è stato chiamato “ideologia”, e si potrebbe tornare ad essere capaci di recuperarne una autentica funzione critica e trasformatrice del mondo, senza restare vittime della illusione che la liberazione da ciò che viene considerato falso, erroneo, irreale, sia una operazione agevole.