I 115 cardinali hanno fatto la loro scelta, Roma ha il suo Vescovo e la Chiesa di Roma il suo 266esimo Papa. Francesco. Si potrebbe cominciare dalla scelta del nome, così significativa ed emblematica, così diversa da quella dell’Emerito Benedetto XVI. Ci si potrebbe soffermare sulla biografia del nuovo Papa, Gesuita, dal profilo di uomo di scienza oltre che di Chiesa, a significare un ponte gettato tra ragione e fede. Si potrebbero abbozzare a caldo reazioni sulla sua personalità, da alcuni da subito accostata a quella di Giovanni Paolo I e Giovanni XXIII. Si potrebbe sottolineare – con riflesso tipico di noi osservatori secolari – il suo posizionamento, in una mappa che ricalca la logica della politica, all’interno di un ‘fronte’ trasversale tra progressisti e conservatori, che gli è valso oggi l’elezione e ieri il ‘piazzamento’ alle spalle di Benedetto XVI.
Si potrebbe guardare con simpatia e speranza ai primi gesti: al suo rivolgersi alla città di Roma, alla sua richiesta di un momento di preghiera che sorregga lui, che porterà il peso della Chiesa di Roma, davanti alla responsabilità che lo attende, quasi più che il contrario. Si potrebbe guardare alle reazioni del mondo, di Al Jazeera, dei media planetari; o abbozzare analisi complessive sul significato della scelta, compiuta in 24 ore, in un momento così delicato non solo per la Chiesa di Roma, di un Papa che proviene dall’America Latina, a dire di equilibri demografici, di necessità interne alla Chiesa di reagire alle sfide che ha davanti, le più delicate delle quali forse tutte interne allo stesso mondo cattolico.
Ogni singolo punto, questi e altri, saranno al centro di un fiume di parole che si riverserà su di noi nei prossimi giorni, e che faticheremo a seguire, analizzare, commentare.
A caldo, tuttavia, tre elementi colpiscono.
Il primo riguarda il senso quasi di spaesamento che ci ha colti davanti a quelle tende che si aprivano, e al comparire di una figura che, diciamocelo, nessuno si attendeva. Giorni e giorni passati a stilare e leggere toto-papa-graduatorie, disegnando mappe, e utilizzando categorie politiche per mettere ordine in una realtà che da osservatori secolari fatichiamo, questo il punto, a decifrare; progressisti e conservatori, curiali e pastori riformatori: si ha l’impressione che i nostri schemi interpretativi saltino, non reggano, non siano coerenti con una istituzione, quella della Chiesa di Roma, che al mondo si rapporta con categorie differenti. Nei giorni scorsi il rapporto tra media e Chiesa è stato al centro della discussione. È stato lo stesso Benedetto XVI a innescare la polemica, per così dire, lamentano al tempo del Vaticano II uno scarto tra due concili, quello dei media e quello della Chiesa, difformi a suo giudizio per logiche e rappresentazioni.
La discussione è andata avanti fino a ieri, da una parte cercando categorie familiari di interpretazione, ritagliate sulla razionalità secolare, dall’altra lamentano una impossibile omologazione. Quando tutti ci attendevamo, nel campo che ama pensarsi secolare e progressista, un Papa comunque conservatore, dalla loggia centrale esce la figura di un Papa che non risponde a schieramenti così facilmente decodificabili, tanto che già oggi c’è chi lo annovera nel campo riformatore e chi in quello conservatore. Forse avremo solo bisogno di conoscerlo meglio, per poterlo rinchiudere nelle nostre categorie, o forse dovremo convincerci che quelle categorie vanno riviste, perché semplicemente non funzionano quando riferite ad una istituzione che non si vuole mondana in tutto e per tutto, benché lo sia fin troppo molto spesso.
Anche il secondo punto chiama in causa noi, ‘religiously un-musical’, evocando Max Weber. Così prevede il protocollo, che l’Inno di Mameli sia suonato ad elezione avvenuta ancora prima di quello del Vaticano. Eppure nell’ascoltare quelle note non si può non riflettere sull’ingenuità che ci caratterizza quando pensiamo a separazioni nette tra politica e religione. Abbiamo tutte le ragioni del mondo, specie in Italia, nel reclamare quella separazione come parte della nostra idea di laicità, o nel pretendere una politica capace di esercitare la sua autonomia rispetto a ingerenze delle gerarchie cattoliche. Però il suono di quelle note in Piazza San Pietro è anche un invito a pensare più a fondo, al carattere costitutivamente collettivo, e quindi sociale e politico secondo le categorie spaziali del pensiero politico moderno, delle religioni, di molte religioni, cattolicesimo in primis. La religione permea, per sua definizione, lo spazio, non solo quello della coscienza individuale, ma anche quello pubblico, quello della coscienza collettiva, e le note non possono essere tenute artificiosamente separate, come spesso invece amiamo pensare.
A Piazza San Pietro vanno le ultime considerazioni. Una piazza imponente nella sua bellezza. Non è bastata la pioggia a contenere la voglia di esserci, dei romani tutti, dei cattolici, di persone da ogni angolo del pianeta. Non è la prima volta che Piazza San Pietro si presenta così gremita. Non è stata però sempre così gremita nell’attesa di una elezione del Pontefice. Era come se la piazza volesse testimoniare la consapevolezza del momento di svolta, l’attesa di un gesto di purificazione collettiva, l’attesa di un rinnovamento. Per 24 ore gli sguardi sono stati fissi su un comignolo, e poi sulla loggia centrale. Un insieme di persone che guardano verso uno stesso punto non è una folla, ma una comunità. La comunità cattolica, e forse non solo, attendeva di riconoscersi nel suo simbolo, e sotto la pioggia lo ha salutato.
Quel simbolo ha scelto il nome di Francesco. Se nei simboli le comunità che rivolgono lo sguardo fisso verso un unico punto si riconoscono, anche chi di quella comunità non fa parte non può che affidarsi, vigile ma speranzoso, all’intelligenza collettiva. È Piazza San Pietro questa notte la protagonista, una piazza gremita e quasi ammutolita davanti al comparire di una figura inattesa. Una figura che di quella piazza ha subito chiesto il sostegno, nella preghiera. Da domani criticheremo, anche la piazza se necessario, oltre che la figura che la rappresenta; per ora meditiamo sull’energia di una comunità che si è subito riconosciuta, così ci è parso, nel suo simbolo, oltre i nostri sforzi di razionalistica semplificazione.