Assumere una piccola distanza dal dibattito politico interno potrebbe aiutare a comprendere meglio quali siano le principali criticità della legislazione vigente, e a incanalare il confronto su toni più pragmatici e meno ideologici. Allarghiamo dunque lo sguardo a ciò che avviene in Europa nelle politiche di accesso alla cittadinanza, in particolare per gli stranieri. Grazie al team di ricercatori di Eudo Citizenship, l’osservatorio sulla cittadinanza in Europa dell’Istituto universitario europeo di Fiesole, coordinato da Rainer Bauböck, è possibile fornire un giudizio di insieme in merito all’evoluzione dei differenti quadri legislativi in oltre 40 paesi europei, e sottolineare, là dove è possibile, alcune tendenze generali. Pur limitando la nostra analisi agli attuali Stati membri dell’Unione per il periodo dal 1989 a oggi, il compito non sarà affatto semplice.
Il primo aspetto da rilevare, infatti, è che la normativa varia considerevolmente e non è possibile parlare di processi di reale convergenza. Il processo di integrazione europea non si è esteso a un’armonizzazione delle norme che disciplinano accesso, trasmissione e perdita della cittadinanza, ritenute prerogative inalienabili delle singole sovranità nazionali. Ciò può destare sorpresa, dato che tali norme danno accesso alla cittadinanza europea e ai diritti a essa connessi. Con cautela, dunque, possiamo avanzare alcune considerazioni generali.
Nel periodo considerato, nel resto d’Europa si è intervenuti a riformare la legislazione sulla cittadinanza, o a correggerne singoli aspetti, in misura più frequente che in Italia. Ciò potrebbe essere indice di una propensione a concepirla altrove in termini meno identitari e «reverenziali» e più funzionali, di strumento normativo che regola i rapporti tra le diverse componenti della società e lo Stato.
Gli Stati europei accettano o tollerano in modo crescente la doppia cittadinanza e si riduce il numero di quanti chiedono di rinunciare alla nazionalità precedente, come condizione per naturalizzarsi. Tale sviluppo rimuove una richiesta particolarmente onerosa, che agisce spesso da forte deterrente contro la naturalizzazione. Se si esclude la Spagna, che non accetta formalmente la doppia cittadinanza, ma non implementa poi la normativa, sono 12 gli Stati membri che mantengono il dogma dell’unicità, anche se con modalità molto diverse tra loro e applicando talvolta eccezioni generose: Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia.
Quando si sono riformati i tempi di residenza necessari a richiedere la naturalizzazione, lo si è fatto in termini di una loro diminuzione. È il caso della riforma tedesca del 2000, con riduzione da 15 a 8 anni, portoghese del 2006, da 10 a 6, e greca del 2010, da 10 a 7. Eccezione eccellente, proprio la legge italiana del 1992, che ha raddoppiato gli anni di residenza necessari da 5 a 10.
La legislazione sulla cittadinanza della maggior parte degli Stati Ue si basa su una combinazione di ius sanguinis e ius soli, ai quali si associano sempre più spesso forme di verifica della presenza di un legame effettivo (genuine link) con la nazione. La verifica di tale connessione può essere declinata in termini più liberali, come quando si assume che nascita, scolarizzazione, presenza prolungata nel paese siano indicatori di socializzazione e appartenenza sufficienti, oppure in termini più etnici e securitari, come nel caso dei test di conoscenza della lingua o di integrazione civica e norme rigide in materia di «buona condotta».
Ius sanguinis e ius soli sono preminentemente strumenti giuridici. Acquisiscono connotati ideologici e «di principi» a seconda del clima politico e del regime istituzionale di un dato momento storico. Una normativa basata unicamente sullo ius sanguinis può veicolare un’idea di nazione etnica ed esclusiva, ma non necessariamente la presenza di ius soli corrisponde a un’idea civica e liberale della cittadinanza. In un regime misto, a determinare la maggiore o minore liberalità di una legislazione sono le diverse articolazioni, le condizioni e i requisiti che si associano all’applicazione dei due diritti, insieme al tipo di procedura di accesso alla cittadinanza – se sia automatica, per dichiarazione o discrezionale. Vediamo come.
Ius sanguinis
Tutte le nazioni Ue adottano lo ius sanguinis, vale a dire la trasmissione della cittadinanza per discendenza diretta dai genitori ai figli, se nati in patria, e hanno equiparato entrambi i generi in tale capacità.
L’applicazione dello ius sanguinis varia, però, quando riguarda residenti e nati all’estero, e per il numero di generazioni alle quali si consente di trasmettere la cittadinanza per discendenza. L’Italia ha optato per una trasmissione automatica iure sanguinis all’estero, in assenza di rinuncia esplicita, senza limiti generazionali. Come conseguenza, nel periodo tra il 1998 e il 2011, poco meno di un milione di individui ha ottenuto il passaporto italiano – sarebbe più veritiero dire europeo – presso i consolati all’estero, attraverso una procedura di riconoscimento di cittadinanza, senza alcuna verifica di una presenza di un legame effettivo con il paese.
Altri Stati si comportano in modo simile all’Italia, mentre Belgio, Cipro, Danimarca, Germania, Irlanda, Malta, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Spagna pongono condizioni, sotto forma di un limite generazionale – si varia dalla prima alla terza – o di un tempo massimo dalla nascita entro il quale si può registrare il nuovo nato presso i consolati. Una modalità alternativa, adottata da Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Paesi Bassi e Svezia, per contenere la trasmissione automatica e indefinita della nazionalità fuori dai confini, è la perdita della cittadinanza per l’espatriato, già dopo un periodo più o meno lungo di residenza continuativa all’estero. Il provvedimento può essere evitato mediante una dichiarazione alle autorità nazionali prima della scadenza dei termini e, in alcuni casi, dovendo dimostrare di avere conservato legami significativi con il paese di origine.
Ius domicilii
La naturalizzazione per residenza stabile nel paese I requisiti di residenza necessari agli stranieri residenti per accedere alla cittadinanza variano sensibilmente all’interno dell’Ue. Si passa dal minimo di 3 anni del Belgio, dove dal 2010 si sta discutendo un innalzamento a 5, al massimo di 10 di Austria, Italia, Lituania, Slovenia e Spagna. Il requisito più ricorrente è di 5 anni, presente in 9 Stati membri.
Spesso, agli anni di presenza sono associati anche altri requisiti restrittivi, quali la rinuncia alla cittadinanza precedente (negli Stati già menzionati), la titolarità di un permesso di soggiorno permanente (Austria, Germania, Danimarca, Polonia, Repubblica ceca, Svezia), la residenza ininterrotta (numerosi paesi, tra cui Olanda, Slovacchia, Spagna), una buona condotta morale e un reddito sufficiente a mantenersi (più o meno esplicitamente, tutti i paesi).
La procedura di naturalizzazione è discrezionale nella maggioranza degli Stati. Fanno eccezione Germania, Olanda, Portogallo e Spagna, dove diviene un diritto acquisito, una volta maturati i requisiti necessari, e il Belgio, dove è possibile naturalizzarsi per dichiarazione, ma con un incremento da 3 a 7 anni di residenza. I tempi di attesa per le procedure di naturalizzazione variano dai circa 3 mesi di Estonia, Germania e Repubblica Ceca, ai 18-24 mesi di Francia, Italia, Slovacchia e Ungheria.
Una tendenza comune (tra gli altri, possiamo citare Danimarca, Francia, Grecia, Spagna, Portogallo, Ungheria e Italia) è quella di accordare accessi privilegiati alla cittadinanza nei confronti di stranieri di origine etnica o ritenuti culturalmente, linguisticamente e storicamente affini. Tale preferenza si traduce in una riduzione, spesso sensibile, degli anni di residenza o in una procedura automatica o per dichiarazione, anziché discrezionale. Solo Austria, Grecia e Italia, finora, prevedono requisiti di naturalizzazione facilitati per cittadini di altri Stati membri.
In decisa espansione è l’introduzione di test linguistici e di integrazione civica, come requisito per la naturalizzazione. Tra il 1998 e il 2010, il numero di Stati (attualmente) membri che si è dotato di tali provvedimenti è salito da 6 a 16. L’Italia non è tra questi, ma ha optato per una decisione ancora più rigida, dato che dal 2010 richiede un test di lingua e cultura italiana non per accedere alla cittadinanza, ma per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno di lungo periodo. Un’altra tendenza in netta affermazione è l’aumento dei costi amministrativi, che i richiedenti devono affrontare per avviare le procedure di naturalizzazione.
Ius soli
Lo ius soli è lo strumento giuridico per cui, se si nasce su un determinato territorio, si acquisisce il diritto di assumerne la cittadinanza. Una minoranza di Stati membri non contempla norme basate sullo ius soli: Cipro, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, e Svezia. Quest’ultima, però, consente la naturalizzazione, per semplice dichiarazione, ai minori che abbiano vissuto nel paese per 5 anni. Una forma intermedia tra ius soli e ius domicilii che molti utilizzano (Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Lettonia, Portogallo, Regno Unito, Slovacchia, Slovenia e Svezia), per consentire un accesso rapido alla cittadinanza agli stranieri che entrano nel paese da minori e vi risiedono per un certo numero di anni (la cosiddetta generazione 1,5). Modalità e requisiti variano, ma quasi sempre contemplano un periodo di scolarizzazione.
Insieme a quella appena descritta, lo ius soli rappresenta la via principale all’integrazione dei figli degli immigrati. Nella Ue, la sua applicazione si presenta estremamente complessa e articolata, più o meno liberale e inclusiva. Semplificando molto, offriamo comunque un quadro d’insieme.
Una prima significativa differenza la si ha a seconda che lo ius soli venga applicato alla nascita o dopo la nascita. Il più generoso e inclusivo è senz’altro il cosiddetto ius soli puro: chiunque nasca sul territorio nazionale, senza ulteriori condizioni, è automaticamente cittadino. Dopo che l’Irlanda lo ha abolito nel 2004, nessuno degli Stati membri adotta questa modalità. In tutta la Ue, infatti, lo ius soli alla nascita si applica automaticamente o per dichiarazione, ma dipende da condizioni che riguardano i genitori immigrati o il periodo di residenza del nucleo familiare.
Un criterio, previsto da Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Portogallo e Regno Unito, è la richiesta che i genitori dello straniero nato nel paese vi abbiano risieduto stabilmente per un certo numero di anni (con grandi differenze: 3 anni in Irlanda, a 5 in Portogallo, 8 in Germania, 10 in Belgio) e/o siano provvisti di permesso di soggiorno permanente (Belgio, Grecia, Regno Unito). Un’altra variante è il cosiddetto doppio ius soli, per cui si «salta» una o più generazioni e si assegna automaticamente alla nascita la cittadinanza al figlio di stranieri già nati nel paese (Belgio, Francia, Grecia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna) o al nipote di stranieri residenti nel paese (Paesi Bassi).
Le norme che regolano l’applicazione del cosiddetto ius soli dopo la nascita o differito variano ancora maggiormente. Alcuni Stati, prevedono un accesso alla cittadinanza in età minore, dopo un certo periodo di residenza; altri al compimento della maggiore età; altri ancora concedono condizioni facilitate di accesso alla cittadinanza, con una riduzione dei requisiti di residenza rispetto allo ius domicilii. In alcuni casi, la procedura è automatica, in altri è per dichiarazione, in altri ancora discrezionale. La tabella sottostante rappresenta il compromesso migliore per ridurre a sintesi tanta complessità.
Guardando alle tendenze, nel periodo considerato, in 13 occasioni lo ius soli è stato introdotto per la prima volta nella legislazione (Austria 1999, Finlandia 2003, Germania 2000, Lussemburgo 2009, Slovenia 2002, Svezia 2001) o significativamente rafforzato (Austria 2006, Belgio 1992 e 2000, Francia 1998, Grecia 2010, Irlanda 1998, Portogallo 2006); mentre in 6 casi si è intervenuti in termini restrittivi (Belgio 2006, Francia 1994, Germania 2005, Irlanda 2004, Italia 1992, Paesi Bassi 2003) ed è stato rimosso solamente in due paesi (Danimarca 2004, Malta 1989).
Non esistono statistiche affidabili sugli accessi alla cittadinanza per ius soli. È pertanto difficile valutare quanto siano inclusive le politiche dei singoli paesi, se non giudicandole «qualitativamente», con una inevitabile dose di arbitrarietà nella selezione dei criteri. Tuttavia, gli esperti di Eudo Citizenship hanno potuto stilare una classifica indicativa, che vede Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Portogallo e Regno Unito, come gli Stati membri con provvedimenti di ius soli maggiormente inclusivi. L’Italia è inserita nel gruppo di paesi a ius soli debolmente inclusivo, insieme a Belgio, Germania, Paesi Bassi e Spagna. Il giudizio sulla Germania non deve sorprendere. Se è vero che, nel 2000, l’adozione dello ius soli automatico, ancorché soggetto a condizioni, rappresentò una svolta epocale per la cultura della cittadinanza di quella nazione, a rendere meno positivo il giudizio sulla riforma tedesca pesano le norme restrittive del 2005, ma soprattutto l’altrettanto automatica revoca della cittadinanza tedesca, nel caso in cui il naturalizzato per ius soli non rinunci alla cittadinanza di provenienza tra i 18 e 23 anni.
Lo sguardo all’Europa dal 1989 a oggi ci dice che la risposta alla presenza stabile di più generazioni di immigrati nella società ha conosciuto due fasi. La prima, fino ai primi anni 2000, è stata di una liberalizzazione delle leggi sulla cittadinanza, con aperture significative per quanto concerne i diritti di naturalizzazione e inclusione degli immigrati residenti e dei loro figli. La seconda, influenzata da istanze securitarie sollevate da partiti populisti e xenofobi in seguito alla stagione del terrorismo internazionale del 2001-2005, segna una svolta verso riforme di carattere restrittivo ed etnico-identitario, con una decisa tendenza a vincolare la legislazione sulla cittadinanza a norme in materia di immigrazione sempre più rigide. Tuttavia, nemmeno quest’ultima fase è riuscita a segnare un arretramento del diritto alla naturalizzazione degli stranieri e dei loro figli, considerato ormai un principio di equità tipico delle società democratiche.
L’Italia non ha partecipato alla prima fase, andando in controtendenza con una legge estremamente generosa verso i discendenti degli emigrati e poco inclusiva nei confronti delle diverse generazioni di immigrati residenti. E tuttavia ha preso parte alla seconda, soprattutto mediante l’irrigidimento delle norme sull’immigrazione. L’asimmetria di trattamento tra emigrati e immigrati, ma ancora di più tra le generazioni successive di entrambi, è divenuta nel tempo più ampia, con un alto rischio di escludere dalla cittadinanza settori sempre più larghi e cruciali della società.
queste leggi sono semplicemente fatte per dividere,non unire i popoli, SI SALVI CHI PUO`….
bell’articolo, interessante… speriamo che prima o poi si possa avere come con il Passaporto unico UE anche una cittadinanza unica UE non legata ad un particolare Stato.
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