Il 17 luglio 2013 è morto lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami.
Verso Vincenzo Cerami ho sempre avuto un rimpianto: non essere un maschio. Perché Vincenzo era il più caro degli amici, ma solo con le persone del suo sesso. Aveva uno spirito cenacolare, ma le donne in quella dimensione cordiale e artistica erano sentite un disturbo, le donne troppo amate, temibili. Rispettate, corteggiate, adorate, ma amiche mai. Impossibile. Quando lo conobbi, alla fine degli anni Settanta, era il conclamato autore del Borghese piccolo piccolo e di Amorosa presenza e faceva una rivistina di poeti, «I tre giganti», circondandosi di giovani in cui credeva e che non avevano ancora pubblicato niente, o quasi. Lui voleva mettere la sua notorietà al servizio della poesia e dei giovani talenti.
C’era anche Sandro Onofri fra loro, che Cerami amava particolarmente. Era un ragazzo di borgata e lo spronava a tirar fuori la sua verità semplice, a non perdere mai quell’autenticità schietta e popolana che lo faceva diverso da tutti noi figli di una borghesia contestata, ma pur sempre borghesi. Vincenzo un borghese non lo è stato mai. E’ stato un ragazzo nevrotico e afasico che a Ciampino, alle medie, ebbe la fortuna di un professore eccezionale, Pier Paolo Pasolini, capace di capirne il bisogno di esprimersi e di cambiargli la vita. E probabilmente nella preoccupazione di Cerami di aiutare altre giovani personalità artistiche c’era il bisogno di restituire il grande dono che aveva avuto dal suo maestro. In qualche modo il dono della vita, almeno quella letteraria, altrimenti – forse – Vincenzo sarebbe diventato un astro del rugby, sport in cui eccelleva, ma senza la possibilità di comunicare.
E invece è diventato uno scrittore autentico, un vero poeta e insieme un artigiano della scrittura, che onorava sotto ogni sembianza, anche quella della semplice gag, come quando se ne partì per gli Stati Uniti ingaggiato su un set a sfornare battute. Me lo raccontava con quegli indimenticabili lampi azzurri che gli attraversavano lo sguardo, quando voleva convincerti e, intanto, muoveva le manone solide come se stesse avvitando un bullone o costruendo un oggetto qualsiasi. Vedi, voleva dire, la letteratura è una cosa concreta, non un sogno di bellezza, non l’idea di un sé che si vuole scrittore perché è bello esserlo.
Erano tempi di trionfante femminismo, non gli perdonavo di non dare importanza alle mie poesie, mi sentivo accettata solo come fidanzata di uno dei suoi amici poeti, e questo mi offendeva. Ma credo che mi volesse bene, perché lui voleva bene ai suoi amici e a quelli che i suoi amici amavano. E quando, pochi anni dopo, accettò di diventare socio di una nuova casa editrice romana, Theoria, nata dal dibattito di idee fra lui, Malcolm Skey, Beniamino Vignola e Paolo Repetti, fui anch’io fra i primi narratori italiani pubblicati, insieme a Marco Lodoli, Sandro Veronesi, Sandro Onofri, Valeria Viganò, Fulvio Abbate e poi Giampiero Comolli, Mauro Covacich, Andrea Carraro, Rocco Carbone… (non è un caso che gli autori fossero quasi tutti uomini: il maschilismo non era prerogativa di Cerami!).
Theoria in quel periodo – durò una decina d’anni – faceva parecchio chiasso: era amata dai giornali che ne parlavano spesso, e da un Giulio Einaudi commissariato che non era avaro di consigli verso quel gruppo di neoeditori che lo adoravano. Malcolm, poi, era una costola dell’Einaudi, molto vicino a Giulio e a lui molto caro. Vincenzo si teneva in disparte, dando i suoi consigli, indicando nuovi autori – per esempio Onofri, per esempio Veronesi –, regalando a Theoria un proprio delizioso testo, Sua Maestà, nel 1986. Gli piaceva il gioco, ma non voleva mescolare alle sue molte attività quella di editore, e forse non era nemmeno del tutto d’accordo – almeno qualche volta non lo era per niente – con le scelte della casa editrice. Ma era fatto così, generoso comunque, e con quello sprezzo d’altri tempi, una distanza nobile, una voglia di lanciare il sasso e stare a vedere quel che produceva. E poi: «Il massimo da chiedere all’amico / è non chiedere niente» dicono i versi di una poesia della sua bellissima recente raccolta, Alla luce del sole (Specchio Mondadori, 2013).
Sempre a proposito di amicizia, quella fra lui e Roberto Benigni era abbagliante. Vederli insieme era stupendo, sembravano vecchi compagni di scuola, partecipi di segreti solo loro, fatti di battute di repertorio, rapide intese, condivisioni antiche. Vincenzo giocava il ruolo del più saggio, ma sempre sul filo dell’ironia, del reciproco sfottò, lievi prese in giro di se stessi e degli altri, mai malevoli, sempre scherzosi.
Il mondo del cinema l’ha ripagato con giustizia; non così quello letterario di cui non ha mai condiviso salotti e consorterie, sgomitamenti per stare nelle giurie che contano e partecipare al grande mercato dei premi. Con gli altri scrittori costruiva amicizie, oppure niente. Era stato amico di Carmelo Samonà, di Moravia, del quale era vicino di casa a Sabaudia, ma amico vero, di quelli cui puoi confessare i problemi sentimentali e chiedere complicità per gli appuntamenti galanti. E a Sabaudia, a Capodanno, c’era sempre qualcuno di questi suoi amici famosi, mescolati in mezzo a un’orda di ragazzini – i suoi figli Aisha e Matteo e i loro amichetti – e a mezzanotte bisognava tutti fare i botti sulla spiaggia nel buio che s’illuminava di razzi multicolori. Secondo me il più eccitato era lui, Vincenzo.
Ma forse il ricordo più sorprendente di lui risale per me a quando, a Parigi, lavorava quotidianamente in scena con Jean-Claude Penchenat a L’enclave de Papes, lo spettacolo che dovevano presentare al Festival di Avignone del 1984, e cambiava le battute in teatro, durante le prove, cucendole sugli attori, in una lingua che non era la sua, preparando la notte il canovaccio di dialoghi per il giorno dopo. Quel clima da teatro antico, quel lavorare fianco a fianco con gli interpreti, quella pazienza nel tradurre i desideri del regista mi confermavano la modestia e la passione di Cerami per il suo mestiere, una capacità quasi inesistente fra gli intellettuali di tirarsi su le maniche e, prodigiosamente, inventare, quando capita, come capita, senza rifiutarsi a nessuna avventura della scrittura e della creatività. E sempre con un aurorale – così raro – entusiasmo.
Dear friend,
I hate to say how much I owe to Mr Vincenzo. I guess a lot of us will remember him as the Maestro of an idealistic Italy. An Italy that very few have had the chance to discover. As a kid, we used to have lectures from his teachings every now and then. Believe it or not, but he somehow managed to be the link between the artistic world of literature and our childhood kinder garden in Rome. It is sad to realize that all his legacy must be carried by family, friends and colleagues. But I guess we still have a lot to learn from him. It is hard to realize that life gets the best of us at the time when we are expecting it the least. May these few words bring us closer to him until we meet again hopefully.
Sincere condoleances.
Regards,
Ibrahim