Dal “rischio di dover ‘morire socialisti'” a quello di “morire tout court“. Era questo il timore della sinistra italiana alla vigilia del Congresso del PSE a Roma (28 febbraio – 1 marzo), fatto emergere dalle pagine di Mondoperaio (marzo/aprile 2014). E tale rimane oggi, in vista delle elezioni europee e nonostante lo stesso Congresso abbia segnato l’adesione del PD di Matteo Renzi al PSE (che non ha raggiunto il voto unanime solo per il parere contrario di Fioroni).
Dopo tanti anni di rapporti di informale distanza tra la sinistra italiana e quella europea, il cambio di rotta dettato da Matteo Renzi è una svolta buona ma rischiosa, non solo per la difficoltà di fare dei democratici italiani, dei socialisti europei. La partita si gioca infatti anche al di fuori dei confini nazionali, in Europa – dove la destra estrema si fa sempre più spazio – e oltre – con l’incapacità di trovare risposte al capitalismo finanziario. Tre prospettive che si ritrovano nei contributi di Stefano Ceccanti, Emanuele Macaluso e Luigi Capogrossi pubblicati su Mondoperaio e riproposti su Reset.
Ci sono voluti venticinque anni dalla caduta del Muro di Berlino perché il centrosinistra italiano e quello europeo potessero finalmente congiungersi pienamente e con reciproco beneficio: per l’Italia quello di non concepire il bipolarismo di casa nostra come un’ennesima anomalia; e per l‘Europa quello di una visione più post-ideologica del centrosinistra, in cui l’aggettivo “democratico”, internazionalmente più comprensivo di quello “socialista”, ad esso si affianca con pari dignità.
L’appuntamento arriva però dopo tanti fraintendimenti e paradossi. Il primo paradosso, a ben vedere, è che nel primo sistema dei partiti della Repubblica il nome e le cose coincidevano ben poco. Coloro che si dicevano socialisti non solo erano minoritari nella sinistra, ma nei fatti, a ben vedere, non erano più di tanto davvero socialisti europei (il Psi venne escluso dall’Internazionale per la sua subalternità al Pci, il Psdi degenerò ben presto in piccolo partito clientelare). Mentre coloro che svolgevano la stessa funzione di sinistra riformista di governo a livello nazionale, pur in alcune fasi con grande efficacia (le sinistre dc) si collocavano in modo critico in un partito a prevalenza moderata, dove erano costretti in posizione strutturalmente minoritaria (e lo stesso per il riformismo locale del Pci nella zona rossa, che si comportava da socialdemocratico ma negava di esserlo).
Fin qui però non ci sarebbe nulla di strano. In fondo anche in Francia il vero Partito socialista nasce pienamente solo nel 1971 – sei anni dopo la prima elezione presidenziale diretta che ne aveva incentivato la nascita – aggregando al troncone della vecchia Sfio le sinistre cattoliche prima minoritarie nel Mrp (Delors, Buron) e le componenti laico-repubblicane (Mitterrand).
Il secondo paradosso – quello più difficile a spiegare, se non con la natura più contraddittoria, anche in termini istituzionali, della transizione italiana rispetto a quella francese – accade poi dopo la caduta del Muro di Berlino: non è sufficiente la transizione del sistema dei partiti indotta dalle riforme elettorali a riconoscere l’importanza della coerenza tra collocazioni italiane ed europee, ed a eliminare in pochi anni le anomalie, che invece persistono a lungo, a sinistra e al centro.
Una parte dei postcomunisti ha aderito al Pse, ma non capendo bene di finire dentro a una realtà che ha sempre fatto dell’avere nemici a sinistra una controprova della propria vocazione riformista (come aveva dimostrato la lunga esclusione del Psi nel dopoguerra), e che già nel 1989, prima della Terza Via, si era fortemente impregnata, oltre che delle tradizionali ispirazioni religiose (senza le quali sarebbero impensabili le socialdemocrazie nordiche), anche di forti contaminazioni con le culture liberali (basti pensare al Psf dopo il 1983, col tandem Delors-Rocard, e alla lunga prova di governo del Psoe di Gonzalez). Così una parte dei Ds, in nome di un Pse più immaginario che reale, non aderì al Pd, che non avrebbe garantito quella collocazione ma che avrebbe dovuto produrre solo una deriva centrista; e diede invece vita a Sel , la quale però si allontana fatalmente dal Pse verso nuove derive movimentiste minoritarie.
Una parte dei postdemocristiani ha ripetuto poi per lunghi anni lo slogan “non moriremo socialisti”, magari sostenendo nel contempo posizioni statalistiche non più di casa neanche tra i socialdemocratici europei più tradizionalisti, e ignorando alcune caratteristiche del pur embrionale sistema europeo dei partiti, in cui le presenze riformiste di ispirazione religiosa sono di casa ab origine nel Labour e nelle socialdemocrazie nordiche (e dopo il 1971 nel Psf); e dove, sull’altro fronte, il Ppe è ormai dopo il 1989 saldamente ancorato a destra del centro, avendo addirittura preferito in Spagna i post-franchisti del Pp all’unico partito dc non conservatore residuo in Europa (i baschi del Pnv, costretti, faute de mieux, a ripararsi tra i liberali): per non parlare degli ungheresi di Orban.
Alla fine, però, la politica – che non è solo un’arte, ma anche una scienza – ha portato i pianeti all’inevitabile allineamento, inevitabile e sperabilmente fecondo in entrambe le direzioni. Qui però è invece una questione di arte, più che di scienza. Il Pse, pur modificato in partito dei democratici e dei socialisti, non è l’Eldorado, è per alcuni versi più arretrato del Pd uscito dalle ultime primarie; e a sua volta quest’ultimo deve ancora stabilizzare la sua capacità di attrattiva dei settori che tradizionalmente non votano a sinistra. Ma l’apprendimento reciproco è certo più fecondo del mantenimento delle separatezze.