L’incontro con le idee di Isaiah Berlin ci illumina su una svolta del pensiero liberale, cominciata nel secolo scorso e destinata a dispiegare le sue conseguenze a lungo, anche perché quella svolta è ancora incompiuta: si tratta di una radicale resa dei conti con la pluralità culturale, in tutta la sua complessità e con il carico di contraddizioni che mette di fronte ai sostenitori del progetto illuminista. Lo fa nei suoi saggi sul concetto di libertà e, ancora di più, in quelli su Machiavelli, Vico, Herder, sugli scrittori russi.
Pluralismo culturale significa per Berlin pluralismo di valori rispettabili e perseguibili, che si rivelano non sempre compatibili e a volte in netto contrasto l’uno con l’altro (per esempio ideali cristiani contro ideali repubblicani, libertà individuale e dedizione alla comunità), ma anche pluralismo delle culture, delle civiltà, delle nazioni, delle lingue, delle religioni. Beninteso anche i vecchi liberali apprezzavano la tolleranza, ma con Berlin viene in chiaro che, dentro la cultura liberale, ci sono da sempre due contraddittorie filosofie della tolleranza: una fa prevalere l’avanzata del progetto di libertà con i suoi tratti di civilizzazione universale, di espansione dei diritti individuali, di razionalizzazione della vita sociale; l’altra formula criteri per la convivenza pacifica tra comunità che rischiano in ogni momento la lotta tra loro e che presentano stili di vita diversi. Una aspira a un mondo in cui, per esempio, le donne non siano sottomesse al dominio patriarcale e siano libere di scegliere se e chi sposare; l’altra aspira a impedire che si ripetano tragedie come quella del Kosovo o della Siria e che popolazioni composite siano tutelate, in tutte le loro minoranze, da stati efficienti, rispettosi delle differenze. Un liberale desidera certo entrambe le cose, ma il percorso è pieno di ostacoli e il risultato duplice non è per niente garantito. A volte si scopre che le peggiori catastrofi nascono dal perseguimento di ideali, in sé encomiabili, con eccessivo accanimento.
Il lavoro di Berlin smaschera quella duplicità che si annida nella storia del pensiero liberale, rivela il rischio del «monismo», e cioè dell’unilateralità e semplicità, inconsapevolmente etnocentrica, che si può nascondere, come è accaduto tante volte nella storia umana, dentro un’ideale di civiltà da esportare. La «civiltà liberale» non fa eccezione, pur essendo l’erede di una tradizione illuminata dalla tolleranza. Anche in suo nome si rischia di ripetere il vizio di tutti gli estremismi, e cioè quello di credere che per realizzare un mondo ideale si debbano rompere le uova, se no non si può fare l’omelette: e infatti se ne rompono molte di uova, ma l’omelette non si vede e si rinvia a tempi lunghissimi.
Il «monismo» è alla base di ogni estremismo ed è un vizio che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, da Platone fino a noi, e consiste nella illusione, quella della philosophia perennis, che vi sia una e una sola risposta vera per ciascuna delle domande che gli esseri umani si pongono in ogni campo, morale, politico, sociale, scientifico. Berlin si riteneva per temperamento refrattario a questa forma di perfezionismo cognitivo, morale e politico e il modo in cui percorre la storia delle idee, guidata dalla ricerca dei grandi avversari del monismo – Machiavelli, Vico, Herder, i romantici, Montesquieu, Herzen – ci offre importanti ispirazioni sul modo in cui combinare esigenze contrastanti, ricomporre divergenze tra comunità culturali, e trovare compromessi tra ideali in attrito tra loro, facendo attenzione a rompere meno uova possibile. Come suggerisce uno degli allievi di Berlin, John Gray, a volte un «modus vivendi» tra culture diverse è la soluzione pacifica che prepara il terreno a una futura integrazione, se questa sarà desiderata e possibile.
C’è una pluralità di ideali come c’è una pluralità di culture e di temperamenti. Ma questo ci espone al relativismo? La risposta di Berlin è decisamente «no»: «Non sono un relativista; non dico: “A me piace il caffè col latte e a te senza; io sono a favore di comportamenti gentili, tu preferisci i campi di concentramento”, e ognuno si tenga i suoi valori, le cui differenze non possono essere superate o integrate». Questo sarebbe sbagliato. C’è un numero finito di valori, che hanno però in comune qualche cosa, altrimenti non sarebbero umani e non potremmo capirci tra diversi come invece possiamo fare. Il pluralismo va tenuto distinto dal relativismo: i valori sono tanti e diversi ma oggettivi, sono parte della essenza dell’umanità, non sono creazioni arbitrarie della fantasia. E se il pluralismo è una prospettiva valida, e se il rispetto tra sistemi di valori che non sono necessariamente ostili è possibile, «allora la tolleranza e le conseguenze liberali seguiranno».
La discussione sul pluralismo culturale, cui siamo costretti dal pluralismo dei fatti che cambiano la società europea, dovrà liberarsi dalla coazione a ripetere i consueti esorcismi contro il «multiculturalismo», un bersaglio di comodo inventato a copertura di politiche fallimentari da parte dei governi inglese, francese, tedesco e italiano. Che in questa discussione ci sia di guida, insieme ad altri, un autore geniale che ci mette in guardia con costanza contro il rischio permanente, per tutte le tribù umane, di considerare il proprio villaggio centro del cosmo e i valori del villaggio parametro indiscutibile di tutti i valori universali.
Quest’articolo è uscito sul quotidiano Europa il 24 agosto.
Pluralismo e relativismo, di Giuseppe Brescia. Appare calzante la nota di Giancarlo Bosetti, a proposito del pensiero di Isaiah Berlin: “Si fa presto a dire liberale”: lo stesso Berlin con cui fui in corrispondenza su Vico e Croce ( “Vico e Croce”, Laterza, Bari 2000). In particolare, nel furoreggiare che oggi si compie a difesa del cosiddetto “relativismo”, è importante la distinzione dello stesso rispetto a “pluralismo” ( di idee, valori, forme, stili di vita e via ). Vi si potrebbe ricondurre anche il pensiero di Max Weber, inteso a caratterizzare i giudizi di “valore” ( bello, bene, utile, vitale ) rispetto ai giudizi di “importanza” ( mi piace il te, o il caffé latte; il mare, o la montagna) o qualche spunto della polemica ideologica di Norberto Bobbio avverso la cosiddetta “conquista delle casamatte della società civile” ( Università, case editrici, giornali, centri culturali ), caratteristica della linea Gentile-Gramsci, più che dell’altra ( “liberale”, e non “monstica”) Vico- Herder-Croce. Senza dimenticare, peraltro, che lo stesso Sir Berlin, da liberale che ne aveva viste di tutti i colori, era contrario alla pretesa di “raddrizzare il legno storto della umanità”, revisione critica cui / con felice memoria neo-kantiana ) dedicò l’intenso volume edito in Italia da Adelphi. Il che non solo lo differenzia nettamente, ma lo contrappone idealmente, rispetto a tanti moralisti dell’immorale, non autentici fautori del “diritto mite”, e più in generale all’immondo ventre molle delle “lobbies” che nell’odierno clima etico-politico trovano il loro terreno di coltura. Giuseppe Brescia