Una nuova Convenzione europea per riformare i Trattati, approfondire l’integrazione politica e rendere la macchina dell’Ue più democratica ed efficiente per rispondere alle attese e alle insicurezze dei suoi cittadini. È quanto chiederà il Pd italiano, alle forze alleate e al governo-Draghi, con la conclusione – il prossimo 9 maggio – della Conferenza sul Futuro dell’Ue. Lo annuncia in quest’intervista a Reset Brando Benifei, capogruppo dem al Parlamento europeo. Che a nuovi investimenti militari dice sì , purché in un’ottica europea e al servizio di un disegno comune di politica estera e di difesa, capace di tradurre in realtà – nel segno della lezione di David Sassoli – quei valori fondanti di pace, libertà e solidarietà dati troppo a lungo per scontati.
Nata tra i mattoni del Muro di Berlino, la nostra generazione è cresciuta con la certezza di vivere in un’Europa di progresso, di libertà di movimento e di pace. Entrata nell’età adulta, ha visto sgretolarsi davanti agli occhi una dopo l’altra, crisi dopo crisi, ciascuna di queste certezze. Come si combatte un tale sconforto “storico”?
Non c’è dubbio, negli anni ’90 era stato immaginato un mondo avviato alla fine della Storia – Fukuyama elevava a paradigma una diffusa convinzione – ma già la guerra nei Balcani avrebbe dovuto suggerire ben altra prudenza. Poi la violenza politica ha fatto irruzione direttamente nelle nostre vite, prima col G8 di Genova, poi con le Torri Gemelle – a certificare che la Storia era tutt’altro che affatto finita. Quindi le crisi economiche: quella finanziaria del 2007-2008, quella dell’euro nel 2014-2015. Ma il vero battesimo del fuoco, possiamo dire, lo ha avuto la generazione successiva – che è stata quella che ha suonato la sveglia della consapevolezza della crisi climatica, ma il cui ingresso nel mondo adulto è stato poi segnato dalla pandemia e ora dal ritorno della guerra in Europa. Dunque sì, la parte più giovane della nostra società ha vissuto sulla sua pelle una sequenza di crisi e rischia di sentirsi “strutturalmente” sfiduciata: per molti l’assenza di certezze sul futuro, di prospettive di creazione di un proprio percorso di vita, di famiglia, di lavoro sembra essere un destino immutabile. Di fronte a questo pericolo credo che le istituzioni debbano reagire, e la reazione deve passare in primis dal dare all’Europa una soggettività politica diversa, in sintonia con un clima socio-politico cambiato, dove a quella rassegnazione si affianca anche una voglia di riscatto e di una società nuova. In questo senso è essenziale non sprecare l’energia dal basso di idee e proposte che ci viene dalla Conferenza sul Futuro dell’Unione.
In sei mesi e quattro gruppi di lavoro la Conferenza ha prodotto ben 178 raccomandazioni sui temi più vari che andranno ora al vaglio delle istituzioni. In che modo può fungere da molla per rispondere a quelle attese e insicurezze?
Se c’è una cosa che questo processo ha dimostrato è che cittadini scelti a caso, dunque non già attivi in associazioni sociali o politiche, rifiutano e rendono insignificanti gli schemi precostituiti classici di “euroscettici” ed “europeisti”, e chiedono invece insieme con forza proposte di riforma radicale dell’Unione. Al di là dell’assenza di consapevolezza dei tecnicismi Ue, le raccomandazioni approvate dai cittadini vanno in una direzione chiara: quella di un’Europa più democratica, con più partecipazione diretta dei cittadini e con un metodo decisionale senza i veti, senza l’unanimità, con un Senato dell’Unione al posto del Consiglio degli Stati e con un sistema educativo europeo più integrato. Parole e proposte molto chiare, che indicano una strada alla politica europea nel suo insieme per dare risposte a quella mancanza di certezze di cui dicevamo. Un’Europa riformata forse potrebbe dare con più efficacia queste risposte; o per lo meno questo è quello che credono i cittadini che hanno messo a punto queste proposte – e io francamente sono d’accordo con loro.
Questo processo in bilico tra maxi-consultazione ed esercizio di democrazia deliberativa europea si chiuderà formalmente il prossimo 9 maggio. E poi? Gli stessi cittadini coinvolti ignorano al momento che ne sarà esattamente delle raccomandazioni frutto del loro lungo lavoro.
La Conferenza ha fatto emergere proposte forti, anche radicali, di cambiamento, in direzione di un’Europa all’altezza delle sfide di oggi, più forte, più unita e più democratica: ha il potenziale di un vero e proprio nuovo inizio per le istituzioni europee. Il mio impegno dunque, come quello di tanti altri, va in una direzione chiara e semplice: con la fine della Conferenza bisogna aprire una Convenzione per la riforma dei Trattati, perché molte di quelle proposte – pur in parte realizzabili anche senza modificare i Trattati – diventino parte di una discussione per cambiare l’assetto del funzionamento dell’Unione europea. Il Parlamento europeo, sono convinto, troverà il consenso per porre questo tema, e lo stesso vale – lavoriamo per questo – per i parlamenti nazionali. Quanto ai governi, devono agire: non possono girarsi dall’altra parte. Non ci sono altre strade: la conclusione della Conferenza può solo prendere atto del fatto che per come funziona oggi l’Ue tutte le cose che ci chiedono i cittadini non le può fare, e dunque deve darsi un assetto di potere diverso.
È questa la posizione, oltre che tua, del Partito Democratico per intero?
Assolutamente sì, tanto che il segretario del Pd Enrico Letta lo ha dichiarato pubblicamente in questi giorni: la nostra proposta è quella che venga aperta una Convenzione europea per la riforma dei Trattati dopo la Conferenza. Non possiamo ignorare però che il Pd è oggi uno spicchio microscopico dell’attuale Parlamento – nemmeno il 15 per cento. L’altro 85 per cento, o almeno una parte, va portato dunque su queste posizioni. Ma siamo convinti della giustezza di questa linea e sono convinto che anche se sono stati meno espliciti del segretario del Pd anche altre forze politiche siano già su questa posizione. Personalmente mi auguro che tutte le forze politiche assumano questa linea, al netto del fatto che alcune di esse a mio parere qualunque posizione prendano purtroppo non sono credibili, perché sui temi del ruolo dell’Ue e dell’Italia in Europa hanno cambiato posizione continuamente senza mai spiegare perché l’hanno cambiata: mi riferisco alla Lega e a Fratelli d’Italia.
Ad aver cambiato posizione sul tema senza mai spiegare compiutamente perché, per la verità, sono anche i vostri alleati del Movimento 5 Stelle. Come procede il lavoro a Bruxelles con la loro delegazione? Si attesteranno su questa stessa battaglia?
Sul piano generale del collocamento europeo, al contrario di Lega e Fratelli d’Italia, mi sento di dire che l’evoluzione della posizione del M5S è stata da loro spiegata e ragionata in diverse sedi, anche con riflessioni di autocritica che apprezzo, benché non sempre condivida tutte le loro letture. Quanto alla gestione dei risultati della Conferenza, non mi pare che nel Movimento ci sia ancora questa chiarezza e nettezza – forse anche per l’incertezza del loro percorso politico in questo momento – ma penso che approderanno a una posizione analoga alla nostra sul fatto di dover aprire una fase di riforma dei Trattati con una Convenzione. Sono molto fiducioso che il Movimento 5 Stelle sosterrà questa proposta. Ma penso che allo stesso posizionamento, anche se in ritardo, arriverà anche Forza Italia.
L’obiettivo, per lo meno sul fronte italiano, è dunque quello di una sorta di ‘maggioranza Ursula’ per la Convenzione europea?
Ritengo che questo sarebbe uno scenario auspicabile.
Potrebbe essere uno scenario auspicabile anche per le prossime elezioni italiane?
Questo dipenderà dagli elettori. Io mi auguro ovviamente che essi diano una maggioranza relativa del 50 per cento più uno dei seggi al mio partito. Se questo non accadrà, come è realistico, bisognerà capire come sono andate le distribuzioni dei seggi, che dipendono anche dalle leggi elettorali. In Italia c’è il vizio di fare degli schemi astratti, ma i partiti nascono, muoiono e si organizzano in coalizione o meno sulla base delle leggi elettorali. Se la legge elettorale rimane invariata o viene riformata cambia tutto: i rapporti fra i partiti e anche il tipo di campagna elettorale. Quando avremo chiaro quali sono i seggi in Parlamento si capirà che tipo di governo potrà essere fatto in Italia, da quali forze e anche sulla base di quali vincoli.
Torniamo al quadro più ampio e strategico. Si è detto e scritto che l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin avrebbe risvegliato l’Europa dal suo sonno geopolitico; ma in tutte le fasi di questa crisi il pallino delle decisioni chiave è sembrato essere in mano agli Usa, e ad essere certamente rivitalizzata per il momento più che l’Ue è la Nato. La “bussola strategica” europea sta a Bruxelles o a Washington?
Mi pare evidente che senza uno sforzo di unità politica degli europei non esista difesa comune: una voce autonoma dell’Ue europea non esiste e sarà sempre dipendente dal contesto Nato, piuttosto che complementare, se non c’è la convinzione di un processo politico di maggiore unità, a partire dalle classi dirigenti. In assenza di questa, si resta appesi alle emergenze contingenti: la stessa unità europea di fronte all’aggressione ucraina è in realtà fragilissima ed è il frutto di estenuanti compromessi politici in vertici infiniti. Versailles non è stato il segno della forza dell’Europa, ma di una faticosa rincorsa di una capacità decisionale che non c’è. Dobbiamo ragionare quindi dell’interesse comune degli europei, che non è l’interesse di breve termine dei singoli governi, o dei singoli Paesi, ma la necessità di mantenere e rafforzare il nostro modello così particolare di democrazia e diritti sociali. Se si mette a fuoco questo, allora si può costruire anche un percorso di maggiore sovranità difensiva e di politica estera che oggi invece è velleitario. Perché ciò diventi strutturale, piuttosto che frutto delle emozioni o urgenze del momento, serve un salto di qualità politico.
Il ritorno della guerra in Europa ha impresso un’accelerazione imprevista all’impegno all’aumento delle spese militari, anche in Italia – tema quanto mai sensibile a sinistra. È la strada giusta, o una scelta affrettata fatta sotto pressione?
Più che una corsa all’aumento delle spese militari nazionali mi sembra importante capire come rafforzare una capacità di azione comune: un semplice atto di riflesso sul piano nazionale, pur per motivazioni comprensibili, non è in grado di dare una risposta alle esigenze di sicurezza reali che riguardano necessariamente l’intero continente. È una questione in primis di efficienza della spesa militare: la divisione dell’Europa in 27 sistemi militari e di armamenti diversi – numeri e studi alla mano – provoca una grande dispersione di risorse, che rende il nostro output militare molto più scarso di quello che si potrebbe avere con le medesime risorse se fossimo organizzati diversamente. Basta comparare i numeri europei e quelli degli Usa per averne prova. Se si adotta quest’ottica allora sì, si può poi arrivare ad innalzare la spesa al 2 per cento del Pil come da obblighi Nato: nella logica di avere un sistema d’arma europeo, massimizzando l’output rispetto alle spese. Diversamente, così come il pacifismo e il disarmo unilaterale, anche l’aumento delle spese “perché bisogna aumentare le spese” appare come una posizione ideologica o legata a interessi specifici.
Pochi mesi prima di spegnersi prematuramente, in uno dei suoi discorsi più appassionati, l’ex presidente del Parlamento europeo David Sassoli disse guardando alla fine dal tunnel della pandemia che «noi vogliamo uscire da questa crisi con società più aperte, più accoglienti, con meno diseguaglianze, con impegni concreti nella lotta alla povertà, con una democrazia più funzionante e partecipata». Vale come ricetta anche di fronte alla guerra?
Non c’è dubbio: anche la guerra noi la dobbiamo affrontare con lo sguardo dei valori di pace, di solidarietà e di libertà che stanno a fondamento dell’idea originaria di unità dei popoli europei. Idee e valori che dobbiamo saper declinare appropriatamente in questa vicenda: la pace deve restare l’obiettivo cardinale di ogni nostra azione, ma la libertà significa rispettare la volontà di resistenza e di non essere sopraffatti da Putin del popolo ucraino – aiutandolo quindi anche con l’invio di armi – mentre la solidarietà significa tendere il braccio, come sta avvenendo, ai profughi. Un prisma quest’ultimo che ci dà la misura però delle ingiustizie che ancora affliggono il rapporto dell’Europa con l’accoglienza di chi fugge da guerre e persecuzioni: perché quegli stessi confini polacchi da cui sono stati fatti entrare milioni di ucraini hanno visto migliaia di persone originarie della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan abbandonate in una foresta, e tuttora la situazione è molto complicata. Dunque anche questa guerra ci pone di fronte alla necessità di un impegno costante perché questi valori non restino delle affermazioni simboliche, ma siano tramutate in realtà. Trasformare questo auspicio in una lotta politica era una delle preoccupazioni e dei lasciti più grandi di Sassoli.