Discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Georg-August Zinn da parte della Spd dell’Assia.
È certo in primo luogo per anzianità che sono stato candidato a ricevere questo premio.
In effetti, ho vissuto in Assia durante la maggior parte dei 19 anni del governo di Georg August Zinn e come cittadino di questo Land, sono stato contagiato dallo spirito pionieristico di questo Primo Ministro. A quel tempo, lo slogan “L’Assia è avanti” era scontato per tutti. Questo avveniva a metà del suo secondo mandato quando, con mia moglie e il nostro primo bambino di appena due mesi, venni a Francoforte per diventare assistente di Adorno. Lasciai nuovamente la città solo tre anni dopo la fine del quinto e ultimo mandato di Zinn (ma non senza poi ritornare qui ancora per dodici anni e, alla fine, quando sono andato in pensione, da professore emerito, sono stato salutato con grande cordialità da un altro primo ministro, Hans Eichel).
Considero una circostanza fortunata il fatto che abbiamo vissuto – in quegli anni Cinquanta e Sessanta, a Francoforte e in Assia, come contemporanei ancora giovani, attenti, curiosi e desiderosi di imparare – il periodo più importante della Germania del dopoguerra, in un clima, per così dire, di intensa attenzione alla contemporaneità. Gli snodi dello sviluppo economico, politico e istituzionale, quando siamo arrivati noi, erano già stati determinati. Ma la discussione sul carattere della mentalità politica della Repubblica Federale si è poi protratta in modo molto ben più appassionato nel decennio e mezzo successivo – e così siamo venuti a trovarci nel bel mezzo di un ambiente politicamente turbolento, comunicativo e socialmente dinamico, in un clima intellettuale che era al tempo stesso eccitante ed eccitabile. Col senno di poi, posso dire che sono stati gli anni più intensi della mia vita adulta.
Ma la Spd dell’Assia non mi conferisce certo un premio per il fatto di avere 83 anni. Volgere lo sguardo al passato non deve impedirci di concentrarci sulla questione che è oggi più urgente; e allora parliamo di Europa.
Molti di noi hanno la sensazione che la crisi, già latente sin dal 2008, nel corso di questo autunno entrerà in una fase cruciale, perché la politica seguita finora di stabilizzazione a breve termine dei mercati finanziari ha raggiunto i suoi limiti. Nel frattempo, anche nei politici, è cresciuta la percezione che la moneta comune richieda di pari passo anche politiche fiscali, economiche e sociali comuni. Ma i risultati, per il momento, hanno portato solo a dichiarazioni formali in favore dell’Europa. I governi continuano a sperare di poter ancora continuare a mantenere con discrezione le direttive economiche in scadenzaal livello della policy, della strategia politica, senza modificare le istituzioni politiche. “Anche oggi”, ha osservato il corrispondente economico da Berlino per la Süddeutsche Zeitung, “i governi dei paesi dell’area dell’euro hanno trasferito alla banca di emissione, la BCE, gran parte dei compiti che sarebbero in realtà essi stessi a dover sbrigare – per semplice paura che gli elettori non supportino più il loro programma di salvataggio euro. (SZ, 30 agosto 2012).
Per quanto riguarda le quote dei depositi nazionali della Banca Centrale Europea, si può constatare che la banca, con la sua politica di acquisto di titoli degli Stati in difficoltà, ha già intrapreso da lungo tempo il percorso di una velata “unione del debito”. Allo stesso tempo, questa parola è utilizzata in politica interna come un ‘arma per togliere forza a qualsiasi suggerimento costruttivo teso a rafforzare l’unione politica, come ad esempio il recente tentativo di Sigmar Gabriel.
Da quando Herman Van Rompuy, il 26 giugno scorso, ha avanzato al Consiglio Europeo una proposta per una “vera” unione fiscale ed economica e quindi ha ricevuto dai capi di governo il compito di preparare tale proposta per il mese di dicembre, i presidenti del Consiglio Europeo, della Commissione e della BCE sono occupati a elaborare il progetto di una ” soluzione istituzionale” della crisi.
Il circolo vizioso, da tempo riconosciuto, dell’ estorsione attuata da parte dei mercati finanziari nei paesi dell’euro è recentemente stato descritto dal commissario europeo Michel Barnier con parole semplici: “prima lo Stato aiuta le banche in difficoltà, ma in tal modo aumenta il debito nazionale, che viene poi acquistato ancora una volta dalle banche – e in tal modo la situazione risulta ulteriormente aggravata” (SZ, 31 agosto 2012). In verità, il Commissario sottace il fatto che, in questo triste gioco, fin tanto che l’estorsione funziona, gli investitori privati sono gli unici vincitori, mentre le misure di austerità imposte non battono cassa presso chi è causa della crisi, bensì presso le masse dei cittadini già pesantemente danneggiati.
Nel frattempo prendono forma tangibile le idee di una vigilanza e di una unione bancaria comuni, allo scopo di facilitare l’accesso al credito del meccanismo europeo di stabilità. Inoltre, tutte le persone coinvolte sanno che anche risolvere la crisi fiscale non inciderebbe sulle cause di fondo, vale a dire su quegli squilibri strutturali che si sono formati all’interno della stessa valuta tra economie nazionali indipendenti e con capacità competitive diverse.Per contro, anche il rispetto delle politiche di bilancio, a lungo termine, non sarà risolutivo.
In un suo notevole articolo per Time, Mario Draghi fa un ulteriore passo avanti: per una vera unione fiscale ed economica sarebbe necessaria una base politica, in modo che tutti gli Stati membri si comportino secondo la massima: “non è né legittimo né economicamente sostenibile che le politiche economiche dei singoli paesi, superando le frontiere, comportino rischi per i partner dell’Unione monetaria”. Draghi si rende conto del fatto che “l’esercizio congiunto di sovranità” rende necessario un allargamento della base di legittimità. Ma ciò tocca proprio quella soglia del dolore, che per il momento tutti i governi evitano ansiosamente di varcare, vale a dire il nuovo dibattito su una modifica dei trattati europei. Non è un caso che le iniziative e i suggerimenti per una soluzione istituzionale provengano da alti funzionari, i quali non devono sottostare a elezioni politiche.
Se la mia descrizione della situazione è giusta, stiamo andando incontro a un dilemma. Da una parte, sotto la pressione dei mercati finanziari, si rafforza sempre più la tendenza a allontanare con una sorta di “pausa di riflessione” progettata dagli esperti economici la vera unione fiscale ed economica. In ogni caso, gli imperativi economici che hanno messo in la costruzione di una nuova “architettura istituzionale”, dovranno essere soddisfatti in un modo o nell’altro. Ma, d’altra parte, da ciò deriva una conseguenza, che i responsabili politici al momento respingono spaventati: i diritti sovrani che vengono sottratti ai parlamenti nazionali nel quadro del piano di ristrutturazione fiscale dovrebbero poi, a livello europeo, a loro volta essere trasferiti a un legislatore democratico. Essi non possono essere tutelati soltanto dai capi di governo riuniti; e ciò perché il Consiglio Europeo non è eletto dai cittadini europei nel loro insieme. In caso contrario, violeremmo il principio secondo cui il legislatore, che decide sulla distribuzione della spesa pubblica, è la stessa figura del legislatore democraticamente eletto, che su tale spesa aumenta le tasse.
Temo, tuttavia, che proprio questo sarà il prezzo che dovremmo pagare per una soluzione tecnocratica della crisi. I governi concentreranno i poteri necessari a livello europeo al fine di soddisfare “i mercati”; ma, allo stesso tempo, vorranno cercare di sminuire il vero significato di questo processo di integrazione di fronte al loro pubblico di elettori, dal momento che, per un ampliamento politico dell’unione, nemmeno nei paesi del nocciolo europeo si può più contare sulla consueta disponibilità all’adesione passiva.
Con questo scenario, ci troviamo già su un percorso post-democratico in direzione di un federalismo esecutivo conforme al mercato, vale a dire un federalismo confezionato su misura per gli imperativi dei mercati finanziari. In tal modo, non solo la democrazia si perderebbe per strada; noi stessi ci giocheremmo allo stesso tempo l’occasione di riuscire a regolare i mercati finanziari, anche se inizialmente solo su una scala economica continentale. Un esecutivo europeo che diventasse del tutto indipendente nei confronti di un elettorato che possa essere mobilitato democraticamente perderebbe completamente tutta la motivazione e la forza per qualsiasi contromanovra.
Certamente vi sono buone ragioni per la riluttanza dei governi e dei partiti politici. Finora il progetto europeo è stato più o meno portato avanti dalle sole élite politiche, passando sopra la testa della popolazione. E i cittadini sono stati soddisfatti finché l’UE ha significato comunione degli utili. Ora, però, la crisi dell’euro, che sta colpendo in modo diverso le economie nazionali e che viene percepita come polarizzante dal punto di vista delle opinioni pubbliche nazionali, sta ovunque rafforzando il populismo euro-scettico di destra. I sondaggi mostrano che non sarebbe affatto facile ottenere maggioranze favorevoli a una modifica in ritardo dei trattati. Ma prima di rassegnarci ad accettare questi stati d’animo come dati di fatto, dovremmo ricordare in primo luogo l’approccio normativo in base al quale le elezioni politiche e il voto significano qualcosa di diverso dalle indagini demografiche.
Elezioni e voto hanno lo scopo di riflettere non solo una gamma di preferenze attuali, ma anche giudizi sui programmi e sulle persone da eleggere. Essi non possono esprimere la volontà del popolo in modo non riflettuto, perché hanno anche un senso cognitivo. Il governo deve elaborare i problemi più urgenti sulla base di tali decisioni circa la direzione da prendere. In una democrazia, le elezioni politiche non soddisfano la loro vocazione sistemica se si limitano a registrare la distribuzione delle preferenze e dei preconcetti. I voti dei votanti acquistano il peso istituzionale delle decisioni civili un di co-legislatore solo in quanto scaturiscono da un processo pubblico di formazione delle opinioni e della volontà, e questo processo è guidato nei pro e nei contra da pubbliche opinioni, argomentazioni e dichiarazioni liberamente fluttuanti. Le opinioni dei cittadini possono formarsi esclusivamente dalla marea dei contributi dissonanti, alla luce di uno scambio articolato di pubbliche opinioni.
Idealmente, la politica deliberativa è radicata in una società civile che fa un uso anarchico della propria libertà di comunicare. Ma nella nostra vasta opinione pubblica, costituita in primo luogo dalla rete di comunicazione dei mass media, non servono solo informazioni e suggerimenti da parte di una stampa spontanea e indipendente, ma servono soprattutto l’iniziativa, la lucidità e la capacità organizzativa dei partiti politici. Qui in Germania essi hanno anche un corrispondente mandato costituzionale. Oggi, sono ospite di un partito politico. Non è una gentilezza nei vostri confronti, quanto piuttosto una pretesa, se dico che, oggi, il destino politico dell’Europa dipende in primo luogo dall’intuizione e dalla sensibilità normativa, dal coraggio, dall’inventiva e dalla capacità di leadership dei partiti politici, e in secondo luogo, naturalmente, anche dalla capacità di percezione e di risposta dei media di orientamento politico.
Ma da un tavolo da conferenza è facile parlare. In primo luogo i partiti, a causa dell’impegno necessario ad acquisire e conservare il potere politico, sono costretti a programmare e ad agire sulla base temporale dei cicli elettorali; essi corrono considerevoli rischi aggiuntivi e devono farsene carico vincolando il peso delle loro decisioni pragmatiche alla fissazione di obiettivi storici di portata ben più ampia.
Essi operano anche sotto le aspettative di legittimità di arene nazionali che si sono appena aperte le une alle altre; i partiti dunque non dovrebbero aspettarsi ricompense se, prima ancora che esista di un sistema partitico europeo, pensano e agiscono allo stesso tempo sul piano nazionale e su quello europeo. Infine, la concorrenza nazionale tra i partiti limita lo spazio discrezionale delle coalizioni, che si propongono in termini di alternativa nello scenario della politica europea. Un esempio recente è la situazione incresciosa della SPD nelle elezioni del Bundestag. Nessun partito può permettersi di uscire per primo allo scoperto con slogan pro-europei, senza dover temere di essere punito da miopi concorrenti populisti, che in realtà perseguono obiettivi simili.
Oggi, la formazione di una opinione e di una volontà politica nella popolazione in senso lato si sottrae alla consueta presa demoscopico-commerciale attraverso la decisiva alternativa di una maggiore o minore partecipazione all’Europa. Essa esige dalle élite politiche una modalità politica molto diversa, argomentativa e forte nella guida, una modalità che sia formativa della mentalità politica. Si tratta, pur nella coscienza della fallibilità, di un lavoro di persuasione. Non si possono criticare i partiti se non sono preparati per questa situazione fuori del comune. Tuttavia, è proprio in situazioni straordinarie che la franca ammissione di un dilemma può anche rappresentare un primo passo per superarlo.
L’articolo è stato pubblicato su Die Zeit
(Traduzione di Laura Bocci)
Giusto. Ma dove sono in Italia i partiti in grado di fare quello che habermas suggerisce?