Scomodare Pasolini? Per parlare del Tg1 di Minzolini può sembrare troppo. Ma forse non è poi così azzardato dal momento che le trasformazioni che il nuovo (poi neanche così tanto nuovo) direttore sta apportando al suo telegiornale appaiono radicali e di lunga durata. Il riferimento a Pasolini è facilmente intuibile: è un riferimento a quel passo di Scritti corsari dove Pasolini parla della trasformazione «antropologica» che la televisione ha prodotto sugli italiani. Bene, penso che per molti aspetti quello che sta avvenendo sotto gli occhi dei telespettatori è una trasformazione «antropologica» del Tg1, una trasformazione che può diventare trasformazione antropologica degli stessi telespettatori, una trasformazione antropologica degli italiani, quanto meno di circa sei milioni di essi. Sto esagerando? Spero di sì, ma non ne sono così sicuro.
Non mi riferisco solo agli editoriali di Minzolini che pure costituiscono una paradossale infrazione della logica del servizio pubblico (altrettanto paradossale, però, quanto quella attuata nelle trasmissioni di Santoro) e un’assunzione di responsabilità editoriale che mai si era avuta prima nella storia del Tg1 (anche in questo caso, però, la sinistra aveva anticipato Minzolini con i vecchi editoriali di Sandro Curzi. Non dimentichiamolo). La trasformazione antropologica a cui mi riferisco è meno evidente e più sottile e però alcuni dati ce la mostrano in tutta evidenza.
Nuovi criteri per le notizie
Minzolini sta radicalmente cambiando il Tg1 perché sta mutando altrettanto radicalmente le strategie di selezione delle notizie. Tra la direzione di Minzolini e quella del suo predecessore, Riotta (ma quella degli ancora più lontani predecessori dell’attuale direttore non sarebbe stata differente), passa un abisso. Laddove con Riotta il tempo dedicato alle notizie di politica precedeva quello dedicato alla cronaca, con Minzolini avviene l’inverso e non per poche unità percentuali. La cronaca è diventata ormai da tempo la «regina» del Tg1 e non si tratta di un dato sporadico e casuale, legato al mese specifico.
Avevamo sempre detto, e lamentato, che il Tg1 era, tra tutti, il telegiornale più istituzionale, quello vicino, troppo vicino, ai palazzi romani. Era il Tg più ufficiale, un po’ come lo è l’Ansa tra le agenzie di stampa. Bene, Minzolini sta rivoluzionando questo approccio e questa immagine. Le notizie di cronaca prevalgono decisamente su quelle della politica venendo a costituire la parte più importante del Tg. Ma non è solo una questione di spazi e tempi: questa differente strategia dell’attenzione riguarda anche la gerarchia delle notizie. Si guardi alla scaletta del Tg1 delle 20 del 22 dicembre 2009. Quel giorno è stata approvata in via definitiva la legge finanziaria: è la decima notizia del telegiornale.
Si apre con il maltempo, con il disagio dei più poveri di fronte alle intemperie e con Carla Bruni e il Principe William che corrono in loro soccorso. E così per tante altre edizioni del telegiornale. Per carità: argomenti importanti e drammatici, certamente più importanti delle dichiarazioni dei politici. Ma proprio qui sta il problema. Invece di correggere quella distorsione che faceva del Tg1, il Tg delle dichiarazioni dei politici, si è scelta una strada completamente differente, della quale però è bene essere consapevoli.
Dove sta lo scandalo? E che c’entra l’antropologia? Proviamo a vedere le ragioni e soprattutto le conseguenze di questa mutazione. Le ragioni: ovviamente, la più semplice, quella che forse Minzolini farebbe sua, riguarda il mercato. Dopo tanti anni finalmente il Tg1 si occupa di problemi vicini alla gente e non di quelli che interessano i palazzi romani e che nascono dai palazzi romani. Così si assicura una fetta di mercato certa e fedele che, anzi, forse si riesce anche a incrementare, come gli ultimi dati dimostrano. La competizione tra testate spinge ad adattarsi al gusto e alle richieste dei telespettatori e il Tg1 risponde positivamente a tali richieste. Il mercato, in altre parole, stabilisce le strategie di selezione e di gerarchizzazione delle notizie.
Ma c’è ovviamente di più: c’è una lettura meno buonista di questo mutamento. Offrendo ai telespettatori ciò che i sondaggi dicono che i telespettatori vogliono, si distoglie lo sguardo dai problemi di gestione della comunità, problemi che coinvolgono spesso contrasto di idee e di posizioni. Quella conflittualità che sanamente contraddistingue «la politica» viene erosa fino a essere nascosta. Il dibattito e la discussione che sono, mi si permetta, il sale della democrazia, scompaiono dagli schermi dell’informazione televisiva quotidiana. Non sono ancora scomparsi, ma la strada intrapresa rischia di essere lunga. Una possibile funzione del servizio pubblico, una funzione non didattica o divulgativa come era decenni fa, ma una funzione di critica, stimolo, sorveglianza sul potere, viene meno.
Non c’è ombra di dubbio, come appena detto, circa il fatto che la rappresentazione che fino a oggi il Tg1, assieme a quasi tutti gli altri telegiornali italiani, ha dato della politica era una rappresentazione «delle dichiarazioni», una rappresentazione che ha ridotto l’informazione televisiva a un palcoscenico gratuitamente offerto al mondo politico per esporre, quasi sempre in modo incomprensibile e certamente poco attraente, le loro idee e posizioni ai telespettatori. In questa rappresentazione, come dice Travaglio, «i fatti scompaiono». Finora si è data la possibilità al mondo politico di dire la sua; ma non si diceva, non si dice che cosa è successo, cosa viene approvato o discusso, non si raccontano gli eventi, non si spiega quale è la posta in gioco. La politica, i problemi della gestione della comunità nella quale viviamo possono essere proposti in modo coinvolgente e interessante senza ridurli a una ridda di dichiarazioni. Lo si fa in quasi tutto il mondo libero.
Minzolini ha scelto una strada diversa: abbandonare la copertura della politica perché i telespettatori sono poco interessati. Il risultato è uno solo: il disinteresse verso gli affari di interesse generale continua a crescere e a moltiplicarsi. Sembra di leggere quel cartello che ancora troviamo negli autobus «non disturbare il guidatore». Questa è la trasformazione antropologica a cui facevo riferimento. Relegando gli «interni» a una posizione di subalternità rispetto ad altre tipologie di cronaca si trasmette e si rinforza l’idea che c’è qualcuno che si sta occupando della tua vita: «lascialo lavorare». In questo c’è perfetta sintonia tra la linea editoriale del Tg1 e il modo in cui l’attuale Presidente del Consiglio intende la gestione degli affari pubblici.
La trasformazione antropologica è, per così dire, la seguente: la partecipazione politica si riduce al momento elettorale. Tutto il resto è noia e ripetitività, non degno di apparire sugli schermi televisivi. Una volta scelto chi guiderà l’autobus, questi deve essere lasciato libero di decidere la sua direzione. Se ne riparlerà tra cinque anni. L’informazione giornalistica, in questo caso quella della televisione, riflette questa interpretazione del coinvolgimento dei cittadini alla vita della comunità.
Carlà e i poveri
In effetti, la trasformazione è ancora più radicale e, se volete, più subdola. Il risultato di questa modifica di strategia di selezione e gerarchizzazione delle notizie è alla fine quello dell’ulteriore frammentazione del pubblico: intanto, si opera una netta scissione tra coloro che hanno la responsabilità della gestione della comunità (tra i quali poi emerge necessariamente la figura carismatica) e coloro che assistono passivi. Non si stanno più offrendo informazioni, per quanto distorte, parziali, macchiate dal marchio inesorabile del presenzialismo, a dei soggetti partecipi dei problemi generali, ma a degli «spettatori» al cui gusto la cosiddetta rete ammiraglia si adatta. La politica si riduce al momento elettorale: la discussione, la partecipazione al dibattito sulle questioni di interesse generale non è degna di nota. La mutazione antropologica sta in questo: c’è qualcuno che si sta occupando dei tuoi problemi; lascialo lavorare. Tra cinque anni vedrai i frutti o lo punirai. Non interessa che tu, spettatore, partecipi, prenda posizione, esprima il tuo punto di vista. Non è il tuo compito. La trasformazione antropologica sta nel fatto che le esperienze di molti altri paesi ci dicono che anche grazie a questo modo di intendere l’informazione giornalistica, si è minata la partecipazione politica e civile. Quando Putnam parla di bowling alone come di una dimensione caratterizzante la modernità si riferisce esplicitamente, a torto o a ragione, anche a questo modo di intendere l’informazione giornalistica.
La solitudine di chi gioca a bowling da solo è nascosta nell’interesse verso fatti strani ed esotici (Carla Bruni che si occupa dei barboni). Non gli si chiede di alzarsi dalla poltrona e di unirsi ad altri, bensì di guardare con curiosità una bella donna che assume su di sé la responsabilità dei più poveri.
Ancora frammentazione: quella tra il pubblico di massa che consuma cronaca e il pubblico che su internet è aggiornato al minuto, discute, interviene, prende posizione. Una differenziazione che, con linguaggio ormai aulico, rischia di essere «di classe»: chi possiede conoscenza (il capitale della società dell’informazione) e chi non la possiede. Chi possiede conoscenze e interviene attivamente nella vita della comunità e chi, seduto sulla sua poltrona, consuma cronaca. Qui passa la «frattura» (cleavage) che sembra caratterizzare le società di oggi.
Sto esagerando? Purtroppo no: le esperienze di società più avanzate ci dicono chiaramente che questo è il crinale che, anche grazie a Minzolini (non solo grazie a lui, ovviamente) stiamo percorrendo. La televisione commerciale statunitense l’ha già percorso decenni orsono, la stampa scandalistica inglese e tedesca sono lo strumento evidente di una differenza di classe costruita anche, se non soprattutto, sul possesso delle conoscenze. Non è un caso che pochi mesi fa, proprio in relazione anche a questi temi, parte importante della più consapevole società civile statunitense abbia sentito il bisogno di produrre un rapporto «sulla ricostruzione del giornalismo americano» auspicando la maggior diffusione di un giornalismo critico che incentivi la partecipazione ai fatti di interesse generale. La direzione che il Tg1 sembra aver intrapreso spalanca davanti a noi gli stessi problemi che altre società hanno già sperimentato. Impariamo da queste esperienze, anche perché tornare indietro lungo questa strada non è facile: si rischia di perdere audience e dal momento che ogni ethos da servizio pubblico sembra scomparso, da quella direzione non si torna indietro.
Non voglio rivedere il telegiornale delle dichiarazioni, anzi è proprio in questo telegiornale di Minzolini che la politica si riduce sempre di più alle dichiarazioni impenetrabili di Gasparri, Cicchitto, Di Pietro. In questo telegiornale in cui la cronaca la fa da padrona, il succo, la posta in gioco delle questioni di interesse generale non viene spiegata e certamente anche per questo il telespettatore si allontana dalla politica e dalle sue, spesso insulse, dichiarazioni.