È stato definito “un router umano” da TechCrunch, la Columbia Journalism Review lo ha presentato come “il migliore account Twitter del mondo”, la rivista Time lo ha incluso tra i 140 migliori canali del social network dell’uccellino blu per il 2011. Il Guardian, dopo aver riportato la seccatura del diretto interessato quando gli fanno perdere tempo a tentare definizioni per quello che fa, finisce anche lui nella trappola e gli affibbia l’epiteto semi-intraducibile di “one-man broadcast channel-cum-newswire sugli eventi del Medio Oriente.” Quando lo ha intervistato il Washington Post, il giornalista Paul Fahri c’ha riprovato: “Tweet curator? Social-media news aggregator? Interactive digital journalist?” È stato l’intervistato a tagliar corto: “Lo vedo come un altro tipo di giornalismo, quindi suppongo di essere un altro tipo di giornalista.”
La figura di Andy Carvin – una quarantina d’anni, marito e padre di due figli, oltre 71mila follower su Twitter, e una media di 16 ore al giorno passate sul social network – ha effettivamente poco in comune con la classica immagine del giornalista di strada. Difficile immaginarselo mentre prende appunti su un taccuino, o mentre corre da un luogo a un altro, consumando le suole delle scarpe. Andy Carvin tra le mani stringe più volentieri il suo iPhone e tutto ciò che lo ha reso un caso di studio per chi cerca di decifrare il futuro dell’informazione, lo fa comodamente seduto davanti allo schermo del pc. Dopotutto questo è il suo lavoro: dal 2006 è senior strategist del social media desk dell’emittente americana National Public Radio – il suo compito è quello di sperimentare sinergie innovative tra i media e l’informazione, più che di scovare notizie.
Nel dicembre 2010, quando Mohammed Bouazizi si dà fuoco di fronte al palazzo del governo della città di Sidi Bouzid diventando il primo martire della rivolta tunisina, la miccia delle primavere arabe si accende anche su Twitter. Andy Carvin racconta che in quel periodo cominciò a seguire la rivolta attraverso i cinguettii della Rete: “Come ho iniziato a vedere che le persone usavano l’hashtag #sidibouzid, nel tardo dicembre, per documentare e incitare le proteste nel Paese, ho iniziato veramente a chiedermi se avessero qualche possibilità di andare fino in fondo.” Poi è arrivato #jan25, l’Egitto e il contagio: il Bahrein, la Libia, la Siria… Finché Andy Carvin si è sentito chiamare anche “l’uomo che twitta le rivoluzioni”.
Quando gli è stato fatto notare che, con i suoi tweet, sembrava parteggiare per i ribelli, Carvin ha risposto: “Sinceramente cerco di twittare i punti di vista delle diverse parti e cogliere le voci di coloro che sono direttamente coinvolti. Considero quello che faccio come un tentativo di raccontare la vera storia di queste rivolte in prima persona, per quanto è possibile. E quando fai una cosa del genere, finisci per concentrarti su ciò che stanno facendo i ribelli.”
La sua preferenza per le informazioni che non vengono dal governo e che non sono autorizzate, è stata sottolineata anche da uno studio condotto dal professore canadese Alfred Hermida che finisce per identificare Andy Carvin come un punto di rottura con il metodo tradizionale per la selezione delle fonti, verso le quali però lo scetticismo di Carvin non cala mai la guardia. Lo strategist di NPR non dimentica che per raggiungere i loro obiettivi i rivoluzionari hanno bisogno dei riflettori dell’informazione puntati su di loro e sa riconoscere i campanelli d’allarme per l’attendibilità di una voce, come ad esempio, l’utilizzo sbagliato di formule o parole tipiche del linguaggio giornalistico.
“Qualcosa a metà strada tra la cronaca e il giornalismo collaborativo della rete” è forse la definizione migliore che lui stesso trova per il suo modo di fare informazione. Tutto il lavoro è alimentato dai contributi dei suoi tweep (neologismo coniato dalla fusione di Twitter e peeps, termine colloquiale per people, gente) che vengono usati come fonti e collaboratori al tempo stesso: sono loro la vera forza di Carvin.
Basta ricordare brevemente quanto successo nel giugno del 2011, quando in Rete si palesò un post che annunciava il rapimento di Amina Abdallah Arraf, blogger per metà siriana e per metà americana che, nel giro di pochi mesi, si era imposta come una delle più seguite, tra le voci della rivolta araba, grazie al suo blog Gay girl in Damascus. La mobilitazione online fu veloce e piena: furono tantissimi a parlarne perché l’attenzione sul caso non si indebolisse, l’hashtag #freeamina si diffuse velocemente su Twitter. Tutti a chiedersi che fine avesse fatto, come la si potesse aiutare, dove la si potesse cercare. Tra questi, inutile sottolinearlo, c’era anche Andy Carvin. Non si insospettì subito, per la verità. Furono certi commenti e certi messaggi a mettergli la pulce nell’orecchio e così iniziò a cercare qualcuno che conoscesse Amina di persona. Nel riassunto di quello che si rivelerà il finto rapimento di una finta blogger, si contano almeno una quindicina di account che sono stati fondamentali per scovare la vera identità della giovane siriana; sei giorni per togliere la maschera a Tom Mac Master, cittadino americano residente a Edimburgo.
Un altro esempio? Sulla pagina Facebook di Al Manara, testata libica con sede nel Regno Unito, era comparsa la foto di quello che sembrava un ordigno o una munizione per armi da fuoco di grossa taglia. Su di esso era stampata una stella a sei punte, che aveva fatto dire alla redazione che si trattasse di una fabbricazione israeliana. Mano a mano che la foto e i dubbi si diffondevano sul Web, Carvin mobilitava gli utenti di Twitter per le verifiche. In una quarantina di minuti si scoprì che la stella di David era in realtà il simbolo per indicare i razzi illuminanti, usati per far luce nei combattimenti notturni; l’ordigno – oltre a non essere un ordigno – non era neppure israeliano ma presumibilmente indiano.
Uno degli ultimi casi, invece, è stata la verifica delle voci su una presunta offensiva chimica da parte dei russi che ha fatto preoccupare, nel giugno scorso, gli utenti siriani. Si è detto che potesse essere una pioggia di meteoriti o perfino un attacco alieno. Poi i tweeps di Andy Carvin hanno scovato degli articoli che annunciavano il progetto russo di testare nuovi missili ed il dilemma è stato presto risolto.
Insomma, tutto ciò che Carvin non sa o non può verificare dal suo ufficio a Washington viene gentilmente demandato a chiunque nella Rete possa fornire prove a sufficienza per stabilirne l’aderenza con la realtà. “È un meccanismo che si corregge da solo”, spiega al Washington Post. “È un’operazione aperta di newsgathering […] Molte volte, sono più le domande che faccio delle risposte che do”. E in effetti richieste come “Source?” (ndr, fonte?), oppure “Evidence?” (ndr, prova?) sono talmente frequenti da essere diventate una sorta di cifra stilistica di Andy Carvin.
Niente di così rivoluzionario rispetto agli obblighi dettati nelle scuole di giornalismo. Verificare sempre le notizie risalendo fino alla fonte primaria e incrociare sempre le informazioni a disposizione: è questo ciò che Carvin fa. Una differenza però c’è; ed è figlia del nostro tempo. L’apertura dell’informazione è duplice, nell’epoca della notizia liquida e disintermediata. La rivoluzione che il web 2.0 ha significato per le redazioni giornalistiche va ben oltre la velocizzazione dell’informazione e la trasparenza dei processi attraverso i quali le notizie si confezionano. Lo si è visto bene nei primi giorni dello scorso marzo, quando, partendo da alcune testate locali, Al-Jazeera aveva dato la notizia della liberazione della cooperante italiana Rossella Urru. La voce era rimbalzata sulla Rete, con più attimi di giubilo che di sospetto, e tanto di sfottò alla Farnesina che tentennava sulle conferme. Il triste esito della storia è stato l’occasione per sottolineare l’importanza dello scetticismo, e della verifica che ne deriva, di fronte ai prodotti della Rete. Carvin cerca di mettere nelle pizze fluide dei social network anche questo passaggio e un tweet contenente le parole “*Not* Confirmed” finisce per equivalere a un appello rivolto a chiunque possa rendersi utile nella certificazione della notizia.
È una collaborazione a tutti gli effetti, quella tra Carvin e i suoi follower e mantenere vivo il rapporto diventa quindi centrale. Oltre a trovarsi dall’altra parte del mondo, Carvin non parla nemmeno l’arabo di base, figurarsi i vari dialetti e le sfumature della lingua – e infatti un’altra frase frequente nella sua timeline è: “Can you help me translating this?”. Si capisce allora quale importanza possa avere la fiducia reciproca tra Carvin e i suoi tweeps. Fiducia che si alimenta giorno dopo giorno grazie alla conversazione con i followers, al punto che anche se la verifica non porta da nessuna parte, il tempo speso non è mai considerato sprecato. Lo strategist della NPR sa che chi lo segue attraverso lo schermo del computer o dello smartphone non è un pubblico qualunque. O meglio, non è un pubblico, se per pubblico si intende una platea seduta e muta, con gli occhi puntati verso il palco. Quelle che abitano i social network e la Rete sono invece persone attive che producono tanti contenuti quanti ne consumano, ognuna pronta a dialogare e a mettere il proprio carico di esperienze e competenze sul tavolo da gioco. Per passione o per interesse; rendendosi utile o portando fuori strada, involontariamente o meno.
La comunicazione che Carvin instaura abbandona il modello uno-a-molti tipico dei mass media, per elevare alla potenza quello molti-a-molti dei social network. Chi ha un dubbio e chi ha le carte per risolverlo possono trovarsi, attraverso @acarvin, deejay delle notizie e direttore d’orchestra dell’informazione sulla primavera araba.