La prevalenza del monologo sulla scena pubblica significa che sta indebolendosi il suo contrario: la discussione a più voci, quella umana attività che consiste nell’esame di opzioni alternative e che va sotto il nome di «deliberazione». La tentazione italiana di sfuggire all’essenza «deliberante» della democrazia rappresentativa ha preso varie forme nel tempo: la rissa, il rifiuto di discutere in re, la preferenza per gli argomenti ad hominem, più o meno insultanti, i proclami registrati in video, gli show e ora le conferenze stampa senza domande della stampa.
Giusto che in campagna elettorale si faccia propaganda – e i comizi sono una forma di monologo –, ma c’è un tempo per la retorica e c’è un tempo per le decisioni di governo. La critica e la replica sono il cuore della faccenda: la modernità stessa era, per un precursore dell’Illuminismo, Pierre Bayle, il «régime de la critique», che consente alla ragione esercitata in pubblico di «scuotere il giogo della scolastica, dell’autorità, dei pregiudizi e della barbarie». Classici del liberalismo ottocentesco, come Bentham, sostenevano che la ragione e lo spirito di discussione sarebbero diventati costume di tutte le classi sociali, ma nel secolo successivo l’intervento dei mass-media ha messo in movimento un’onda lunga di segno contrario: la comunicazione dall’alto in basso, il potere che parla direttamente, elettricamente (McLuhan), a milioni di persone. Bertrand Russell già nel 1938 proponeva di organizzare le scuole in funzione di resistenza: i cittadini devono ricevere una formazione di base che li renda «immuni» ai monologhi degli «eloquenti». Jürgen Habermas nel suo libro-svolta di cinquant’anni fa (Storia e critica dell’opinione pubblica) parla del rischio di una «rifeudalizzazione» della società: l’idea che la discussione possa uscire dai salotti illuminati, i «salons éclairés», ed estendersi all’universo mondo diventa utopia. Quel che è seguito all’avvento del mass-medium lo sappiamo bene noi italiani, campioni e vittime famose di uno dei feudi della «neo-televisione» iper-commerciale: monologo senza fine.
Da quasi vent’anni si affaccia la promessa «orizzontale» della Rete, dell’interattività, della connessione mobile, ma questa non ha rovesciato i «feudi», ha solo cambiato il campo di battaglia. Forse lo ha anche un po’ migliorato, ma non ha vinto la guerra. Più facile organizzarsi dal basso, smascherare il potere dei dittatori, mobilitare movimenti, ma la «nuova agorà», la «società trasparente» e tante teorie ottimistiche scagliate contro gli «apocalittici» rimangono allo stato di vapore acqueo, nuvole alte in cielo, irraggiungibili quanto la piena occupazione in tempo di recessione. La vita politica via web ha la sua maggiore effervescenza, ma anche i suoi lati oscuri e semplicemente i suoi difetti: è soggetta a controlli e censure (da Teheran a Pechino), è manipolabile non meno di un Tg di regime. Se questo faceva i «panini», impacchettando le opinioni avverse alla maggioranza e oscurando le critiche, chi gestisce i blog può regolare, dietro le quinte, il flusso dei commenti e dei «mi piace» facendo prevalere gli amici del capo. La Rete non è per niente impermeabile ai poteri esterni. Il monologo è in agguato anche lì.
Russell dunque non si sbagliava sulla coltivazione della capacità critica individuale. È bello godersi i monologhi, nel vincolo affascinante tra l’attore e il pubblico, così ben descritto da Dario Fo nel dialogo con Grillo e Casaleggio (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere). Quel vincolo comporta quel che il poeta Coleridge definì genialmente «sospensione dell’incredulità», ma quando è il politico a fare «storytelling» – ti restituisco l’Imu, ti regalo più treni per i pendolari, il reddito di cittadinanza, Internet gratis e il sapere diffuso per tutti – bisogna «sospendere la sospensione», vagliare. Nel monologo teatrale tu non puoi interrompere per chiedere: «Ma scusa, come fai? con l’aumento della benzina? dell’Iva? con un condono? con metà degli stipendi dei parlamentari? e basteranno?». Non puoi perché il monologo è uno show e non si interrompe un’emozione.
Invece, altrove, per esempio nella giustizia, il contraddittorio è obbligatorio (altera pars audiatur): dopo l’accusa la difesa. E lo è anche nella vita democratica, in Parlamento e fuori. Ricordarselo.
Uscito su Repubblica il 24 marzo 2013